“Sì, però…”, l’ipotiposi. E non c’è più litigio
L’appello all’evidenza dei fatti, alle proprie ragioni, alle proprie convinzioni, alla “natura” delle cose, l’appello a quello che si vede, a quello che è, costituisce la copertura di ogni cosa, tolto l’acustico. La visione è visione del mondo, non della cosa. Le cose si odono e poi, forse, si ascoltano, ma non senza l’analisi, non senza la qualificazione, non senza il dispositivo della parola. Che le cose si odano, e che quindi si ascoltino, esige la dimensione della parola con la sua logica singolare triale e esige l’apertura con la sua logica diadica. Sta qui l’ipotiposi che è, con l’ossimoro, modo dell’apertura. Bene-male è ossimoro. Il male è ipotiposi, l’inferno è ipotiposi della vita standard!
L’ipotiposi lascia indeterminata la cosa pure nella sua descrizione, nel suo disegno, nella sua cartografia; non giunge alla determinazione, all’essenza, alla definizione, all’univocità della cosa. L’idea di situarsi, di prendere posizione, di avere il pensiero, di avere e difendere le proprie idee, le proprie credenze, i propri principi, i propri valori, quest’idea istituisce la visione del posto fermo, il mondo come posto fermo e fisso, con la sua mitologia lavorativa: ambire al posto fisso per tutta la vita, per la sicurezza di sé e della vita.
La visione del mondo è visione di un mondo fisso, è visione di un posto fisso, è l’idea del posto fisso. Il mondo esiste solo nella sua fissità. L’idea del miglioramento e del cambiamento del mondo è la riaffermazione che non è abbastanza fisso e fermo e, quindi, può migliorare raggiungendo la fissità assoluta! E questa visione, con il suo andamento programmato, con il posto fermo e fisso che ognuno deve occupare per la sua sicurezza, istituisce l’alternativa al destino precario, l’ipotiposi del destino.
Ognuno reagisce al destino prestabilito, o presunto tale, sia che lo accetti sia che non l’accetti, e reagisce ipotizzando e ipostatizzando la contrapposizione come obbligo di opporsi e di contrapporsi per determinarsi. Ma anche la reazione, la contrapposizione e l’ipotesi della determinazione sono modi dell’ipotiposi contro cui nessuna spiegazione, o convincimento, può sostituire la procedura: le cose procedono dal due e si rivolgono alla cifra. L’ipotiposi è nella procedura che esige anche l’integrazione. Dunque, nessuna destinazione prestabilita, nessuna destinazione per inerzia. La verità non è già scritta e non è già data, ma è effetto della cifra, per cui la verità per instaurarsi esige la cifratura. Nessuna verità senza la cifratura, se non quella verità ontologica che prescinde dalla domanda e dalla parola.
Contro l’ipotiposi è tentato il principio della trasparenza, che vorrebbe rendere visibile la sostanza vera, la sostanza intima, l’origine certa, il principio formativo e formatore da cui le cose verrebbero e, soprattutto, il principio uniformante e uniformatore. Come stabilire l’indice statistico? Abolendo l’ossimoro e l’ipotiposi. L’ipotiposi è essenziale per avviare il processo di qualificazione. Se le cose procedessero dall’uno, che esigenza ci sarebbe di qualificarle? Se le cose dovessero tornare all’uno, che esigenza ci sarebbe di qualificarle? Le cose esisterebbero in quanto tali. Nessun viaggio delle cose se le cose esistessero. Il processo di qualificazione non è un processo di determinazione o esistenziale, di fissazione o di ontologizzazione, non è un processo per giungere a stabilire e a sapere come sono le cose, come stanno le cose e dove stanno le cose. Le cose si rivolgono alla qualità, dunque non sono e non stanno.
La rivoluzione è il rivolgimento, le cose si rivolgono alla cifra. La rivoluzione esige la qualificazione, esige il dispositivo di cifratura che non è dispositivo di determinazione; non si tratta di andare dall’indeterminato al determinato. La domanda esige di qualificarsi perché non è già qualificata, né è tale da garantirsi la sua destinazione, tale da avere già un suo destino, una sua destinazione per inerzia o per fatalità. E il processo di qualificazione non è l’ultimo viaggio, l’ultimo atto, dopo di che ci sarebbe la fine. Giunti alla determinazione, che altro? Che altro dire? Che altro fare? Sarebbe l’instaurazione dell’essere della cosa, l’essere dell’oggetto, l’essere dell’Altro, l’essere se stessi, l’essere come ricongiunzione, come fine del processo, fine della vita, fine del tempo. L’approdo alla cifra non è la fine dell’accesso alla parola.
