Recensione del libro di Armando Verdiglione. Il capitale della vita.
Il movimento cifrematico e la sua realtà in Italia e nel pianeta
Il libro di Armando Verdiglione, Il capitale della vita si apre con il capitolo intitolato Il movimento cifrematico e la sua realtà in Italia e nel pianeta. Leggendo il libro risulta constatabile che non poteva essere altrimenti. Questo capitolo pone in risalto una procedura, un procedimento e un processo che trovano riscontro nelle vicende dell’esperienza: intanto, nessuna assegnazione di corpus o status sociale al movimento, nessuna corporazione, nessuna delimitazione. E questo risalta già nell’uso della minuscola, e non della maiuscola, al termine movimento che quindi non designa una qualche entità, ma il movimento nella sua proprietà e nel suo statuto intellettuale.
Già l’esordio introduce all’inimmaginabile, all’imprevedibile, all’inconoscibile. E traccia nelle prime pagine la direzione verso la qualità assoluta, in assenza di ammiccamenti ai luoghi comuni, al senso comune, al discorso comune fornendo alcuni termini della salute quale istanza di qualità. E risalta anche che questa istanza procede dalla libertà quale virtù del principio, quando la libertà non viene volta in ideologia o teologia della liberazione. Senza questa accezione di libertà, la parola originaria viene volta nel discorso dell’ordinario, nel discorso come causa, nel discorso occidentale.
In queste prime pagine del Capitale della vita, si avverte qual è stata l’esigenza di procedere all’invenzione del termine cifrematica, che indicasse lo statuto intellettuale assoluto e la novità estrema di quest’esperienza. E questo non è valso a rinnegare la psicanalisi ma, al contrario, a assumerla nella cifrematica nel suo aspetto di esperienza della parola e qualificandola in termini di valore, e non già come disciplina della mentalità o dello “psichismo”, accezione che gli apparati gnostici avevano ormai insinuato nel discorso comune.
Ogni richiamo storicistico, commemorativo, libresco, accademico alla psicanalisi si rivolge a un idolo, a una sua rappresentazione, a una sua visione possibilistica, a una superstizione. Come dimostra chi si ostina a chiedere cosa sia, volendo in realtà evitarla, conoscendola. Effettivamente, la ben nota formula: “Se la conosci, la eviti” è calzante: la conoscenza è la via dell’evitamento. Ognuno che abbia l’intenzione di evitare qualcosa punta a conoscerla, oppure ne realizza l’evitamento facendo come se la conoscesse.
La conoscenza è riservata alle cose morte. È un rito necrofilo. La conoscenza è un miraggio del discorso scientifico che l’esperienza psicanalitica dissipa. Nessun elemento dell’esperienza è conoscibile, nessun elemento dell’esperienza è riproducibile. Ciascun dettaglio del racconto va in direzione della novità. Sta qui lo scacco e lo smacco del discorso scientistico che per paura invoca la conoscenza e i suoi derivati: la statistica, i protocolli, la normalità. Capisaldi della normalizzazione.
La psicanalisi, in quanto esperienza dell’originario, esperienza della parola originaria, è inconoscibile. E non trasmissibile. L’arte, la terapia, la differenza, la scrittura pulsionale non si possono insegnare o apprendere come fossero nozioni. L’esperienza è originaria perché si fa. È originaria per chi la fa. La psicanalisi non partecipa alla logica del sistema, non è una sistemistica né una sistematica. Non è un sistema di segni, né un sistema di regole, né di norme, né di motivi, anche se norme, regole, motivi sono essenziali per instaurare il dispositivo analitico, per giocare la partita, per avviare il viaggio intellettuale.
La cifrematica è attuale nell’atto che la inaugura; qual è questo atto? È l’atto di parola, di scrittura, di lettura. Si tratta in ciascun caso della parola e del suo testo. Della sua logica. E dei suoi effetti. E della sua struttura. Qual è la struttura della parola? Il transfert. Con le usure della parola e gli effetti di senso, di sapere effettuale e di verità effettuale, con ciò che ci va attorno, assieme alla circostanza, alla ricerca, all’impresa della parola.
L’incubo dell’epoca è per lo più costituito dallo smaltimento di ciò che si produce. Il prodotto – rifiuto. Il bello della cifrematica è che nulla dev’essere buttato, rifiutato, smaltito, ma ciascuna cosa contribuisce al viaggio, alla sua qualità. Ciascuna cosa si integra nel viaggio. Questo processo per integrazione è specifico e quasi impossibile da capire per chi si presta al sostanzialismo. È oltre la sostanza. Cioè senza la sostanza e il suo principio.
