Particolarità, proprietà, virtù della parola non sono personali
Con la parola si annuncia la particolarità e la tensione alla qualità. Il motto che l’esperienza della parola ha contribuito a formulare è: “A ciascuno la sua logica, a ciascuno la sua industria, a ciascuno la sua impresa, a ciascuno la sua riuscita”. Il motto indica l’occorrenza pragmatica dello statuto intellettuale che si instaura secondo la particolarità con l’industria della parola, nell’industria della parola, nell’impresa della parola, con i mezzi e gli strumenti della parola. Le proprietà indicano l’itinerario, la vita, la vivenza che procedono dalla parola con lo statuto intellettuale. Non a prescindere dallo statuto e dalla questione intellettuale. Non per un automaticismo magico che, nominando la parola, dovrebbe istituire “per tutti” la riuscita, la logica, l’impresa, la ricerca, la qualità a prescindere dalla domanda e dallo sforzo, a prescindere dalla costanza della domanda e dello sforzo. Nemmeno attraverso la modalità a singhiozzo, saltuaria, per sentito dire. Con la costanza della domanda, dello sforzo, dell’itinerario in atto, con la costanza dello statuto intellettuale si instaura la parola e il “ciascuno”. Allora, ciascuno a suo modo, a ciascuno la sua lingua, non è l’istigazione a parlare come può piacere o secondo la facilità di comprensione reciproca. “A ciascuno” non è il motto, la versione popolare, comune, della proprietà distributiva dell’omologazione. A ciascuno non indica a tutti. Ciascuno non è il quantificatore universale, non è il chiunque, non è l’ognuno. A ciascuno non celebra i tutti e i quanti, non è l’elogio del libero arbitrio e non è un modo di dire che caratterizzerebbe il gergo psico qualcosa contrapposto al gergo comune.
Quando interviene il gergo, l’idea stessa di gergalità, la lingua è tolta e siamo già nella presunta lingua comune, siamo già fra i tutti. Così la parola è espunta, il criterio intellettuale è espunto, la questione intellettuale è negata. “Ah sì, diciamo a ciascuno perché ognuno non si deve dire. Il vostro gergo sarebbe questo”. Ecco la negazione della questione intellettuale e l’esaltazione dell’idiozia e della soggettività, l’esaltazione dell’omologazione e del libero arbitrio.
Il tanto celebrato libero arbitrio non è altro che l’esaltazione della presunta volontà soggettiva di potere fare ciò che si vuole, ciò che ognuno vuole in ossequio alla sua presunta volontà che deve essere sovrana. La volontà è sovrana, la volontà come indice di libertà, dove la libertà è il modo d’intendere la liberazione dalla schiavitù, dalla volontà superiore che dovrebbe indicare come agire.
Già questa è una fantasia di possessione, fantasia di essere posseduti dal nume, dal daimon, dall’ente, dalla volontà superiore da cui affrancarsi. Questo sarebbe il percorso del soggetto: affrancarsi dalla volontà superiore per affermare la propria volontà. L’affrancamento è l’altro nome della schiavitù, nulla ha a che vedere con la questione intellettuale, con la questione della lingua. La volontà soggettiva, la volontà che dovrebbe finalmente manifestarsi e prevalere sulle volontà subite, non è originaria.
Non c’è volontà originaria se non come resistenza dell’uno, come divisione da sé dell’uno. Nessuna soggettività in ciò, nessuna padronanza di ciò, nessun controllo, nessun esercizio sulla divisione da sé dell’uno, l’unica voluntas originaria. Ciò risulta incomprensibile ai fautori del soggetto come soggetto padrone, come soggetto che esercita il suo controllo sulla parola e sulla sua materia. La volontà soggettiva è l’emergenza della genealogia; l’idea, la credenza di potere fare quello che si vuole è l’emergenza della genealogia, è l’ossequio alla genealogia travestita da libertà di volere.
