Recensione del libro di Pier Francesco Paolini. Parole e sangue
La famiglia, la madre, l’impresa
Quello di Pier Francesco Paolini, Parole e sangue, è un romanzo sulla famiglia originaria, sulla famiglia come traccia. Si tratta della famiglia senza origine, senza spazializzazione, senza genealogia che possa realizzare il fantasma della predestinazione. Poche volte come in questo romanzo è dato coglier con questa intensità e questa precisione che il mito della madre è il mito del tempo che non passa, non scorre e non finisce. In particolare, la madre indica che il malinteso non può togliersi, non può essere risolto, non può dissiparsi. E indica che con il tempo s’instaura la semplicità.
All’inizio e alla fine del romanzo, ci sono gli stessi elementi narrativi: Tullia, Formica, il genitore come animale fantastico della virilità, viene evocato Norberto, il marito, e viene evocata la madre, con la domanda di Tullia “Dov’è la mamma, Formica?”. La domanda si ripete anche nel secondo capitolo: “Papà, dov’è la mamma?”, e ancora all’ultimo capitolo “Dov’è la mamma, Formica?”. Quasi a ribadire che quel che non si assolve e non si articola, insiste e si ripete.
In questo romanzo, Tullia, la protagonista, non fa che cercare la madre, occorre dire senza trovarla, senza incontrarla. In ogni momento che sembra propizio per l’incontro, la madre, apparentemente, non c’è. Non sta lì dove è presunta. Sorge allora una domanda: la madre è da incontrare? È incontrabile?
Qui è evidente che Tullia fantastica l’incontro con la madre come impossibile e infatti, la madre non è mai incontrata. Il romanzo narra che la madre è sempre allontanata, respinta, seppure l’allontanamento sia attribuito alla madre.
Qui s’intrecciano elementi fantasmatici e originari: Tullia attribuisce alla mamma, come segno negativo, di non trovarsi mai all’appuntamento con lei, nei momenti importanti della vita e, quindi di non incontrarla. Quante volte capita di sentire dire: “Nei momenti importanti, mia madre non c’era mai”, “Mia madre è stata sempre assente”, “Non ho mai avuto il suo affetto, il suo amore”. Poi, nel racconto del romanzo familiare, si viene a sapere che la mamma si lamentava spesso della sua condizione, delle sue fatiche, minacciava di andarsene, minacciava di morire, minacciava di sparire, poneva prescrizioni e divieti. Era, insomma materna.
Ecco la questione importante: Tullia invoca non già la mamma, ma la madre. Tullia parla con Formica la lingua personale, la lingua natìa, parla nella sua lingua, dice “pane al pane e vino al vino”, sempre che fosse possibile, cioè parla senza tensione linguistica, senza tensione intellettuale, senza l’ascolto di quel che si dice fra le righe. Parla, cioè la lingua del realismo. Attribuisce alla mamma la proprietà del tempo, cioè l’odio. L’insistenza sulla mamma comporta che non vi sia la madre, che non sia instaurata la madre come indice del malinteso.
Tolta la madre, l’Altro è messo a morte; la conseguenza è il realismo fantasmatico, l’idea applicata alle cose, a sé, agli altri che tutto possa, debba finire. Infatti, l’amante muore, messo a morte dal marito. Il quale marito è fatto fuori prima ancora del matrimonio, con il dono di nozze, dono di morte. Che Tullia persegua la fantasia di Atena è evidente: ella è nata senza madre. La conseguenza è che suo figlio nasce senza padre, il quale, infatti, poi muore, fatto uccidere appunto dal marito. E lei diventa il pretesto per l’uccisione transitiva. La donna che uccide.
La fantasia che il romanzo esplora è questa: “Che ne è della mia vita, senza la madre? se la madre non c’è? Se la madre muore, o è morta?”. La risposta è il romanzo stesso, che lungo questa fantasia esplora la logica degli anni di piombo in Italia. È veramente riuscito l’intreccio logico e clinico tra quello che è quasi un reportage di quegli anni, dove alcuni avvenimenti sono fedelmente testimoniati con resoconti dei giornali dell’epoca, anche se il lettore può anche non accorgersi di questa minuzia giornalistica e storica, e l’intrigo determinato dalle vicende dei protagonisti.
Senza il mito della madre, ci sono, appunto, gli anni di piombo: la città è spazializzata tra il bene e il male, a tutto vantaggio del male, ovviamente, la sessualità è assente e anch’essa spazializzata tra femminilizzazione e virilizzazione, nella trasgressione; la società, corrotta, trascorre tra complotti, intrighi, malaffare, tradimenti. È la società dove tutto è marcio, corrotto, da purificare.