Alcuni intendono che transustanziazione sia cambiamento, metamorfosi, passaggio; queste sono metafore della consustanziazione, della conferma, della consacrazione della sostanza: da una sostanza all’altra, cambiando ora forma (metamorfosi), ora genere (analogia), ora tipo (somiglianza). Per l’omologia. Ma, radicalmente, oltre la sostanza, non c’è più sostanza. Ciascuno vive oltre la sostanza, senza sostanza, allora, vive e non vegeta seguendo la parabola naturalistica del ritorno alla natura, del ritorno alla sostanza da cui proviene. Ma, chi proviene dalla sostanza? E da quale? E qual è il vincolo con questa sostanza?
L’idea di appartenenza è una variante dell’idea di genealogia. Da qui procede il tabù dell’incesto secondo cui non bisogna incontrare, vedere, avere a che fare con un rappresentante della stessa origine. Ma l’origine è un fantasma spaziale, sostanziale grazie a cui ognuno tenta di darsi un’identità stabile, naturale o tenta di dimostrare di avere un’identità che giustifichi i suoi pregiudizi. Si tratta poi di partecipare del discorso che si basa su questi pregiudizi e farne un discorso comune.
Già nel primo capitolo del libro, Verdiglione indica che il fantasma di origine è un modo, un tentativo di contrastare il movimento che ha la sua struttura nella sintassi e la sua condizione nello specchio. Così l’emozione è originaria e si qualifica come la constatazione della struttura della sintassi, l’accento posto su ciò che incomincia, quasi la sensazione dell’incominciamento. Mentre l’entusiasmo è la virtù della sua condizione, lo specchio. E già questo c’introduce alla logica della nominazione con le sue logiche particolari, secondo cui si attua il dispositivo pulsionale.
Ciascun atto accade, avviene e diviene secondo queste logiche e il modo del tempo. La combinazione esige l’infinito attuale e le combinatorie sono infinite. Impossibile prescrivere un metodo, una metodologia, impossibile prevedere come e quando qualcosa accadrà.
La pulsione è secondo la logica. La pulsione, la forza costante che trae verso il compimento, la scrittura, la conclusione, la finanza, la qualità, la cifra del viaggio. Nel procedere della pulsione, della domanda, dell’itinerario accadono e avvengono strutture: linguistiche, narrative, pragmatiche. Il transfert, con le sue due facce, il parricidio e la sessualità, la memoria, con i suoi due bordi, l’arte e l’invenzione, la ricerca e l’impresa.
La salute è l’istanza della qualità. Istanza che si produce nella struttura. Struttura è ciò che accade, avviene, diviene. Il viaggio integra logica e strutture; le strutture esigono i dispositivi: narrativi, scritturali, economici, finanziari, di vendita, di comunicazione. Sono anche dispositivi di salute se si attengono allo statuto intellettuale. Lo statuto intellettuale, secondo cui non c’è sostanza, indica che non c’è qualcosa di già dato: nulla è dato per scontato, ma nemmeno nulla è dato. Non c’è cosa che possa costituire un dato dell’esperienza. La salute sta oltre la scrittura della struttura, oltre la clinica, all’approdo alla cifra.
È per questa via che si tratta di conseguire i risultati. Ciascuna cosa esige l’analisi e il processo di qualificazione. Allora giungono i risultati della ricerca e dell’impresa. La vita, nella sua struttura è questo: ricerca e impresa che tendono ai risultati di qualità.
C’è una certa radicalità in questo, no? Un certo estremismo. Parodiando Humphrey Bogart, diciamo: “Ebbene, questa è la cifrematica, bellezza!”.
E proseguendo, la lettura del libro s’imbatte nel malinteso della transitività, per esempio a proposito del fare. Il fare è la struttura dell’Altro, sogno e dimenticanza. Non si tratta del verbo fare e della sua coniugazione all’infinito. Non è il verbo fare in questione ma ciò che si struttura. Il fare è una struttura. Non entra nella fattibilità, nella possibilità di fare, di coniugare, di declinare il verbo. Non attiene al cosa fare. E tuttavia le cose si fanno. Occorrono. E qui interviene il gerundio del fare, nell’esperienza, nella rivoluzione. Come il gerundio attiene alla struttura? L’Altro è una funzione. La struttura sta nell’esperienza. Integrazione di logica e struttura.
Così, dice Verdiglione, “noi facciamo”. Non già noi nel fare, ma “noi facciamo”. Perché, “noi facciamo” esige il gerundio.
