Cittadella, 26 gennaio 2012, Aula Magna della scuola “Lucrezia Cornaro”
Il valore della vita. Entusiasmo, autorità, forza, disciplina, amore
Ringrazio la Direzione didattica di Cittadella nella persona della professoressa Chiara Riello e la dottoressa Sabrina Resoli per avere organizzato quest’incontro, qui a Cittadella, città di arte e di cultura dove vengo sempre molto volentieri.
Il tema è molto impegnativo; è anche il titolo degli incontri che si stanno svolgendo con cadenza settimanale a Padova, nel quadro delle attività didattiche e formative dell’associazione. E le questioni che affrontiamo vengono dalla pratica e dall’esperienza analitica e clinica. Si tratta della testimonianza di alcune acquisizioni che procedono dall’esperienza della parola originaria.
Intanto, due parole sul titolo, che è, per così dire, incompleto: si tratta del valore della vita “per ciascuno”, “di ciascuno”, non della vita in generale, che non esiste. Il titolo trae quindi alla questione dei dispositivi che sono necessari per ciascuno perché si ponga la questione del come: come parlare, come fare, come scrivere, come vivere. Senza il come, allora può sorgere l’idea che la vita sia qualcosa di comune, di scontato, che abbia un senso e che si tratti di trovare quale sia questo senso.
La vita non è uno standard, non è un concetto. Se pensiamo che il termine vita significhi qualcosa che valga per tutti, allora siamo fuori strada. Sarebbe uno slogan, un precetto. La vita non è un’entità, né può essere considerata una metafora del tempo che passa, scorre, e quindi finisce.
Quindi quale vita, come vivere. Così può porsi la direzione verso il valore. La vita, come ciascuna cosa, non ha già “il” o “un” valore in sé, ma tende al valore per ciascun suo elemento, per ciascun suo atto.
La questione della vita è quella della parola. E la questione della parola è la questione intellettuale. Come nota l’evangelista Luca a proposito di Zaccaria, un conto è blaterare e un altro è parlare. La questione intellettuale esige il parlare senza accontentarsi di blaterare. E parlare è complesso. Non è una cosa naturale.
Come parlare? Come cogliere i frutti della parola, del parlare? E quali sono questi frutti? Il senso, il sapere, la verità, la qualità, il valore di ciascun atto, di ciascuna cosa.
Contrariamente a quel che si crede, questa è l’epoca in cui la qualità, tanto pubblicizzata, è bandita. Il valore è osteggiato, in nome di una presunta facile, comoda applicazione di modalità standard.
Paradossalmente, l’epoca della qualità risulta l’epoca dell’appiattimento delle caratteristiche, verso l’idiozia. Lo standard è una forma d’idiozia. È curioso che particolarità, caratteristica e idiozia derivino dallo stesso temine greco, idios.
“Mi spezzo, ma non mi piego”. La parola non si rompe né si spezza: è integra. Per questo si piega. Se non le viene attribuita una rappresentazione o una significazione. E l’arte della sua piegatura è la clinica.
Dalla piega e dalla sua arte si produce la molteplicità, che è una proprietà dell’Altro, della funzione vuota. È per via della clinica che, parlando, ciascuna cosa può approdare al valore. Si tratta di approdo, quindi, non già di qualcosa che esiste già, sia già una proprietà acquisita. Ciascuno qui non parla la stessa lingua del suo vicino o del suo lontano. Né del suo prossimo, né di qualunque altro. E questo non per una questione di differenza etnica, sociale o scolastica, ma per la differenza strutturale. Per la differenza assoluta che interviene parlando.
La questione è il parlare. Il parlare e l’analisi. Il parlare e la qualità. Nulla è già detto, nulla è mai detto: ciascuna cosa si dice. Dicendosi, ciascun elemento è di valore.
Le figure retoriche sono l’esempio che la parola non è un tutto omogeneo, ontologico, monolitico, la parola non è una pietra. La metafora, la metonimia, la catacresi, l’antonomasia sono indici della tripartizione della parola in quanto segno: indicano, per esempio, che un significante convoca un nome in un funzionamento che avvia un processo e una struttura linguistica che coinvolge anche Altro.
La lingua che procede dal funzionamento di nomi e significanti è in realtà una alingua, una lingua altra, una lingua in cui si tratta dell’afasia. Afasia: l’impossibilità di controllare e padroneggiare ciò che si dice. La mitologia della padronanza e del controllo trova il suo scacco nel dire; e da qui incomincia la vicenda della parola. Da qui incomincia l’esigenza dell’ascolto per capire e intendere quel che si dice. L’importante, l’essenziale si dice fra le righe, cioè inconsapevolmente. E importa quindi la lettura di ciò che sta fra le righe, di ciò che si dice fra le righe: nell’interdizione. Interdizione linguistica.
