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Recensione del libro di Edelio Tomasi. La bella d’Egitto

Il tempo e l’avventura

Anche il romanzo La bella d’Egitto, di Edelio Tomasi verte intorno alla madre e alle donne e indica quale sia la fantasmatica di potere amare la madre, addirittura di potere fondare la vita sull’amore della madre. C’è una sorta di alternanza tra la donna e la madre, ma l’anfibologia tra la donna da amare/che ama e la donna da odiare/che odia indica trattarsi di un’idea materna, un’idea della madre.

Questo romanzo ci indica che il regno dell’amore è il regno della morte.
Mahmoud el Rashid, il protagonista, scapolo, vive con la sorella, l’altra madre, nel rimpianto del grande amore perduto. E la tragedia di Mahmoud che diviene vita quotidiana è l’amore, l’amore universale che dovrebbe rigenerare il mondo.

Pg. 256-257. “Amiamoci come se ogni giorno fosse l’ultimo” “Non deve rimanerne traccia”.
Ciascuna cosa deve compiersi senza la traccia.
Si tratta in questo romanzo di un sogno del protagonista intorno alla sua vita, dove il padre, il figlio, l’Altro trovano come pretesto la storia dell’Egitto e della regina Nefertiti.
La traccia negata intreccia la narrazione dal suo cominciamento fino alla sua conclusione.

Che ne è del tempo nel regno dell’amore? Il tempo deve finire, la vita deve finire, l’epoca deve finire perché possa instaurarsi l’età dell’oro, l’età della purezza, la nuova vita. Così ogni amore è transitorio in vista di quello che sarà eterno, perenne. Ma questa perennità è sempre posta nell’avvenire, in un avvenire migliore, mentre nell’attuale è sempre coglibile il segno del male.

Tolta la madre, è impossibile il malinteso che funziona nella parola. E, quindi, vige la dicotomia chiarificatrice, la verità unica.
In questa magnifica avventura Mahmoud, il commissario, il prof. Gramm, Thutmosi, Nefertiti, Tamar, sono controfigure l’uno dell’altro, il presunto doppio la cui traccia deve essere spezzata perché incestuosa, perché pensata relazione tra loro.

Ma, siamo oltre la fiaba, infatti non c’è il lieto fine, non c’è proprio la fine; anzi le cose non finiscono, il sogno non finisce. Come indica chiaramente la chiusa, il professore non muore, Thutmosi non muore, perché questa credenza, questo punto di vista sulla vita e sul mondo si dissipa dinanzi all’enigma che si scrive e mai si risolve.

Prendiamo a esempio le fiabe; Hansel e Gretel, Rosaspina. Un’idea di famiglia negativa le ispira.
La questione della vita si pone nell’itinerario dal ringraziamento alla restituzione. Lo spreco della vita sta nell’assenza di restituzione. “Non ho nulla da dire, nulla da dare, nulla da fare”. Questo è il motto del soggetto dello spreco: che va dalle rappresentazioni dell’accumulo a quelle della scarica.

Lo stress, allora, è anche la tensione alla restituzione. Il relax, tanto agognato dal paganesimo contemporaneo, è il vivere senza restituzione. È evidente che la soddisfazione segue alla restituzione, perché è effetto dell’approdo alla cifra.
Di che cosa si tratta nella restituzione? Della restituzione in cifra delle acquisizioni del viaggio che ha la sua condizione nei talenti “ricevuti”. La parabola evangelica è indicativa al riguardo, e molto interessante.

Non c’è chi sappia quanti e quali siano i talenti se non nella scommessa di vita che è anche scommessa d’impresa. Ma, senza la restituzione “sarà pianto e stridore di denti”. Mt. 25,30. Il pianto di chi rimpiange le occasioni sprecate.
I talenti sono la spinta al viaggio e sono “propri” per quanto il viaggio consente di indicarne le proprietà. Non sono mai posseduti e mai perduti. I talenti non si prestano alla vista, non si prestano a essere visti, se non nel fantasma che si rappresenta l’idea di sé. I talenti non sono le doti personali che ognuno crede di avere, ma il dispositivo di forza per intraprendere il viaggio. Chi è affaccendato nella cura di sé, nell’amore di sé, nell’idea di sé può non accorgersi dell’occasione e del dispositivo, perché si è reso indifferente alla domanda, quindi alla vita. Così può credere di potere fare da solo, crede nella vita “fai da te”, senza l’interlocutore, senza i dispositivi che con l’interlocutore divengono per la riuscita, dispositivi intellettuali. Dispositivi dello stress della vita.
Della morte non c’è sapere, nonostante la ricerca in vari campi si rivolga alla prevedibilità, alla previsione della morte, alla conoscenza della morte.

Questa della conoscenza è una condanna di lunga data. Anche il mito di Adamo e Eva e della cacciata dal paradiso terrestre è appunto il mito della conoscenza presunta. L’idea di conoscenza procede da quella di mortalità: è idea di durata, idea di fine. E, infatti, nel mito, dopo la conoscenza cosa avviene? La cacciata, la fine, la sanzione di mortalità.
L’uomo, quell’animale fantastico chiamato così, non aspira all’immortalità, ma alla morte, e la sua sfida ritiene sia quella di prevederla.

Anche il mito della cacciata, a suo modo, è invece mito del viaggio. Ma, con la conoscenza, niente viaggio.
Un altro mito del viaggio è quello di Edipo: Corinto, Tebe, Colono. Tre città, possiamo anche dire tre famiglie, o, meglio, tre modi di pensare la famiglia. La famiglia della presunta origine, la famiglia dei ricordi fantasmatici, la famiglia come dispositivo. Dal viaggio risalta la famiglia come traccia. E il viaggio è indispensabile perché avvenga l’elaborazione, l’attraversamento, perché la traccia si scriva.

Edipo a Corinto è minacciato dal fantasma di morte, quindi parte per evitare di uccidere Polibo e uccide Laio, entra a Tebe dopo che la Sfinge non c’è più, dopo la dissipazione del fantasma di mortalità, dopo la dissipazione del fantasma di alternativa che la mortalità pone.
“Siamo uomini!”, cioè, “Siamo mortali”.
Nella civiltà giapponese il mito della famiglia è il mito di Ajasé, il mito della madre.


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