Nel Capitale della vita troviamo uno straordinario capitolo sulla paura.
La paura concretizza il suo fantasma e crea lo spettro, l’entità che deve giustificare la paura nel suo realismo, nella sua causa agente. La mancata analisi della paura, in assenza di transfert, crea la sua giustificazione. E conferma il sistema della vendetta con la sua biforcazione: l’assegnazione della colpa e la comminazione della pena. È il sistema punitivo, cui fa riscontro, nella sua specularità, il sistema della classificazione dei mali. Tutto ciò possiamo chiamarlo l’apparato della coscienza.
Nell’apparato della coscienza bisogna che ogni cosa rientri nel prevedibile, nel calcolabile, nel possibile; quel che si aggiunge come novità deve incasellarsi nel sistema e nell’apparato altrimenti dev’essere respinto come turbativa del sistema stesso. Questa è la logica del sistema che non ammette l’adolescenza se non come condizione limite, come eccezione, come turbativa dello stato di quiete. L’adolescenza è contraddistinta dall’aumento, dalla crescita; e procede dall’autorità. L’idea naturalistica della crescita è energetistica, termodinamica. Deve finire. Ecco il concetto di adulto: senza più crescita. Ma come calcolare, quantificare, misurare la crescita intellettuale?
Il sistema della vendetta poggia sulla rivendicazione, in nome di un presunto diritto umano al godimento, al sapere, alla verità, dati come causa dell’essere. Il diritto umano, i “diritti umani” sono modi per eludere la questione e alludere invece alla rivendicazione come condizione umana.
La questione del diritto va in direzione non già di un diritto da accampare in quanto soddisfarebbe una presunta legge naturale, ma del diritto che, instaurandosi sul terreno dell’Altro, fa sì che ciò che si sta facendo giunga alla qualità. Questo diritto ha come sue proprietà l’umiltà, la generosità, l’indulgenza. Proprietà che dissipano le rappresentazioni del finito, del limitato, del debole, dell’incapace, del malato. È questo ciò che può chiamarsi effettivamente il diritto civile. Il diritto su cui sorge la città come città dell’Altro, città dell’ospite, città del tempo.
La questione intellettuale pone lo scacco della coscienza e del suo sistema: ecco perché è piuttosto invisa agli apparati disciplinari. L’esperienza della parola originaria, l’esperienza originaria sfugge alle metodologie della prescrizione e della previsione. L’esperienza si scrive, esige la scrittura dell’esperienza e della memoria; memoria i cui bordi e sentieri sono l’arte e l’invenzione.
Esperienza unica, speciale. Originaria. Esperienza senza riferimento a ciò che è già stato, a ciò che rientra nella consuetudine o nell’abitudine. Sono proprio questi solitamente i criteri che vengono applicati alle cose da fare. Sono questi i freni, le limitazioni che ognuno si dà rispetto all’urgenza delle istanze che così risultano insoddisfatte e sfociano nelle svariate sintomatologie.
La soggettività, che si radica nell’idea che ognuno ha di sé e nell’idea che ognuno ha dell’Altro, è impedimento al viaggio perché fa rientrare il viaggio nel dejà vu, nell’abitudine, nell’alone della predestinazione. Il soggetto crede di dovere vivere di certezze, ma, l’unica certezza che ha è di dovere finire. Vive quindi di questa certezza, che si riverbera in ogni altra. Così, in questa mentalità, ogni cosa deve certificare la fine e essere certificata dalla fine. E ognuno accoglie di buon grado la fine dicendo, per esempio: “Si vede che non sono fatto per questo”, oppure “Si vede che non era destino”.
Se invece di attrezzare e istituire i dispositivi necessari all’occorrenza, ognuno si affaccenda a rispettare i propri tabù e le proprie credenze, la soggettività prevale. Affinché non prevalga, occorre s’instauri l’interlocutore.
Qual è la lingua di ciascuno? Qual è la lingua della parola originaria?
Che cosa indica che l’interlocutore si sia instaurato? Il processo di valorizzazione in atto. Processo che segue l’analisi, segue il teorema della sostanza, segue la dissipazione soggettiva, e introduce alla disposizione al viaggio e al valore. Occorre pure disporsi al valore. Non è che arrivi per magia o per inerzia. E disporsi non vale ancora a conseguirlo. Si tratta quindi dello statuto intellettuale.
