Rosaspina
Ho riflettuto ancora intorno alla fiaba di Cappuccetto Rosso e, allora, vi dico qualcos’altro prima di passare alla fiaba di Rosaspina. Intorno a Cappuccetto Rosso vorrei aggiungere un paio di cose, e cioè che questa è anche la fiaba del cibo sessuale e della rappresentazione anfibologica del cibo. Vale a dire dell’erotismo intorno al cibo, del cibo inteso come animale fantastico, animale fantastico anfibologico, ossia preso nella duplice possibilità del positivo o del negativo. L’animale fantastico sorge appunto per animare l’anfibologia, per animare la duplice eventualità, l’alternativa tra il positivo e il negativo, quando positivo e negativo vengono attribuiti alle cose. Alle cose, cioè alle parole, ai significanti, ai nomi, quando l’ossimoro positivo-negativo è riferito alle cose dell’esperienza, quando l’ossimoro positivo-negativo è “fatto funzionare”.
Cappuccetto Rosso e il lupo sono due facce dello stesso cibo, sono due facce della stessa cosa, dello stesso cibo che diventa ora boccone, ora bocconcino. Cappuccetto Rosso è il lupo, o meglio, la sua altra faccia, e il lupo è Cappuccetto Rosso, o meglio, la sua altra faccia. Quindi, sia quanto al lupo, sia quanto a Cappuccetto Rosso, si tratta sempre di Cappuccetto Rosso e di una certa rappresentazione di sé o dell’Altro. L’animale fantastico diventa cibo, Cappuccetto Rosso era un buon bocconcino. Il lupo infatti pensava: “Questa bimba tenerella è un grasso boccone, sarà più saporita della vecchia”. Pure Cappuccetto Rosso pensava di essere un bel bocconcino che, solo a vederla, tutti le volevano un gran bene. Era buona, un buon boccone. Quindi l’animale fantastico diventa cibo e il cibo diventa animale fantastico, cibo positivo o cibo negativo, cibo buono o cibo cattivo, cibo che fa bene, cibo che fa male. “Mi farà bene o mi farà male? Se mangio questa cosa, mi farà bene o mi farà male?”. “Mangia! Ti fa bene!”. “Non mangio, non posso, perché mi fa male”.
Anfibologia del cibo che diventa animale fantastico. È grazie a questa anfibologia anche del cibo che sorgono i così detti disturbi alimentari e la disciplina che se ne occupa. Questo è il cibo buono, questo cibo non è buono. Questo è un cibo naturale, questo è un cibo artificiale, è un cibo grasso o è un cibo magro. E ognuno ci mette del suo per creare l’animale fantastico del cibo di cui cibarsi, il cibo come animale fantastico positivo o negativo. Se il cibo viene finalizzato al bene o al male, il disturbo è inevitabile, c’è già, quale rappresentazione dell’alternativa tra il positivo e il negativo. Alternativa impossibile, perché non c’è alternativa fra il positivo e il negativo. Positivo-negativo sono ossimoro, sono due termini che indicano l’apertura, l’inconciliabile, indicano una diade; non sono fra loro alternativi, nel senso che non sono scindibili. Scindere il positivo dal negativo è un’operazione immaginaria, è una fantasticheria; è una fantasticheria del fantasma materno, cioè del fantasma che ritiene di potere padroneggiare le cose, di potere governarle, dominarle per stabilire quando farle finire, ma è una fantasia, o meglio, una credenza, una credenza di padronanza, di dominio. Positivo-negativo non sono tra loro alternativi, non sono scindibili, perché non sono attributi di qualcosa: sono indici dell’inconciliabile, dell’apertura, indici della logica diadica.
È il discorso occidentale che attua una dicotomia su questa logica diadica e instaura un’alternativa tra positivo e negativo, nel senso che si tratterebbe di scegliere: o il positivo o il negativo. Ma questa scelta non è nelle possibilità umane, neanche divine, non c’è, perché positivo-negativo è una diade non scindibile. Cappuccetto Rosso compie l’impossibile algebrizzazione, l’impossibile dicotomia della diade, per esempio del dentro e del fuori, grazie anche alla raccomandazione materna: “Non uscire dal sentiero, non entrare nel bosco”. Dentro al sentiero, fuori dal sentiero; dentro il bosco, fuori dal bosco; dentro la casa, fuori dalla casa. Dentro e fuori, creando l’alternativa tra il dentro e il fuori.