Il concetto è un miraggio. Ogni concettualizzazione è contro l’ipotiposi e l’ossimoro, che sono originari. Ogni concettualizzazione è contro la procedura che è istituita dal due: le cose procedono dal due. Ogni concettualità tenta di chiudere l’apertura e il due, negandoli. Questo è il modo con cui è tentato il processo di unificazione, e concettualità vuole dire istituire il processo di unificazione. L’istituzione del concetto è l’istituzione del processo di unificazione, di sillogismo, per giungere alla formula stabile, come la formula degli elementi con la sua tabella, la tavola degli elementi con la loro successione. È quanto ha tentato Mendeleev con la tabella della successione degli elementi in chimica. È il miraggio di ogni cultore della disciplina della parola anziché della parola libera, della disciplinarizzazione della parola, anziché della parola libera: istituire la tabella degli elementi grazie a cui la parola avrebbe una successione gestibile, guidabile verso il suo essere, verso la sua essenza, verso la modalità con cui la parola sarebbe gestibile, ordinabile, determinabile, padroneggiabile, dominabile. Controllo e padronanza della parola.
“Sì, però…”. L’obiezione non è alternativa alla verità, non è discorsiva, ma è indicativa del sembiante, è indicativa di un’occasione, di un’altra occasione non prevista, non prevedibile. Non è obiezione discorsiva che necessita della replica; l’obiezione non vale a instaurare la polemica. La piega è proprietà dell’Altro, con la molteplicità. Mentre la polemica tende a rivolgere la molteplicità della piega nell’univocità, a togliere l’Altro, attribuendo l’Altro all’oggetto. La piega non è univoca perché non è una proprietà della voce, ma è molteplice in quanto proprietà dell’Altro. Dunque, l’obiezione non è obiezione contro l’Altro, non è polemica e non esige la polemica. Chi assume l’obiezione per replicare all’obiezione con la corretta visione, toglie sia l’oggetto sia l’Altro, nega la parola, istituisce l’unilingua e tenta di affermare la propria visione del mondo. L’obiezione non instaura il duello.
Il lutto, il dolore e il trauma non sono obiezioni alla salute, anche se a volte sono usate a questo scopo per giustificare, o significare, un problema o una patologia. Capita, talvolta, di ascoltare qualcuno che racconta di un problema o di una presunta patologia, attribuendo questo all’avere subito dei traumi, all’avere avuto dei dolori, all’avere subito dei lutti. Tutto ciò nulla ha a che vedere con il lutto, il dolore, il trauma, che sono significazioni che tendono a fare di qualcosa il segno dell’origine, o del tempo, o del destino. Indicano l’assenza di analisi e l’assunzione di una sostanzialità delle cose per significarsi e per significare la vita, cioè indicano la vita come soggettività.
Ma la soggettività ha la chance di dileguarsi nell’ipotiposi con l’analisi. Con l’analisi, ossia con la teorematica, che non instaura la sostanza vera a fronte della sostanza presunta, ma dissipa l’idea stessa di sostanza, della sostanza di sé, delle cose, della parola, dell’origine, della fine. Con l’analisi, l’idea di sostanza si dilegua nell’ipotiposi. L’analisi non indica che a un’idea di sostanza se ne contrappone un’altra, ma il teorema è che non c’è più sostanza, né indica che una sostanza è migliore di un’altra. Questa è, eventualmente, la posizione di chi assume il pregiudizio psichiatrico, cioè che vi sia una versione corretta e definitiva del discorso, una versione corretta che faccia privilegiare, o che porti a scegliere, una visione del mondo piuttosto che un’altra, mantenendo l’idealità del mondo e l’idealità della visione.
Il pregiudizio psichiatrico, che altro non è se non il discorso comune, corrente, il discorso senza la parola, senza l’analisi, senza la qualificazione, non tiene conto di ciò che si dice, ma punta alla conferma di ciò che è detto, di ciò che è stato, del detto comune, del fatto comune, di ciò che è presunto essere così. Vale “ciò che è” per il discorso comune. Per il pregiudizio psichiatrico vale la sostanza delle cose perché “di cose se ne dicono tante ma, poi, qual è la sostanza?”. Questo è il pregiudizio psichiatrico: quel che si dice non conta, quel che si dice non si rivolge alla cifra, non entra nel processo di qualificazione.
L’idea che le cose esistano, l’idea di esistere, l’idea di essere, di potere essere, è indicativa dell’appartenenza al pregiudizio psichiatrico che punta alla soluzione; non all’analisi, ma alla soluzione. Punta alla sostanza ultima, definitiva, vera, pura, alla sostanza radicale. Punta alla soluzione, cioè l’idea dell’ultimo tempo in cui le cose diventano. L’appello all’esistente, all’esistenza, è la prova ultima. Per questa via è possibile proporre la gestione delle cose, del tempo, del destino, del sintomo, della cura, del valore, perché il valore è dato come sostanza ultima che deve giungere alla condivisione nella riunificazione.
