Modena, 27 giugno 2011. Palazzo del Museo
La crisi. Vivere senza paura. La carità, la grazia, la verginità
“Occorre rassegnarsi alla crisi”. E ognuno pensa a “come uscire dalla crisi”, ossia pone la crisi come un male transitorio da cui occorre uscire, perché deve finire. Questo criterio istaurato dall’idea di fine è applicato da ognuno a ogni cosa. E da qui comincia la paura: paura della fine, che è anche paura del tempo: paura del tempo che finisce. Ognuno pensando alle cose, pensa anche alla vita, alla sua vita. E come la pensa? Transitoria, a termine, finita. Ognuno pensa alla vita come durata e teme la fine, come equivalente della perdita.
Invece, la crisi nella sua accezione originaria indica il giudizio, la critica, la trasformazione.
Crisi è ciò che segue all’intervento del tempo in ciò che si fa. Crisi senza rottura, che è la sua versione romantica, crisi senza conflitto da rimediare o da sanare, quindi crisi temporale, non già temporanea. La crisi indica che non c’è sistema, che non c’è sistematica possibile. Nessuna codifica è possibile aprioristicamente: ciascuna cosa esige di qualificarsi e di rivolgersi alla sua cifra. La crisi è vitale. Un insieme senza crisi è votato alla morte.
Ognuno spera di sapere come fare a non avere più paura, e cerca metodi e schemi da applicare, cerca trattamenti. Come se si trattasse di avere le mani in pasta o di essere la pasta. Chi si rivolge al training autogeno, chi all’ipnosi, chi al comportamentismo vecchio o nuovo, chi alle neuroscienze e chi, i più numerosi, si rivolgono agli psicofarmaci. Ma non sono molti che chiedono d’imparare a non avere paura. Per questo occorre il dispositivo maestro/allievo. Il dispositivo della domanda e dell’analisi. Non per imparare lo schema, ma per imparare a viaggiare, imparare a vivere, senza conoscenza e senza compromesso sociale. La paura è una questione di coscienza.
Nulla è detto e nulla è fatto. Noi siamo qui questa sera in un dispositivo cifrematico. La caratteristica del dispositivo è che ciò che si dice è nello statuto intellettuale.
Tuttavia, accade talvolta che quanto si dice nel dispositivo sia assunto dall’uditore con il principio di sufficienza e quindi con realismo. Ognuno allora si ritiene sufficiente a se stesso, in accordo con se stesso, compiacente con se stesso e considera che quel che è detto è fatto, che è il principio del realismo.
Non c’è antidoto alla coscienza della paura: ogni presunto rimedio ne rafforza i presupposti. La questione è intellettuale e esige l’analisi. Dato che non c’è soluzione, occorre trovare il modo. Il relativismo culturale e linguistico vagheggiano una sorta di agenzia divina che dovrebbe surrogare la specificità del modo di fare e giustificare l’attendismo e la delega. Delega e attendismo sono due componenti del principio di sufficienza, in nome del quale la sostanza, con le sue rappresentazioni, si afferma. In particolare l’idea del danno, un modo della negatività con cui si rappresenta la corruttibilità della sostanza in assenza di carità, la peccaminosità in assenza di grazia, la degradazione in assenza di verginità. Per non avere paura occorre imparare di cosa si tratti quanto alla grazia, alla carità, alla verginità.
La vendetta è la base della civiltà occidentale e delle religioni che vi sorgono all’interno. L’istituto della vendetta è alla base della somministrazione umana della giustizia, che si regge a sua volta sugli istituti della colpa e della pena. Su questo postulato della colpa, ognuno si somministra la pena, si anticipa perfino la pena, o cerca di sfuggire alla pena, mantenendo però inalterata la credenza nella colpa. La colpa è quindi indispensabile per l’amministrazione della giustizia umana e di quella divina per le varie religioni. E è indispensabile anche per invocare la grazia.
Perfino San Paolo vi si ispira per esemplificare la portata della grazia divina. E non solo, ma anche per esaltare Dio stesso, quale agente della salvezza. Anche per la grazia, quindi, non solo per la carità, nella loro accezione sociale, la colpa è indispensabile per giustificarle. E il riferimento è alla salvezza.
È proprio della giustizia di Dio rendere afflizione a quelli che vi affliggono e a voi, che ora siete afflitti, sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo con gli angeli della sua potenza in fuoco ardente, a far vendetta di quanti non conoscono Dio e non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Costoro saranno castigati con una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza, quando egli verrà per esser glorificato nei suoi santi ed esser riconosciuto mirabile in tutti quelli che avranno creduto, perché è stata creduta la nostra testimonianza in mezzo a voi.
San Paolo, ai Tessalonicesi, 2a, 1, 6-10.
È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; il contrario del peccato non è la virtù ma la grazia.
È la grazia che risana la malattia mortale di cui è affetta la creatura umana:
La legge poi è intervenuta a moltiplicare la trasgressione; ma dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata (…) Che diremo dunque? Rimarremo forse nel peccato affinché la grazia abbondi?
Romani 5,20;6,1
San Paolo manca la grazia originaria, che è senza necessità della colpa. Ci sarebbe stato in seguito un dogma, che istituisce e rende merito all’eccezione: l’eccezione è Maria, concepita senza peccato. L’immacolata concezione di Maria indica che la colpa e la pena non sono originari, non sono per tutti, ma per chi, eventualmente, si ammanta del segno dell’origine, per chi si rivolge all’origine che è sempre presunta. Cioè fantasmatica. L’immacolata concezione è un dogma del 1856, quindi piuttosto recente, istituito da Pio IX con la Bolla Ineffabilis Deus.
L’eccezione di Maria indica che l’originario è senza macchia. L’originario non è “il prima” della colpa. L’originario è senza la colpa. In questo senso, nella parola originaria, la grazia non è nell’accezione giuridica di condono della pena, la grazia originaria indica che non c’è pena. Non c’è più pena perché non c’è mai stata colpa.
La grazia non è quindi strumentale a dissipare il peccato, ma indica che non c’è più peccato. Persino i Greci inventano le Grazie senza la necessità di ritenerle antidoto a qualcosa: Aglaia, splendore, Talia, fiorire, Eufrosine, mente sana, ilarità.
La civiltà contemporanea sorge e si sostiene sull’ideologia del rimedio, che è sempre rimedio nei confronti del negativo. Il successo della droga è l’altra faccia del successo dello psicofarmaco, che dovrebbe dimostrare che a tutto c’è rimedio senza doversi impegnare in nulla. La grazia indica l’assenza di rimedio, enuncia il suo teorema.
La grazia non toglie quindi la macchia, il peccato; non è lo smacchiatore universale, ma consente di enunciare il teorema che dice: “Non c’è più peccato”. Ossia non c’è più la macchia che dovrebbe accomunare il genere umano, mortale e maculato. La macchia originale, la macchia dell’origine. Chi ricerca l’origine, o si rifà all’origine, o meglio, tenta di farlo, lo fa per potere darsi un’identità di colpa. Che diventa un’identità per la morte.
Il ritorno all’origine sarebbe il ritorno alla macchia originaria, il ritorno a un’identità senza più scampo.
L’accezione di grazia come dono, istituisce il debito morale e con esso istituisce la genealogia dei sudditi. E distribuisce l’alibi per non fare.
In assenza di grazia, nell’idea della grazia assente, ognuno si sente vittima e si fa vittima di un peccato da purificare, di un peccato che sarebbe il segno di un’origine da espiare o da riscattare. Ricatto e riscatto sono i due corollari della vendetta, due corollari della coscienza di colpa.
La colpa è solo secondo coscienza, secondo la coscienza morale che crea Dio per istituirlo come agente del dono, agente donatore, agente morale. Il proprio agente del riscatto verso cui quindi esercitare il ricatto, la rivendicazione, la promessa di diventare buono e meritevole di compassione, in avvenire. La parola originaria indica che la carità e le altre virtù non sono strumentali, non sono modi del rimedio; non sono modi per acquisire la parola originaria, perché sono propri della parola originaria. La carità è originaria. E così la grazia. E così la verginità.
La carità, come ciascuna virtù del tempo è essenziale nell’automazione.
Ma, dato che la grazia è una virtù del tempo, non c’è nulla da riscattare, nessuno da ricattare, nessuno da invocare come agente benefico o malefico.
Il tempo non finisce, quindi non passa e non scorre, quindi non dura. Niente dura, perché niente finisce. Così il tempo interviene nell’automazione, nella combinatoria del processo di qualificazione. E il tempo ha queste virtù e le dispensa. Per acquisirle è indispensabile fare l’esperienza del tempo e della parola originaria.
La credenza nel male come possibile, è la credenza nel male dell’Altro, con la A grande. È la credenza cioè che l’incontro possa andare male, sortire il male, che le cose possano andare male. L’Altro è la struttura del fare, è sogno e dimenticanza, quindi l’attribuzione del male all’Altro è l’attribuzione del male a ogni cosa. È il male come possibile che incombe su ogni uomo: questa attribuzione quindi produce la paura e la giustifica. Sta qui la necessità della carità.
L’assenza di carità giustifica la credenza nella natura bestiale dell’uomo, giustifica la credenza nei bassi istinti, giustifica la credenza che ogni altra differenza possa costituire un pericolo. Senza carità come potere giungere alla riuscita? Come ciascuno può pretendere da sé lo sforzo assoluto per il compimento e la conclusione delle cose?
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un bronzo risonante o un cembalo squillante. Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla. La carità è paziente, è benigna la carità; la carità non invidia, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, ma si compiace della verità; tutto tollera, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non verrà mai meno.
Paolo, 1° Lettera ai Corinzi, 13,1-13.
La rappresentazione dell’alto e del basso del bene e del male può istituirsi in assenza della carità.
San Paolo tesse l’elogio della carità e la indica come la virtù più preziosa, ma questo suo elogio ha favorito un’accezione di carità come attributo personale e soggettivo che è sfociato addirittura nella significazione dell’altruismo, cioè nell’espunzione dell’Altro. Ne ha consentito la rappresentazione nell’elemosina, nell’elargizione, nel soccorso, fino all’assistenzialismo.
Eppure il detto 14 di San Tommaso dice: Gesù disse loro: “Se voi digiunate, cadrete in errore per vostra colpa, e se voi pregate, sarete condannati, e se farete l’elemosina, farete del male al vostro Spirito, e se entrate in qualche paese o percorrete qualche regione, se qualcuno vi ospita, mangiate pure ciò che vi mettono davanti e curate quelli fra loro che sono malati perché quello che entrerà nella vostra bocca non vi può contaminare, ma ciò che esce dalla vostra bocca vi contamina!”
San Paolo e la teologia successiva ne fanno una proposta religiosa, cioè una proposta che mette in alternativa il bene e il male, una proposta che sancisce la dicotomia e quindi la funzione salvifica della carità. Questo è favorito dal fatto che la carità viene accostata all’amore; alcuni traducono appunto agape con carità; agape, ossia l’amore fraterno, l’amore disinteressato, la benevolenza. E così veniva chiamato il banchetto di ringraziamento dei primi cristiani.
La cifrematica avanza invece una proposta differente che situa la carità nella parola, quindi una virtù intoglibile e non come virtù possibile. Senza negativa.
Non virtù di qualcuno, non proprietà di qualcuno, esercitabile da qualcuno: una virtù originaria, una virtù del tempo. Una virtù che enuncia un teorema: non c’è più male, non c’è più male dell’Altro. Ciascuno, elaborando il teorema della carità, non ne fa una virtù ontologica, ma una conquista dell’itinerario, una conquista intellettuale. Con la carità è sospesa, anzi dissipata la caccia al male dell’Altro, la caccia al segno del male come giustificazione all’inerzia, alla paura, all’astensionismo, al menefreghismo.
Ma San Paolo dice qualcosa di molto interessante, e cioè che la carità si compiace, gioisce della verità. Accosta quindi la verità alla carità. E alla tolleranza e all’immunità. Quindi propone a suo modo un’adiacenza una prossimità al tempo e alla sua proprietà di cifrare. Il tempo è cifrante, il tempo cifra. È il tempo a cifrare, è il tempo con il suo intervento che consente la cifratura di ciascuna cosa. E quindi la carità in questa accezione di teorema del male dell’Altro è indispensabile alla poesia, all’arte, alla scienza, alla cultura. È indispensabile all’impresa. È indispensabile alla civiltà.
E così la verginità, proprietà del tempo che interviene con il suo taglio, indica che non c’è incesto, non c’è atto che non sia casto, originario e quindi in assenza di degradazione.
Non è una dotazione rinunciabile la carità, ma appunto nessuno la può procurare o attribuirsela senza l’analisi, senza l’esperienza del tempo che non finisce e quindi non passa e non scorre. La battaglia per la salute, la battaglia da cui dipende la riuscita, la battaglia che istituisce la giornata come dispositivo intellettuale per la ricerca e l’impresa esige la carità, senza cui non può instaurarsi la scommessa sull’intelligenza, la scommessa sulla riuscita.