In assenza della madre, vige la genealogia. E, infatti Tullia contraddice la genealogia, trasgredisce a quella che crede la legge genealogica dell’incesto, dovendo compiere la trasgressione che sarebbe il segno della liberazione.
Non c’è relazione con la madre. Questa relazione, se ci fosse, sarebbe l’incesto. Per questo l’idea di questa relazione è assolutamente insopportabile. Ciascun discorso tenta di padroneggiarla, credendoci, e mette in atto i vari accorgimenti per evitare quel che non c’è, per evitare la predestinazione che non c’è. A pg. 20: “Non è facile essere figlio unico di madre abbandonata”, (Norberto). A pg. 20: “Nessuno me lo toglie dalla testa che la Serpilla abbia avuto, a suo tempo, una storia con tuo padre.” (La madre di Norberto a proposito di suo padre e della madre di Tullia). A pg. 22: “Senza contare che potrebbe esserci un cincinin d’incesto. Se sua madre è stata davvero l’amante di tuo padre.” E ancora a pg. 22: “Il padre era implicato in uno scandalo … se ne dissero tante, di cotte e di crude. Purtroppo non sono riusciti a provare mai niente. Così non poterono metterlo in prigione”. (La madre di Norberto a proposito della madre di Tullia). A pg. 23: “E così, non potendo portarle via il marito, le ha portato via l’amante – per farne il tuo futuro suocero.” (La madre di Norberto a proposito della madre e del padre di Tullia).
Ovviamente, occorre leggere tutto ciò come materiale fantasmatico che sta nei pensieri di Tullia. È Tullia a avere questa rappresentazione fosca della famiglia e dell’ambiente che la circonda. Ciò che è importantissimo considerare è che senza avere analizzato la famiglia, la sua fiaba, i ricordi, le credenze che ruotano intorno alla famiglia di origine, ognuno vive in un mondo fiabesco, irreale, che è la rappresentazione che segue all’applicazione dei ricordi. È chiaro che tutto appare molto realistico, verosimile e che ognuno sarebbe pronto a giurare e spergiurare che è l’Altro che è negativo, malvagio, terribile; che le cose stanno proprio così, che è tutto reale. Appunto: in assenza di lettura, in assenza d’intervallo, in assenza di ascolto, in assenza di clinica. In assenza dell’Altro.
La mancata elaborazione della famiglia originaria conduce al fantasma del matricidio: qui la morte della madre è invocata dalla figlia, che vuole umanizzarla. La madre, nel mito, infatti, non è umana. È immortale, indice del tempo, dell’altro tempo, tempo che non passa, che non scorre, che non finisce.
Il libro incomincia e termina nella stessa scena, nella cucina della casa paterna, con la vecchia governante cieca, Formica. Solo al termine apprendiamo che è cieca, solo ora che al lettore, il novello Tiresia, sta per svelare l’enigma del godimento. La madre gode? La donna gode? Il padre gode? Tu godi? Chi gode?
Questo sembra essere l’interrogativo che mette inquietudine a Tullia, e la conduce a fantasticare sul proprio matrimonio.
È come un’allucinazione a occhi aperti: e il romanzo trascorre nel tempo di quest’allucinazione. Il romanzo racconta il caso di Tullia, che, preoccupata, pensa che la madre stia per morire. Ecco la questione analitica con cui il romanzo si apre, ma che solo al termine del romanzo è dato cogliere con precisione: qual è il destino di chi ritenga che la madre sia mortale, stia per morire o sia sotto minaccia di morte?
Noi abbiamo la possibilità di esplorare il fantasma di genealogia con la mappa della famiglia, esplorando, cioè, la famiglia come traccia, traccia linguistica, logica. Traccia dell’interdizione linguistica, attraversando, quindi e elaborando il fantasma della predestinazione.
La questione clinica è che la madre ha la sua sede nell’intervallo dell’amore, della ricerca. È più vicina all’odio che non all’amore, nel senso che l’odio è una proprietà della madre, non certo l’amore. È psicotizzante credere o promuovere la credenza che vi sia o debba esservi amore o, peggio ancora, “relazione d’amore”, tra madre e figlio: non c’è nessuna relazione tra la madre e il figlio.
È la questione che viene rappresentata dall’anoressia. Non c’è vincolo né sostanza che vincoli alla madre.
Il padre è funzione dell’impossibile dell’avere. Il figlio è funzione dell’impossibile dell’essere. L’Altro è funzione dell’occorrenza. La madre è essenziale all’occorrenza. Un indice dell’occorrenza.