Gestione, rimando, controllo, remora, riserva, abolizione del dubbio, prendere tempo. Prendere tempo per abolire il dubbio, prendere tempo per abolire la riserva o per abolire la remora. Ma, prendere tempo è già la riserva, è già la remora, è già il rimando. “Ci devo pensare bene, perché questa cosa…”. “Bisogna che ci pensi bene per non sbagliare, per non prendere una cantonata, per non pentirmi, perché se sbagliassi, potrei pentirmi”. Ciò è già la riserva, la remora, il rimando; è già il soggetto. Questa è la soggettività che nega la parola, il suo accadere, il suo avvenire, il suo divenire, la sua effettualità e oppone alla parola l’esistenza soggettiva, la tetragonicità soggettiva.
L’idea di controllare e gestire la riuscita è la negazione della riuscita. Il controllo sulla riuscita nega la riuscita. La riuscita non sta dove la si pone, la riuscita non è rimandabile, non è una proprietà dell’essere, non è una proprietà della gestione, della riserva, del rimando e della remora. La riuscita non è una facoltà, non è l’essere che riesce. La riuscita non è il successo, né il conseguimento del successo. La riuscita non è il conseguimento della padronanza o il raggiungimento del bene, non è l’abolizione del male, né la conferma del fantasma materno, né il raggiungimento della fine del tempo. La riuscita è imperscrutabile, non sta lì dove è pensata. Pensare alla riuscita è negare la riuscita, cioè fare della riuscita un’apologia di sé come soggetto. Quindi, nessuna riuscita può essere accolta, e nemmeno pensata, se vige il pregiudizio geometrico che sottomette la riuscita al principio del bene, all’idea di bene, all’idea della benevolenza dell’Altro, che deve essere messo alla prova della macchia, la macchia dell’impuro, la macchia del misfatto.
Il principio geometrico toglie l’ipotiposi e afferma il principio dell’alternanza e dell’alternativa; alternanza fra il bene e il male, alternativa fra amico e nemico. Quale riuscita in questa geometria che ipostatizza e vede il mondo nell’alternanza fra il bene e il male e nell’alternativa fra amico e nemico? Il pregiudizio geometrico stabilisce che se oggi sono bene, domani dovrò essere male; e c’è da aspettarsi ogni rappresentazione di quest’alternanza. Pregiudizio che si premura di dimostrare la svista e la cantonata dell’Altro se intervenisse un giudizio ritenuto positivo, una valutazione ritenuta positiva sul proprio essere. Il pregiudizio geometrico volge l’io, che è una proprietà dello sguardo, nell’io soggetto, soggetto visto o guardato e quindi giudicato. Ogni riuscita è così negata, in quanto confusa con il benessere, l’essere bene, con un’idea ontologica di sé, tanto ideale quanto irreale.
Chi chiede la sostanza, nega la parola o la obietta? O lancia la sfida all’alternanza fra il bene e il male, fra il dentro e il fuori, fra il sopra e il sotto, o all’alternativa fra amico e nemico come modi canonici della via del sonno? La vita come via del sonno, il sonno funzionale alla vita, il sonno come scopo della vita. Come vivere per morire! Perché, senza dormire, che vita sarebbe? Vivere per dormire. Chi non vive per dormire? È canonico che la vita degli umani è ripartita almeno in tre parti: una per mangiare, una per lavorare e fare altre cose e una per dormire. È canonico, è stabilito, è dovuto a garanzia e tutela dell’alternativa e dell’alternanza, del regime di alternativa e di alternanza. La questione del sonno è veramente da esplorare. E, dunque, la domanda di sostanza è un modo per lanciare la sfida tra l’ultima spiaggia e l’ultimo tentativo? Tra l’ultima volta e la prossima volta? Chi osa lanciare l’ipotesi della prossima volta, a fronte di chi sostiene che è l’ultima volta?
La fiaba procede dall’ossimoro e dall’ipotiposi anche quando sembra appellarsi all’origine come fatto negativo e incontrovertibile che significa e dimostra la negatività del presente. L’idea di essere nati per sbaglio o per errore, anche quando è avallata dalla mamma o dal papà, non basta a fare della vita un sacrificio, pure talvolta tentandolo. E come, dove e quando trova l’incrinatura il luogo comune che dice che la vita si nutre di sostanza? Come, dove e quando questo luogo comune trova il suo varco, la sua incrinatura, il lancio e il rilancio verso la parola? Per quale provocazione, per quale promozione, per quale intervento, per l’intervento di chi? Chi sarà delegato a non rispondere con la sostanza alla domanda di sostanza? Chi? Chi è delegato a ciò? Di chi è questo compito, a chi è riservato questo compito?
Quattordicesima conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola