La pace e l’appagamento
In quale accezione intendere oggi la pace, senza che questa trovi il suo riferimento nella guerra cui dovrebbe porre fine o nella guerra che dovrebbe scongiurare? È noto il motto latino: “Si pace frui volumus, bellum gerendum est”, in cui si fa dipendere la pace dalla preparazione della guerra. Da allora pace/guerra è stato un binomio inscindibile. Come rivolgersi alla pace non già in nome della guerra o del suo evitamento, ma secondo un’ipotesi costruttiva dell’avvenire?
La pace pone la questione del tre, senza alternativa e senza esclusione. Senza il corto circuito fra il tre e il due. Non c’è unificazione, non c’è ritorno all’unità.
Fare la pace? O fare la vendetta? Andare in pace? Con quale compromesso?
La pace è lo stato naturale delle cose o è lo stato di quiete da acquisire come segno dell’avvenuta circolarità? La pace è conquista o ritorno?
Dove situare la pace? Dove situare l’appagamento? E il pagamento? Occorre distinguere fra pace e pacificazione.
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Tolto l’investimento, il pagamento diventa il pagamento del tributo, il segno del debito ontologico dello schiavo nei confronti del padrone. Anche e soprattutto di quello che lo ha liberato. Pagare le tasse. Pagare con la vita, con il sangue.
L’economia dell’appagamento si doppia sull’economia del pagamento, come segno dell’appagamento che verrà. La mentalità soggettiva crede che l’economia pulsionale possa determinare il massimo appagamento, sul principio del risparmio. Risparmio del tempo, risparmio delle forze, risparmio energetistico. Perché fare se è possibile farne a meno?
Se il pagamento diventa risarcimento o premio, vigono gli istituti della colpa e della pena che devono regolare e governare, nonché educare il soggetto suddito.
L’appagamento, il pagamento, la pace. Per lo statuto intellettuale, l’appagamento è cifrema del viaggio, dell’itinerario in atto e in corso.
Come andare in direzione della pace se la paura della vendetta, della ritorsione, della punizione, della pena, della fine alimenta lo scenario tragico dell’alternativa?
Perdere la vita? Perdere la pace?
Conciliare la contraddizione? Negare la differenza? Negare la variazione? Ecco la pacificazione. La riappacificazione. Metafore del ritorno.
Che non ci sia ritorno è quanto esplora quel ragazzo che si credeva innamorato e saldamente legato a una ragazza che invece lo “lascia”. E egli spera che possa “ritornare” con lui. E dice che la ragazza deve “ritornare” quella che conosceva. Come può accadere che qualcuno “ritorni” in sé? O con sé?
“Tornare a essere quello/a di prima?”, “Tornare a casa?”, “Tornare alle origini?”. “Tornare nel grembo materno?”, “Tornare indietro?”, “Indietro non si torna!”. “Tornare sui propri passi?”.
Il ritorno è anche la metafora del maternaggio; ritornare il “cocco di mamma”, il “cocco di papà”.
“Tornare insieme”? Tornare al punto di partenza? Tornare allo status quo ante? Ripristinare lo stato di natura?
Ogni idea di ritorno è un’idea mortifera!