La volontà
Volontà di pensarsi? Volontà di credersi? Volontà di essere? Se il tempo interviene come taglio, parlando, chi può gestire il taglio? Chi può impedirlo? Chi può volerlo?
Come prevedere quel che accadrà se il taglio è imprevedibile e impadroneggiabile?
La questione della volontà ruota attorno a queste varie questioni e a altre. Come sorge l’idea di volere? E il motto “Volere è potere”?
Tutto ciò sorge nella direzione di potere porre un argine all’impadroneggiabile, all’ingestibile.
Come spazializzare la parola? Con l’algebra e la geometria: introducendola in un sistema in cui possa rappresentarsi la visione di quel che dicendosi dovrebbe poi accadere.
Per questa presunta esigenza di padronanza viene creato il supporto fantastico di questa padronanza ritenuta possibile, anzi doverosa.
Allora per potere controllare e padroneggiare l’atto, l’accadimento, l’avvenire, l’evento, viene anche creato l’agente: il soggetto che ha volontà di fare.
Ecco, in questo modo non c’è più l’istanza, non c’è più la domanda, non c’è più l’esigenza; questi che sono modi della pulsione, modi della rivoluzione verso la qualità, vengono accantonati e sostituiti con le modalità soggettive: in primo luogo la volontà.
La volontà mantiene l’idea di padronanza sostenuta da un soggetto agente e ciò che si fa viene tolto dalla procedura e dalla processione della parola, viene tolto dal dispositivo per essere inserito in un’azione di cui l’agente deve essere noto. Non c’è più la pulsione, ma la volontà. Da cosa deve essere retta questa volontà? Dall’idea di bene. È la volontà di bene. Guidata dal soggetto.
Niente più transfert, niente più lingua, niente più comunicazione ma un’ideologia del bene con le sue varianti e le sue eccezioni che debbono rientrare nella controllabilità.
Ecco l’intenzione: l’intenzione deve sostituire il desiderio, con la sua menzogna inassumibile, l’istinto, con il suo equivoco, il bisogno con il suo malinteso. Quel che non giunge a compimento si spiega con i difetti soggettivi, con i limiti soggettivi, i limiti di ognuno che ognuno deve imparare a conoscere e a rispettare. Così può istituirsi una classificazione dei deficit, delle mancanze, dei vizi, dei difetti. E ognuno può conoscerli.
Dunque, ognuno può volere, può volere il bene, il bene comune: se questa volontà non è in direzione del bene comune, di ciò che comunemente viene considerato il bene, allora interviene la classificazione dei vizi e dei difetti per indicare che il cervello era malato.
Cosa può volere ognuno? Solamente il bene. Ma, chi è sicuro del bene? Qual è il bene? Il suo bene? Il bene altrui? Il bene dell’Altro?
La volontà soggettiva: fare o volere fare? Collaborare o volere collaborare? Scrivere o volere scrivere?
La volontà dovrebbe consentire di vivere secondo i propri mezzi senza progetto e senza programma di vita. Volendo il bene, il proprio bene: una sorta di amor proprio.
L’idea di buona volontà consente la rappresentazione del soggetto animato, intenzionato, volente o nolente. Questa accezione di volontà istituisce ogni sorta di compromessi con il possibile, con ciò che viene ritenuto possibile: quel che si vuole lo si vuole nell’ambito del possibile.
La volontà esclude tanto l’occorrenza, quanto l’adiacenza. Esclude la disposizione, esclude il dispositivo. La volontà infatti presuppone la cognizione di causa, per un verso, per l’altro la libertà di scegliere, la libera volontà.
Qual è la creatura fantastica che può esercitare queste sue prerogative? Il soggetto padrone di sé. E qui sorgono i problemi perché questa padronanza è ideale e non può avvalersi nemmeno delle indicazioni pulsionali, della costrizione pulsionale, dell’occorrenza pulsionale né della logica della parola. Di cosa si avvale allora? Del conformismo, del luogo comune, dell’idea conformistica del bene comune; della volontà indice, appunto, del bene comune.
La volontà dovrebbe contrastare la paura di vivere, ma non fa che confermarla.