Se, parlando, ognuno indugia al convenevole secondo la lingua dei litiganti, secondo la propria idea della convenienza, non c’è interlocutore; se parlando, ognuno ritiene di potere dire ciò che vuole secondo le gergalità più diffuse e attenersi alle relative credenze senza attraversarle, non c’è l’interlocutore. Se accingendosi a fare, ognuno ritiene di rappresentarsi l’esito di ciò che fa, non c’è l’interlocutore; se, accingendosi a fare, ognuno ritiene di dovere conformarsi alle proprie presunte capacità o incapacità, senza porsi in direzione del valore e del messaggio, non c’è l’interlocutore. L’interlocutore impedisce di rassegnarsi, di sbracarsi, di accontentarsi, d’inveire, di rappresentarsi al modo dell’animale presunto di riferimento di sé o della propria presunta origine, di rivendicare, di arrendersi all’evidenza, di consegnarsi alla coscienza.
L’interlocutore, nella psicanalisi, è lo statuto intellettuale di cui si avvale il transfert perché ciascuna cosa parlando, facendo approdi alla qualità.
La dissipazione del fantasma materno esige l’industria della parola, la sua struttura, senza più sordità, senza più assordamento, senza più il ricorso al senso comune, al discorso comune, al discorso della generalità. “Generalmente…” Così comincia il discorso comune con i suoi vademecum per il caso generale…
La dissipazione non è automatica: una rappresentazione materna può anche “alleggerire” la sua presa senza che questo indichi la sua dissipazione. Senza la nominazione, senza l’acquisizione di ciò che la logica della nominazione comporta, la dissipazione resta un miraggio. Una rappresentazione materna può variare, può volgersi in altre rappresentazioni se la logica materna che la supporta non è dissipata. La dissipazione esige la logica della nominazione: la logica singolaretriale attraversata dalla logica diadica. La cura è data dall’instaurazione della logica della nominazione e del modo del tempo. Senza più invischiamento nelle tipologie dettate dai ricordi. Senza più l’esigenza di doversi rassicurare.
Un conto è la cura e un conto la rassicurazione. Un conto è la sicurezza, l’assicurazione, l’immunità, un altro conto è la rassicurazione. La rassicurazione, la ricerca della rassicurazione, la somministrazione della rassicurazione indicano la loro altra faccia, cioè la paura.
La paura è paura della presa, paura di venire preso, imprigionato, reso schiavo. Anche dalla morte. Ma, quella che può sembrare una paura preventiva, volta a evitare la presa su di sé, è in realtà la conferma della credenza. Come indica l’epilessia, il male della presa. “Che cosa mi può capitare se vengo preso? Quale scuotimento, quale movimento?”. La presa dell’entusiasmo. L’attacco. La presa per forza. La presa di forza. Oppure la catalessi(a), la presa che rende immobili.
La rappresentazione della presa si può volgere in vari modi nella rappresentazione della violenza, subita, da subire, o da infliggere per evitare di subirla.
C’è chi possa dire di conoscersi? Per quali caratteristiche? Alle rappresentazioni fantasmatiche del personaggio del proprio presunto romanzo familiare? Credersi se stessi, essere se stessi. Limitarsi. Accettarsi. Sono forme di consapevolezza, cioè di complicità. Consapevolezza: l’idea di una piena conoscenza, da condividere comunemente. Come restare in compagnia? Come fare parte del gruppo? Perché fare parte del gruppo? Per evitare la caratteristica? Per evitare la singolarità e l’unicità? Per evitare il narcisismo?
Che cosa comporta allora la consapevolezza di sé? L’idea di potere misurarsi. Con che cosa? Con l’appartenenza alla media, allo standard. Qual è lo standard della città? Della vita? Della salute? La formula “standard di vita” o “standard della vita” è una formula contraddittoria, quasi alternativa. Una forma di aut aut: o lo standard o la vita. Qual è lo standard della realtà? Ogni uno si appella alla realtà come standard in alternativa alla prova di realtà, in cui si situa l’itinerario, con i suoi accadimenti. La realtà non è l’insieme degli itinerari, intesi come le “umane vicende”; cos’è allora? Quali sono i dati della realtà? La realtà è forse stabile?
E il modo canonico in cui le cose dovrebbero essere? È l’idealità delle cose? È l’utopia? Realtà utopica, realtà ideale. Un conto è la realtà come realtà sociale, ossia come visione ideale della società, quindi come realtà immobile, realtà da raggiungere e sempre mancata, un conto è quella che Armando Verdiglione chiama la “realtà in viaggio” ossia la “realtà della struttura, la realtà della scrittura, la realtà della comunicazione”. In estremo, possiamo dire, la realtà del valore. Ma, solamente dopo che il valore si è istituito all’intersezione del simbolo con la lettera.