Dentro il lupo e fuori dal lupo, istituendo una dicotomia impossibile. È così che comincia l’algebra, con l’applicazione del taglio alla diade. L’algebra e le sue implicazioni, innanzi tutto la credenza nell’alternativa esclusiva: o questo o quello, o dentro o fuori, o positivo o negativo, avviando tutto il rituale dell’economia del positivo o del negativo. Ma anche dentro-fuori, appunto, è ossimoro, non alternativa. Ossimoro, ossia modo della diade. Si contraddicono ma non si negano vicendevolmente. Quindi dentro-fuori e non “o dentro o fuori”, dentro-fuori è anche modo della tolleranza. Essenziale l’ossimoro per l’instaurazione della tolleranza, perché non vi sia l’applicazione del ricatto: o così o cosà, o dentro o fuori. Le applicazioni di questa dicotomia le vediamo quotidianamente anche in televisione, tra serbi e albanesi, per esempio: dentro o fuori dal Kosovo, dentro o fuori dall’Albania. Applicata la dicotomia, applicato il taglio, dentro e fuori diventano alternativi, forma dell’alternativa esclusiva, o/o.
Così, con la dicotomia, con l’applicazione del taglio, si avvia la morale del possibilismo, con il possibilismo del positivo, il possibilismo del negativo, per cui, per ciascuna cosa, esisterebbe una possibilità positiva e una possibilità negativa. Ogni cosa diventa così soggetta al positivo o al negativo. Sorgono le prescrizioni e i divieti, onde incorrere nel positivo e non incorrere nel negativo, come se positivo e negativo stessero dinanzi, fossero possibilità che si possono incontrare: ma non c’è questa possibilità. È una possibilità che viene creduta dal discorso occidentale, dalla logica dell’alternativa esclusiva, dalla morale dell’alternativa esclusiva. Una volta avviata questa modalità è chiaro che ogni cosa è suscettibile del pericolo di male, di negativo, dell’eventualità negativa. E, quindi, il fare diventa soggetto all’algebra del bene e del male, del positivo e del negativo e, senza l’analisi, s’instaura la paralisi, dovuta alla paura, appunto, di fare male, d’incontrare il male, che qualcosa vada male e ogni termine dell’esperienza diventa preventivamente segnato dal positivo o dal negativo, che diventano segni.
Anziché indici dell’inconciliabile diventano segni, segni posti dinanzi alle cose, segno più, segno meno. Ogni incontro acquista questa possibilità di essere incontro positivo o incontro negativo: ecco che Cappuccetto Rosso allora incontra il lupo, e il lupo incontra il cacciatore, e il cacciatore incontra Cappuccetto Rosso. Incontri positivi, incontri negativi, dove l’incontro è già segnato dal segno positivo o negativo a seconda della rappresentazione preventiva dell’incontro. Così non si tratta più dell’incontro secondo l’occorrenza, incontro con il caso e le sue virtù, ma si tratta dell’incontro positivo o dell’incontro negativo. Positivo-negativo non stanno davanti a noi, stanno alle spalle, perché le cose vengono dal positivo-negativo e vanno verso la qualifica. Non sono già qualificate. Ciascuna cosa non è già qualificata, si qualifica proprio perché procede dall’apertura, procede dall’inconciliabile, procede dal positivo-negativo, senza alternativa.
L’apertura, l’inconciliabile, possiamo anche chiamarli il futuro. E il futuro non sta dinanzi, ma alle spalle, perché dinanzi c’è l’avvenire. L’avvenire, ossia la qualificazione di ciò che si incontra, la qualità delle cose che segue alla qualificazione. Il futuro è alle spalle e l’avvenire dinanzi, e l’avvenire non è già segnato, non è già determinato, non è già stabilito, non è già scritto, tanto meno già fatto. Senza la distinzione tra il futuro e l’avvenire, c’è la predestinazione, ossia l’origine si sostantifica e l’avvenire deve riprodurre l’origine. S’instaura una circolarità, dove l’avvenire deve riprodurre la presunta origine e, cioè, dove ognuno si animalizza, in quanto viene a riprodurre ciò che crede la sua origine e le caratteristiche che da questa origine dovrebbero procedere o derivare.
Queste due prime fiabe di Cappuccetto Rosso e di Hänsel e Gretel indicano proprio questo, e che la famiglia è ciò che risente in primo luogo della costruzione di una concezione algebrica, di una morale algebrica, ossia di una morale dell’alternativa esclusiva. È evidente che, sopra tutto per un bambino, l’ambito dell’applicazione delle sue credenze è innanzi tutto la famiglia; se questa viene animalizzata, cioè ricondotta al pericolo del negativo, all’alternativa fra il negativo e il positivo, sia per quanto attiene a sé, sia per quanto attiene ai componenti, ai membri della famiglia, è su questo terreno che si alimenta la paura. E, dalla famiglia animalesca, animalizzata, dalla famiglia come rappresentazione dell’alternativa, procede l’anfibologia del corpo: corpo bello o corpo brutto, corpo grasso o corpo magro. È meglio avere un corpo bello o è meglio un corpo brutto? Il mio corpo è bello o è brutto? È meglio grasso o è meglio magro?
Meglio sano che malato. Sì, c’era un proverbio: meglio essere ricchi e belli che poveri e malati, diceva un filosofo televisivo. Certo. Ecco, quindi l’anfibologia del corpo, l’anfibologia del cibo, cibo da mangiare o cibo da vomitare; anfibologia del padre: padre buono, padre cattivo, padre severo, padre degno, padre indegno; anfibologia del figlio e anfibologia della madre e del fratello: fratello buono, fratello bravo, il bravo figlio, il figlio disastro, la pecora nera, l’ultima ruota del carro, vanto e disonore della famiglia. Tutti animali fantastici, rappresentazioni dell’animale fantastico, un’araldica che rappresenta ogni famiglia umana, anche senza essere esposta sul frontone della casa, tuttavia una araldica ben presente, che orienta e indirizza ognuno verso il compimento della propria predestinazione. E l’animale fantastico origina poi l’animale domestico.
Quindi, qual è il fatto? Dall’animale fantastico, anfibologia del positivo e del negativo, all’animale domestico, animale dove l’anfibologia è risolta a favore del bene. L’animale domestico è buono, è bravo, è bello, è un animale da cui il negativo viene espulso. Ma il negativo, che viene così esorcizzato, bandito, espulso, viene riprodotto nella sua economia, ossia con l’accettazione del principio del male minore. È questo procedimento, comunemente bene accetto e attuato da molti, che costituisce l’eutanasia. L’eutanasia è questo: l’accettazione del male minore, inteso come la buona morte. A questo giova l’animale domestico, come accettazione della buona morte. L’animale domestico sta a significare proprio questo: il male, ma purgato; l’origine, la genealogia, ma purgati dal loro negativo, grazie all’animale domestico e senza cioè la necessità dell’itinerario intellettuale, dell’itinerario di qualifica grazie a cui le cose giungono alla loro qualità. L’animale domestico dovrebbe garantire della bontà delle cose, senza qualità. Le cose sono buone senza bisogno di qualificarsi. Tutto ciò ha implicazioni rispetto alla questione dell’educazione, che occorre distinguere dall’animalizzazione. Perché se c’è educazione, non c’è animalizzazione ma, se c’è animalizzazione…
Se c’è animalizzazione, non c’è educazione. È un caso non di ossimoro questo, ma proprio di alternativa. L’animalizzazione comporta l’impossibilità dell’educazione, per dire così. Perché? Perché l’animalizzazione insegue la riproduzione dell’animale a cui s’ispira e non certo l’itinerario, la trasformazione, il processo di acquisizione. L’animalizzazione insegue la riproduzione dell’animale a cui s’ispira e, come Gretel insegna, non porta a nessuna educazione. Occorre distinguere l’educazione anche dall’indottrinamento. L’educazione non è un indottrinamento, non è un addestramento, non è un allevamento e non è nemmeno il catalogo delle prescrizioni e dei divieti, delle cose da fare o da non fare, ma è qualcosa che segue all’instaurazione del dispositivo opportuno alla circostanza e all’occorrenza.
È dunque questione difficile, delicata, esige che l’educatore non sia estraneo all’esperienza della parola originaria, non sia estraneo alla logica della parola, non sia partecipe delle credenze che favoriscono l’animalizzazione, non sia dispensatore di animalità; perché, senza la parola, senza la logica della parola, abbiamo la fiaba con i suoi personaggi terrifici, con i suoi fatti pericolosi, con la rappresentazione del male, con tutto ciò che dà luogo alla sostantificazione dell’origine, della credenza nell’origine e alla relativa e conseguente credenza nella predestinazione. La credenza nella predestinazione è un corollario della credenza nell’origine e alla localizzazione dell’origine. In che modo si localizza l’origine? Credendo di essere “figlio di”, figlio di Tizio, figlio di Caio, figlio di una rappresentazione, figlio di quella caratteristica, che è perciò da riprodurre o da evitare. Ma, già credendo di doverla evitare, la si riproduce.
C’era una volta un re e una regina, che ogni giorno dicevano: “Ah, se avessimo un bambino!”. Ma il bambino non veniva mai. — Era come ne Il deserto dei Tartari, uguale — Un giorno che la regina faceva il bagno, ecco saltar fuori dall’acqua una rana, — era un bagno un po’ particolare, dove partecipavano anche le rane — che le disse: “Il tuo desiderio si compirà: prima che sia trascorso un anno, darai alla luce una figlia”.
La profezia della rana si avverò e la regina partorì una bimba, tanto bella che il re non capiva in sé dalla gioia e ordinò una gran festa. — “Non capiva in sé dalla gioia”, traduzione un po’ così — Non invitò soltanto il parentado, gli amici e i conoscenti, ma anche le fate, perché fossero propizie e benevole alla neonata.
Voleva ingraziarsi le fate!
Nel suo regno ce n’eran tredici, ma egli aveva soltanto dodici piatti d’oro — era un re piccolino, un reuccio. Piatti d’oro, mica piatti così, di servizio, di tutti i giorni. Piatti d’oro! Alle fate, dava piatti d’oro. Ma ne aveva solo dodici! — per il pranzo; e perciò una dovette starsene a casa. La festa fu celebrata con gran pompa — con gran pompa: dodici piatti, mica di più! — e stava per finire quando le fate diedero alla bimba i loro doni meravigliosi: la prima le regalò la virtù, la seconda la bellezza, la terza la ricchezza, e così via, tutto quel che si può desiderare al mondo. Undici fate avevano già formulato il loro augurio, quando improvvisamente giunse la tredicesima.
Ecco perché non bisogna essere tredici a tavola, per la superstizione converrebbe essere tredici. È curiosa questa cosa. È una superstizione rovesciata. Tredici sono le fate; in tredici qualcuno è escluso: l’ospite.
Undici fate avevano già formulato il loro augurio, quando improvvisamente giunse la tredicesima. Voleva vendicarsi di non essere stata invitata, e senza salutare né guardar nessuno, disse ad alta voce: “A quindici anni la principessa si pungerà con un fuso e cadrà a terra morta”. E, senza aggiunger altro, volse le spalle e lasciò la sala. Fra la gente atterrita, si fece avanti la dodicesima, che doveva ancora formulare il suo voto: annullare il crudele decreto non poteva, ma poteva mitigarlo e disse: “La principessa non morirà, ma cadrà in un profondo sonno, che durerà cent’anni”. — Viene istituito il purgatorio: non morirà, ma cent’anni di sonno — Il re, che avrebbe voluto preservare la sua cara bambina — era un re buono, dalle buone intenzioni; voleva preservare, lui, la sua cara bambina da quella sciagura — ordinò che tutti i fusi del regno fossero bruciati.
Parlavamo di prevenzione, a confermare che il fuso era proprio… Un male!
Ma nella bimba si compirono i voti delle fate: essa era tanto bella, garbata, gentile e intelligente, che non si poteva guardarla senza volerle bene.
Come Cappuccetto Rosso, uguale. Anche qui c’è uno sguardo: “…non si poteva guardarla senza volerle bene”. C’è un “benocchio”, un benocchio a cui corrisponde dall’altra parte un “malocchio”. Qui, chi la guardava le voleva bene, quindi era un benocchio: però ogni benocchio nasconde un malocchio. E infatti, cosa succede?
Ed ecco, proprio il giorno che compì quindici anni, il re e la regina eran fuori — eh, proprio quel giorno lì erano fuori! —.
…ed ella rimase nel castello. Lo girò in lungo e in largo, visitò tutte le stanze a piacer suo, e giunse infine a una vecchia torre. Salì la stretta scala a chiocciola, fino a una porticina. Nella serratura c’era una chiave arrugginita, — quindi era chiusa a chiave questa porticina — e quand’ella la volse, si spalancò la porta; e in una piccola stanzetta c’era una vecchia con un fuso, che filava alacremente…
…il suo lino. — Filava il lino — “Buon giorno, nonnina — disse la principessa — cosa fai?”. “Filo”, disse la vecchia accennando col capo. “Cos’è questo, che gira così allegramente?”, domandò la fanciulla, e prese il fuso, per provar a filare anche lei. Ma non appena lo toccò, si compì l’incantesimo ed ella si punse un dito.
Appena lo tocca, si compie l’incantesimo e si punge il dito. Interessante questa formulazione. Non dice che si punse un dito e dunque si compì l’incantesimo, ma si compì l’incantesimo e quindi si punse il dito. È preciso. “…Si compì l’incantesimo e ella si punse il dito”. Perciò, si punge il dito per via dell’incantesimo, cioè per via della credenza nell’incantesimo, per dire così. C’è un proverbio, scritto sull’asso di spade delle carte da gioco trevigiane, che dice: “Chi è causa del suo mal, pianga se stesso”. Si punse un dito, in quanto si compì l’incantesimo.
Come sentì la puntura, cadde sul letto che era nella stanza — una stanza attrezzata all’uopo — e vi giacque in sonno profondo. E quel sonno si propagò in tutto il castello, — l’incantesimo, quindi, non vale solo per la principessa — il re e la regina, appena rincasati, s’addormentarono nella sala con tutta la corte. Dormivano i cavalli nella scuderia, i cani nel cortile, i colombi sul letto, le mosche sulla parete; — un’ampia popolazione di animali popolava la reggia: cavalli, cani, colombi, mosche — persino il fuoco, che fiammeggiava nel camino, si smorzò e si assopì, l’arrosto cessò di sfrigolare e il cuoco, che voleva prendere per i capelli uno sguattero colto in fallo, lo lasciò andare e dormì. E il vento tacque, e sugli alberi davanti al castello non si mosse la più piccola fogliolina.
Ma intorno al castello crebbe una siepe di spini, che ogni anno diventava più alta e finì col circondarlo e ricoprirlo tutto, cosicché non se ne vide più nulla, neanche la bandiera sul tetto. Ma nel paese si sparse la leggenda di Rosaspina, la bella addormentata, come infatti veniva chiamata la principessa; e ogni tanto veniva qualche principe, che tentava attraverso il roveto, di penetrar nel castello; ma senza riuscirvi, perché i rovi lo trattenevano, come se avessero mani; e i giovani vi s’impigliavano, non potevan più liberarsi e morivano miseramente. Dopo molti, molti anni, giunse nel paese un altro principe; udì un vecchio narrar dello spineto, che dietro doveva esserci un castello, dove una bellissima principessa, chiamata Rosaspina, dormiva già da cent’anni; — sono passati cent’anni. — e con lei dormivano il re, la regina e tutta la corte. Già da suo nonno egli aveva appreso che molti principi avevan tentato d’attraversar lo spineto, ma vi erano rimasti impigliati ed erano tristemente periti. — Quindi già il nonno raccontava — Allora disse il giovane: “Io non ho paura, e mi aprirò il varco fino alla bella Rosaspina”. E non diede retta al buon vecchio, che cercò in ogni modo di dissuaderlo.
Ma erano appunto passati i cent’anni ed era venuto il giorno che Rosaspina doveva ridestarsi. — Doveva! — Quando il principe si avvicinò allo spineto, trovò soltanto una siepe di grandi, bellissimi fiori, che spontaneamente si separarono per lasciarlo passare illeso, e si ricongiunsero alle sue spalle. Nel cortile del castello vide cavalli e cani da caccia pezzati, che dormivano, sdraiati al suolo; sul tetto erano posati i colombi, con la testina sotto l’ala. E quand’egli entrò nel castello, le mosche dormivano sulla parete, — lì l’incantesimo era ancora in vigore, tutti dormivano — in cucina il cuoco aveva ancora la mano protesa, quasi a ghermire lo sguattero, e la serva era seduta davanti al pollo nero, che doveva spennare. Egli proseguì e nella sala vide dormir tutta la corte, e in alto, presso il trono, giacevano addormentati il re e la regina. Andò oltre; il silenzio era tale che egli udiva il proprio respiro; e finalmente giunse alla torre e aprì la porta della stanzetta in cui dormiva Rosaspina. Là, essa giaceva — non proprio lì nel cortile: in cima alla torre. Ha dovuto cercarla — ed era così bella ch’egli non poteva distoglierne lo sguardo. Si chinò e le diede un bacio. E a quel bacio, Rosaspina aprì gli occhi, si svegliò e lo guardò tutta ridente. Allora scesero insieme; e il re, la regina e tutta la corte si svegliarono e si guardarono l’un l’altro stupefatti. E i cavalli in cortile si alzarono e si scrollarono; i cani da caccia saltarono scodinzolando; i colombi sul tetto trassero la testina di sotto l’ala, si guardarono intorno e volarono nei campi; le mosche ripresero a strisciar sulle pareti; il fuoco in cucina si ravvivò, divampò, continuò a cuocere il pranzo; l’arrosto ricominciò a sfrigolare; e il cuoco diede allo sguattero uno schiaffo che gli strappò un urlo, e la serva finì di spennare il pollo. E furono celebrate con gran pompa le nozze del principe e di Rosaspina, che vissero felici fino…?
…fino alla morte. Fino alla morte. Vissero felici fino alla morte. Non è che vissero felici, no! “Vissero felici fino alla morte”, perché c’è un promemoria in ogni fiaba, un promemoria morale, e questo promemoria è che bisogna morire. Promemoria dell’animale. Secondo Aristotele l’uomo è un animale e, come tale, muore.
Rosaspina che destino può avere se non quello di pungersi? Anche questi sono modi dell’affiliazione, modi di sancire che si tratta di qualcosa che è già scritto; sono tutte mitologie che riproducono il codice genetico, per esempio, ciò che sarebbe già scritto nel codice genetico, con le varie formule tipo “vero figlio”, “figlio degno dei genitori”, eccetera, cioè sempre mantenendo il principio della discendenza, della genealogia, dove si tratterebbe di mantenere un segno o di acquisire un segno. In questo caso, il re voleva preservare la figlia da ogni possibile male. Quindi c’è già il male da debellare, il male da evitare, il male da sconfiggere, come dire che è già vincitore e che, volendo evitare il male, immancabilmente ciò che si vuole evitare…
Il re non predispone un dispositivo, ma si affida a un’opera di prevenzione. Non può chiamarsi certamente dispositivo il fatto di ordinare che tutti i fusi del regno fossero bruciati. Il re ha paura, ha paura della maledizione, si adegua alla maledizione, dunque la conferma. Il re conferma la maledizione della tredicesima fata, che non invita perché ha solo dodici piatti, dodici piatti d’oro. Il re accetta il proprio limite; ha un limite, ha dodici piatti, lo accetta e fa di questo limite anche il segno della figlia. E questo limite diventa la maledizione della figlia: dovrà morire. Perché dovrà morire? Per questo limite. Per questo limite che è del padre e che, accettato, diventa anche il limite della figlia. Questo dice la maledizione: il limite del padre diventa il malocchio della figlia, infatti è guardata male dalla tredicesima fata, che senza salutare e guardare nessuno, se non Rosaspina, la maledice. La guarda male, con malocchio, e la maledice, quindi: “Morirà!”. Quindi, in quale spirito si svolge questa festa che deve consacrare il limite della famiglia, il limite del padre: “…solamente dodici piatti d’oro”, perché questo limite divenga la maledizione della progenie? Rosaspina aderisce a questa maledizione, a questo limite e alla maledizione che a questo limite consegue. E, a quindici anni, soddisfa la profezia.
La questione è questa: in che modo chi ritiene di dovere rispettare un proprio limite, sta invece rispettando un limite della genealogia, riferito alla genealogia, cioè riferito alla presunta famiglia di origine? In che modo chi ritiene di non essere all’altezza, di non avere le capacità, di non avere le possibilità, di non avere i mezzi, di non sapere come fare, eccetera, in che modo sta riproducendo, rispettando e imitando un limite, un handicap, una pecca, una mancanza riscontrabile nella famiglia di cui ritiene di essere figlio, discendente, esponente? Perché propriamente “figlio di”, “segno di”, “prodotto di” quella famiglia, indicano prodotto, dunque riprodotto, che deve riprodurre. Prodotto, cioè procreato. Non generato ma procreato, segno della riproduzione.
Questo padre, questo re, vede le cose finite. Lui ha dodici piatti e così dev’essere. Dodici. Le fate sono di più, gli ospiti sono di più, ma lui ha dodici piatti d’oro e non viene nemmeno considerata l’eventualità di aggiungere. La questione della crescita non c’è qui, quindi non c’è l’autorità. Questo padre, questo re, è senza autorità. Quello è il suo capitale: lui ha dodici piatti. Quello ha e quello fa. Per questo re non si pone l’accrescimento.
Infatti questo re è ciò che Rosaspina pensa del papà. Il re non esiste! Questo re è ciò che Rosaspina pensa del papà, che ha dei limiti e avendo lui dei limiti, non gliene può venire che male: lei morirà. Questo pensa Rosaspina: essendo il papà limitato, Rosaspina morirà… Questa è la fantasia di Rosaspina: avendo un papà debole, pavido, senza l’autorità, senza l’istanza dell’accrescimento, ebbene, non può che morire. È questione di tempo. Quanto? Quindici anni! Giorno più, giorno meno, ma il tempo è finito, morirà. Questa è la questione interessantissima. Quale messaggio da un padre che si rappresenta limitato, senza autorità, senza mezzi!
Nessuno può assistere alla propria nascita, però può favorire la propria rinascita, perché non si tratta di nascere. A nascere sono buoni tutti. Si tratta di rinascere, cioè la questione per ciascuno è il rinascimento. Rosaspina rinasce. Incontra infatti il suo rinascimento come dissipazione dell’incantesimo, come dissipazione della credenza nella magia, o nell’ipnosi, cioè che le cose siano governate e determinate dalle fate, dal destino, dalla predestinazione. Anche in questo senso è molto interessante. L’accento è sul rinascimento, sulla rinascita, che non è una volta per tutte; non si tratta di nascere una volta per tutte, tanto più con la credenza che chi nasce tondo debba restare tondo, talvolta addirittura tonto. C’è un proverbio siciliano che dice: “Chi nasce tondo non può morire quadrato”, “Cu nasci tunnu nun pò mòriri quatratu”.
Per oggi, terminiamo qui e proseguiamo mercoledì con La sirenetta di Andersen e anche con altre considerazioni sino a qui accennate.
Terza conferenza della serie La lettura delle fiabe