Partendo da questa semplice constatazione, che viene dalla pratica analitica e clinica, si può ben capire che “parlarsi con franchezza”, “parlarsi sinceramente”, “parlarsi apertamente”, “volersi comprendere”, “entrare in sintonia”, “entrare in empatia”, e via discorrendo, sono le formule più correnti per alludere a una metalingua, a un metalinguaggio che sarebbe comune a tutti, noto a tutti senza lo sforzo della comunicazione.
Sono modi per non badare all’essenziale, per cercare nel senso e nel luogo comune una via per l’intesa, ma senza intendere. La linguistica moderna, con Chomsky in evidenza, fino alla PNL, di moda alla fine del secolo scorso, ha aderito all’ipotesi di schemi di pensiero e schemi comportamentali che sarebbero modificabili sulla base di concetti. Sulla base cioè di generalizzazioni applicabili a tutti.
La base dell’esperienza di parola è questa: ciascuna cosa è particolare e tende allo specifico, all’unicum, fino alla sua cifra, il valore assoluto.
La questione attorno a cui ruota il nostro incontro è la questione intellettuale, come questione aperta.
Procedere dalla questione aperta comporta che la risposta non è già data, non è già nota, ma, ancora di più, non può essere fornita da qualcuno a qualcun altro. Questione aperta vuol dire assenza di alternativa. La risposta è il frutto della ricerca, dell’indagine, che procede con l’analisi e con il processo di cifratura. Solamente in questo contesto in cui nulla è dato per scontato, nulla è già noto, nulla è già conosciuto si pone l’eventualità dell’acquisizione come frutto della ricerca.
Acquisizione come ciò che contribuisce a che la ricerca si scriva in direzione della qualità, del valore. Valore inalienabile, valore che non può essere confiscato, valore che non può essere condiviso, ma che può dare avvio al processo di restituzione. Ecco il valore aggiunto che si rivolge al sociale, all’assemblea societaria, la restituzione.
Non si tratta quindi di dirigersi idealmente verso un presunto, conosciuto, ipostatizzato bene comune, che trarrebbe al paradosso dell’insieme dalla metafora spirituale del gregge, del reggimento, del branco fino alla realizzazione del motto di Hobbes , “Homo homini lupus”. Ipostatizzato o presunto il bene comune, ognuno si rivolge all’altra sua faccia, il proprio bene, per trarne un plus, un più di bene. “Più di tutti”, “Più di tutti gli altri”. E questo a partire da una visione buonista, in cui tutti parteciperebbero di tutto.
Questa idea di partecipazione si volge poi in appartenenza e caratterizza la reazione al presunto insieme, all’obbligo allo stare insieme.
Adiacente alla vita è la salute: ognuno se ne preoccupa, ognuno tende a mantenerla, pensando di averla, ma chi tende a conquistarla?
Non s’instaura la vita nella sua originarietà se vige la rappresentazione di origine e di un presunto legame con l’origine.
La rappresentazione dell’origine, che può essere significata sia dalla famiglia di origine o di provenienza, sia da un ceto sociale, da un cognome, da un mestiere, da una malattia presunta ereditaria e ereditata ha come conseguenza quella di formalizzare e di accettare la sufficienza come principio per lo svolgimento della vita. L’accettazione dell’idea di origine è ciò che per esempio può far sì che proseguire nell’impresa fondata dal nonno o dal genitore voglia dire “seguire le orme paterne”.
Come vivere?
Chi s’interroga da dove venga la forza? La forza necessaria per la vita, per affrontare ciascuna cosa della vita? C’è chi si chiede come sta e si scruta, si tasta, si ausculta, si guarda per capire come stia, ma quanto alla domanda sulla forza e da dove la forza venga pochi se la pongono. Per lo più viene dato per scontato che ci sia una dotazione naturale, normale della forza, per lo più intesa come energia e che questa forza possa venire meno in caso di malattia. La malattia, si dice infatti, fa perdere le forze.
L’ipotesi della forza è situata per lo più in un sistema, che è la metafora politica per eccellenza.
La forza data per naturale, per ontologica, dovrebbe esserci a prescindere, per natura. Ma vige la mitologia dell’esaurimento, che da esaurimento nervoso comporta l’esaurimento della forza, la perdita della forza. Il riferimento è quindi la termodinamica. E il principio della scarica che esige la ricarica.
Niente forza senza entusiasmo. Nessuno può darsi da solo né l’uno né l’altro. L’entusiasmo è quella proprietà dell’oggetto per cui ciò che è da fare si fa: non per obbligo, non per dovere, per entusiasmo, quindi anche per forza, per quella forza che procede dall’entusiasmo. Non è quindi una dotazione personale,che potrebbe volgersi, in quanto tale, nel suo contrario, quindi nella depressione che deve significare il soggetto che si presume, si pensa, si rappresenta debole. L’entusiasmo è senza rappresentazione di sé. Senza rappresentazione del bene e del male, senza rappresentazione del destino.
L’entusiasmo è ciò per il cui intervento c’è forza, ciò per cui si produce la forza, ciò che provoca la domanda. L’entusiasmo caratterizza la provocazione, per ciò che evoca: è un aspetto dell’identificazione. Senza identificazione non c’è entusiasmo, ma il primato della burocrazia e del presunto potere invisibile “dell’ufficio”. Una divinizzazione della procedura e della processione. Senza urgenza e senza causa. L’entusiasmo introduce un’altra burocrazia, secondo la necessità non ontologica, ma la necessità pragmatica.
Senza entusiasmo vige la paura: paura della genealogia, paura del conflitto, paura della gerarchia, paura dell’affrontamento, paura dello scontro. Oltre la vulgata, oltre il concetto, l’entusiasmo non viene da dio, non è l’indice della possessione divina, che per Platone esaltava i poeti e i filosofi. L’entusiasmo, dal greco thuo, indica piuttosto l’incontentabilità della causa di verità, della forza pragmatica. Prossimo, piuttosto, al furore, all’agitazione che la causa provoca.
La disciplina originaria si struttura con gli effetti di sapere che si producono nel dispositivo. Maestro – allievo, cifratore – cifrante. Non il maestro insegna all’allievo, non il cifrante cifra per il cifratore. Se c’è cifratore, l’esperienza si scrive. Se c’è analisi, l’esperienza si scrive è può volgersi verso la clinica. Non già esperienza clinica, ma clinica dell’esperienza.
La disciplina è frutto del processo frastico: la funzione di resistenza, parlando, fa sì che il significante differisca da sé. Differendo da sé istituisce la differenza funzionale, che chiamiamo menzogna del significante: è un effetto non prevedibile che altera il sapere e produce un sapere differente. Così, l’effetto di sapere si struttura qui nel processo frastico, differendo il significante. La persuasione, per esempio si situa qui; la persuasione, il raggiro sono proprietà della struttura che si scrive. Qui sta la disciplina che ha il suo frutto nella scrittura della ricerca frastica, che si compie nell’etica. La frase è la struttura dove funziona il significante. Questo processo è la rivoluzione frastica. Ciò che sul sentiero della resistenza rilascia la lettera, e intersecandosi con il simbolo si rivolge alla cifra.
La disciplina è simultanea all’autorità. Che vi sia crescita dopo l’incominciamento di un progetto, è dovuto all’autorità. Cioè all’intervento del nome che funziona. L’autorità non è fare la voce grossa, porre divieti, formulare ricatti: questi accorgimenti indicano l’assenza dell’autorità.
Come vivere?
Impossibile senza l’amore. Quale amore? Non già come sentimento indice della reciprocità, che porta alla rivendicazione e alla vendetta: l’amore come custode. L’amore è il custode della ricerca e della sua scrittura.
Qual è la materia dell’amore? A cosa si rivolge l’amore? Come l’amore non si risolve nel discorso dell’amore?
Se l’amore diventa relazione interpersonale, “tu sei il mio amore”, o è presunto potersi rivolgere a un oggetto che ne diventerebbe il bersaglio, entra allora in una mitologia della quantificazione, del dosaggio, diventa cannibalico. “Io ti amo”. E già l’amore non c’è più. “Io amo” è già l’enunciazione paradossale che vorrebbe significare l’io come soggetto. “Io ti amo” vorrebbe addirittura presumere di sapere dove l’amore si rivolge. “Io ti amo” e subito segue “ti voglio”. “Tu sei mia/mio”.
Amore senza possesso, senza possessione. La questione dell’amore è la questione della vicenda della domanda, dove si tratta del dare. Non già l’essere, non già l’avere, ma il dare.
Non è la questione di fare per amore o di dare per amore, sarebbe ancora nel senso di un debito da estinguere. È l’amore a dare. È l’amore che dà. E non è prestabilito o conosciuto o già decidibile cosa sia dato. Ma, l’amore è contrassegnato dal dare. Il proverbio dell’amore è che l’amore dà quel che non ha, e più ne dà e più ne ha.
La domanda è custodita dall’amore, cioè l’amore è custode della pulsione di ricerca. Custode della ricerca e del modo con cui la ricerca si scrive.
L’amore non è il sentimento su cui poggiare un’armonica visione del mondo, che inesorabilmente ha la sua altra faccia nella rivendicazione, come da sempre e oggi più che mai le umane vicende, politiche e non solo, dimostrano ampiamente. L’amore è ciò che custodisce la ricerca e non finisce; non è vincolato al sentire attrazione per un altro simile, è ciò che custodisce la ricerca nel suo orientarsi verso il valore della vita.