Realtà, allora, non come modello da conseguire sulla scia dell’immaginifica società ideale e dei suoi precetti, ma come prova. La prova della cosa. E la cosa è il narcisismo.
Proprio in quanto è impossibile togliere la cosa, risulta impossibile chiudere la domanda, se non come modo di dar seguito all’idea di appartenenza alla casistica, alla statistica. È il realismo. È la negazione del viaggio, dell’itinerario, è la negazione dello statuto intellettuale, è lo svilimento della vivenza.
Vivendo, importano il progetto e il programma di vita. Importa quello che verrà, importa che l’avvenire avvenga. Importano i dispositivi dell’avvenire. La paura è in assenza di scommessa dell’avvenire. È in direzione dell’idea di fine, in direzione dell’evitamento, in direzione dell’economia delle cose. Ma se l’avvenire viene rappresentato, allora insorge la paura. Perché se viene rappresentato allora viene reso reale, viene realizzato. Viene reso presente. Nulla è presente, nulla è reale nell’intervallo. Il reale è l’impossibile, impossibile anche da realizzare. L’idea di toccare la realtà, addirittura che sia reale, realizzabile, sfocia nel fantasma di Mida: toccare la realtà è il tocco di Mida; con esso le cose s’immobilizzano, si sostantificano, diventano inutilizzabili. Senza il processo di valorizzazione. Cose ontologiche. E il valore si fa sostanza.
Come dissipare la paura? Se l’uomo è una creazione della paura, una rappresentazione dovuta alla paura, si tratta, allora di dissipare l’uomo, la sua significazione, la sua ontologia, la sua animalità.
La logica dell’alternativa mantiene il fantasma di esclusione, di abbandono, di pericolo. La logica dell’alternativa, con il conseguente realismo, sostituisce alla soddisfazione l’idea di gratificazione. Di cosa si tratta nella gratificazione? Della significazione dell’Altro: fare qualcosa per gratificare l’Altro o per essere gratificati dall’Altro. Fare qualcosa per rendersi graditi o per soddisfare qualcuno: sono modi per mantenere, rafforzare un presunto legame, un legame fantasmatico, una relazione con qualcuno ritenuto l’Altro significato. Rendersi graditi non è forse il modo per scongiurare un presunto “pericolo dell’Altro”? Nel mentre l’Altro dev’essere rabbonito, reso soddisfatto, l’idea corre alla sua altra faccia, che è terribile. Ogni idea di gratificazione propria o altrui, è un’idea soggettiva.
La gratificazione vorrebbe essere un passe partout verso l’Altro reso pacifico? O un passe partout verso un’altra idea di sé che consenta di accedere gratuitamente a ciò che è ritenuto inaccessibile? Attendersi la gratificazione: porsi come questuante, in quanto soggetto della povertà. Soggetto dell’essere. Tolto il “non” della funzione di resistenza, ecco allora l’identità di ogni cosa a se stessa: e non c’è più l’abbondanza. Così come tolto il “non” dell’avere non c’è più l’aumento, la crescita.
In questo modo l’aumento e l’abbondanza sono attesi per sempre e fatti dipendere dalla buona disposizione dell’animo altrui o dalla buona disposizione della fortuna, o dalle circostanze propizie. Come rendere propizie le circostanze? Così ognuno si affaccenda a rendersi amabile, o a amare l’Altro. Si affaccenda a addomesticare l’idea di sé o dell’Altro. Le vacche magre e le vacche grasse. L’animale fantastico anfibologico. Aumento e abbondanza.
Ma l’abbondanza non è qualcosa cui giungere; questo è il fantasma di povertà istituito dalla fine del tempo: le cose finiranno, i tempi duri finiranno, la povertà finirà e allora verranno tempi migliori, allora verrà l’abbondanza; quasi un premio per avere saputo sopportare. L’abbondanza è originaria. O è originaria o non è. E non riguarda la quantificabilità delle cose, la loro conta.
L’abbondanza è istituita dalla divisione da sé del significante. La mancanza a sé del significante, quale effetto del suo funzionamento, istituisce l’abbondanza. Le cose procedono dall’abbondanza, funzionando. L’abbondanza è una proprietà del figlio, il significante che funziona nell’inidentità, senza genealogia, quindi. E la crescita, l’aumento è una proprietà del padre, il nome che funziona. Proprietà del lavoro del nome. Crescita e abbondanza sono simultanee e con esse il lusso, la lussuria, la sessualità.