Fede, credenza, paura e rispetto
La vita senza ontologia è la parola stessa, che si struttura di atto in atto e esige di scriversi in direzione della salute, con la clinica. Invece, l’idea di sé e dell’Altro è il modo con cui ognuno si tiene ancorato al fantasma di padronanza: cioè al discorso che presuppone il visibile come base del conoscibile. “Vedere per credere”. “Credere per fare”.
La visibilità è in assenza di memoria; la sua ricerca propone l’assenza di traccia e di memoria, così come l’assenza degli effetti della parola.
Così, che ne è della fede? La fede è senza credenza, è in assenza di idolo, è senza visibilità. La fede non è credere o confidare in qualcosa o in qualcuno, questa è ancora l’idolatria, la superstizione, il compromesso con la padronanza, assegnata o attribuita a chi ne ha il potere o la capacità.
Ognuno si crede e crede che l’Altro sia in un certo modo, così crede di vedersi e crede di vedere l’Altro. Non tenendo conto dell’acustico, di ciò che non si vede ma si ode. L’immagine è prevalentemente acustica, quindi invisibile, a noi ignota; eppure ognuno giura e spergiura di vedere e avere visto tutto: quindi di sapere come si sarebbero svolti i fatti.
Il vedere, la visione è l’altra faccia dell’ontologia, ossia della credenza che le cose preesistano all’atto che le struttura. Ci sono cose note, ma le “cose” che intervengono nell’atto sessuale, nell’atto di parola, come si combinano con le cose note? E con quelle ignote? L’analisi è indicativa proprio quanto alla possibile padronanza sulla combinatoria e sulla sua prevedibilità.
Prendiamo il caso offerto da una ragazza che “improvvisamente”, per così dire, ha paura di non farcela a svolgere il suo mestiere: fa la cameriera in un ristorante e a un tratto “pensa” che non ce la farà, si “sente” morire, si sente cadere a terra, teme di cadere a terra, teme anche e perfino, di morire. Pensa che non ce la farà più a fare il suo lavoro e la paura sembra avere il sopravvento. Qui si combinano fede, credenza e paura.
Lo psichiatra zelante, al cospetto di tanto “panico” (la ragazza piange, singhiozza, si lamenta che “non ce la fa più”, dice di essere disperata, e altre cose ancora sempre in direzione del negativo, con varie rappresentazioni terroristiche) l’aiuterebbe volentieri con qualche psicofarmaco che le consentisse di “superare il brutto momento”.
Senza psicofarmaco alcuno, invece, nel dispositivo analitico, lasciando instaurare l’ascolto, la ragazza “improvvisamente” ricorda che qualche giorno prima ha litigato con il marito, che è anche il suo titolare, il quale l’ha minacciata di “licenziamento”. Anziché aspettare il temuto licenziamento promesso, la struttura del fantasma materno (discorso come causa) in cui si trova gioca d’astuzia: anticipa il licenziamento nella forma dell’impossibilità a lavorare, nella forma della paura di non essere all’altezza delle esigenze del marito/padrone, così da mettere in atto la vendetta: “Dato che (non) sono come tu mi vuoi, me ne vado!”.
Questa l’idea vendicativa. Ma, anziché sbattere la porta e andarsene, si sbatte per terra o si vede sbattuta per terra e rappresenta quell’impossibilità che dovrebbe metterla al sicuro dal sospetto di vendetta. Si vedrebbe, così, costretta a andarsene “per necessità”. Non sarebbe lei a volere andarsene, sarebbe proprio costretta.
All’“occorrenza” che propone il fare quel che bisogna fare “in caso di necessità”, oppone il “caso di necessità”, (quel che si dice: “per necessità”) ossia l’intervento dell’idea ontologica di sé. “Dato che mi conosco, dato che so come sono, temo di non farcela”. Questo “temo di non farcela” è esattamente il corrispettivo del rispetto di sé, o meglio dell’idea di sé in rapporto all’Altro presunto. Dal sospetto di essere licenziata, al rispetto della scena del crimine con correlata la vendetta, con la rispettiva distribuzione della colpa e della pena.
L’abolizione del tempo istituisce il fantasma di ontologia, ossia l’essere delle cose, lo stato di cose, una sorta di ragione di stato, dello stato di cose.
Dalla necessità ontologica, che è sempre un modo di attribuire una volontà all’Altro, all’idea del caso di rispetto di sé o dell’Altro è il soggetto a fare da padrone. Il soggetto del rispetto.
Leggiamo il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia alla voce “rispetto”:
1° “Sentimento e atteggiamento che nasce da stima, deferenza, considerazione verso qualcuno che è o si ritiene superiore e induce riverenza e riguardo (sia in una relazione di familiarità affettuosa, sia in una dipendenza gerarchica o sociale, sia in un rapporto di subordinazione reale o istituzionale o in altre situazioni simili; e spesso comprende anche una più o meno timorosa soggezione).
E “Elevata considerazione, stima apprezzamento per un autore, un artista, per un personaggio del passato.
2° “Sottomissione riverente e ossequiosa a un’autorità, a un’istituzione, a un potere.
3° “Devozione alla divinità”.
5° “Sentimento di riguardo e di attenzione che trattiene dall’offendere gli altri, dal ledere i loro diritti o dal danneggiare i loro beni; considerazione e stima della persona umana in quanto tale.”.
6° “Particolare riguardo verso il pudore e l’onore di una donna. Anche: astensione dall’approccio sessuale e dal discorso amoroso.
9° “ Ritegno diffidente, cautela scrupolosa nel compiere un’azione che si ritiene possa contrastare una convenzione, dispiacere a un’autorità, nuocere a una situazione o a un rapporto, ecc. (E è usato spesso in frasi negative a indicare, con litote, sfacciataggine, disprezzo, temerarietà.
Insomma il rispetto è la base di ogni compromesso sociale che tenda a conciliare la contraddizione facendone l’economia.
Senza tenere conto che la “rispettosa” per eccellenza è la prostituta.
Il rispetto introduce nella parola l’apparato di controllo dello sguardo e dello specchio, presumendo di consentire di guardarsi indietro, di guardare lo sguardo, di vedere lo specchio, di evitare l’impertinente. Introduce un’economia dell’oggetto in perdita, dell’oggetto che si sottrae, dell’oggetto in fuga: tenta di immobilizzare la perdita, la fuga, la sottrazione, la distrazione. Con il rispetto la soggettività tenta di rendere l’oggetto a portata di mano.
Per altro, tenta anche di rendere l’altro conosciuto in quanto temuto: il rispetto è l’altra faccia della paura dell’Altro e di ciò che potrebbe fare contro.
Così, la violenza e la rapina del tempo, diventano la violenza pensata e vissuta, la violenza subita, la violenza e/o la rapina rappresentata.
Così la vendita è impedita proprio dal rispetto. Se interviene questa fantasmatica del rispetto del cliente, questa idea impedisce la vendita, come impedisce la sessualità.
Abbiamo visto come, già nella sua definizione, il rispetto proceda dall’idea di stupro come possibile, di violenza come possibile, da infliggere o da subire. In assenza d’integrità e d’intangibilità.