Volere che cosa? Il proprio bene, volere fare quello che si vuole per il proprio bene, bene non più imposto dall’Altro, ma imposto da sé. Il bene imposto, prima era imposto dall’Altro, ora è imposto da sé. Finalmente la padronanza dell’esercizio e del controllo, ossia nessuna trasformazione ma rovesciamento che mantiene il soggetto nella sua soggettività, nella sua genealogia, nella sua negazione della parola, nel suo presunto affrancamento, cioè nei suoi vincoli.
“A ciascuno la sua logica” non indica che ognuno ha la sua logica, la sua particolarità in ossequio al principio del libero arbitrio. “Eh, si sa, noi siamo tutti differenti uno dall’altro e ognuno ha la sua piccola differenza e la chiamiamo particolarità. Ognuno ha la sua logica e, quindi, pensa come vuole, fa quello che vuole”. Evviva! Questa è la negazione della parola e non ha nulla a che vedere con l’instaurazione di ciascuno come statuto intellettuale, secondo la particolarità per l’industria della parola, nell’impresa della parola. Non “a ognuno la sua impresa, a ognuno le sue cose, a ognuno le sue idee”. Ognuno: il quantificatore universale, l’esponente dei tutti, il parificatore. Ognuno è come gli altri, sarebbe “a ognuno le sue idee”. Ognuno, ogni uno, la pluralità dell’uno, l’omologazione dell’uno, la parità, l’identità soggettiva: a ognuno la stessa natura di uno. Ognuno che si crede soggetto libero è, in realtà, soggetto che si è liberato, cioè soggetto affrancato, soggetto!
La logica propria al ciascuno è la logica dell’atto, non è la logica di qualcuno, è la particolarità della parola, dell’atto. Allora, lo statuto intellettuale è lo statuto intellettuale dell’atto, non di qualcuno, non il mio, il tuo, il suo, il nostro, il vostro statuto. Sul principio dell’ognuno sorge la comunità, non il dispositivo intellettuale, ma la comunità degli uni, dei soggetti, degli affrancati, la comunità dei liberti, dei liberi, i liberi pensatori, i liberi appartenenti alla stessa comunità, la cui finalità deve essere il bene, il bene proprio e il bene comune.
A ciascuno la sua logica, la sua lingua, la sua impresa. A ciascuno! Non è una formula facile, sbrigativa, non è formula per differenziarsi, gergale. A ciascuno è la formula che indica la questione intellettuale. Il pettegolezzo ne ha tratto la versione riduzionistica, dove ognuno avrebbe la sua fettina di particolarità, di differenza, per cui ognuno ha la sua piccola differenza, il suo stemma, il suo vessillo da esibire: “Ah, ma io sono differente! Noi siamo differenti!”. Ognuno ha la sua differenza e la esibisce per dire che è la sua particolarità nell’ambito della più ampia comunità dei tutti uguali. Sono gli scherzi della furbizia. La questione intellettuale, la questione della parola è altra cosa, la questione di ciascuno è altra cosa, incomprensibile per chi non intraprende l’esperienza della parola e l’attraversa, per chi se l’accolla come indice di una gergalità che renderebbe diversi.
Nessuno ha la sua logica. Nessuno è, nessuno ha, se non il soggetto che presume di essere e presume di avere; avere, di solito, una marea di problemi, una marea di possibilità e di probabilità che, però, non si realizzano mai per congiunture astrali sfavorevoli! L’idea che ognuno abbia la sua logica, “la sua logica”, una qualunque, e che questa lo legittimerebbe a fare quello che vuole, come gli pare, quello che sa, quello che crede, a fare quello che sceglie, è la formula stessa della pazzia.
Il pazzo fa quello che vuole, il pazzo sceglie se fare o non fare, sceglie se gli piace o non gli piace, sceglie di fare ciò che gli piace, se gli piace. Il pazzo mette il piacere dinanzi, l’idea del piacere, piacere ante litteram, piacere per conoscenza indiretta, per sentito dire: il piacere stabilito dalla scienza, dalla conoscenza, dalla comunità, dall’appartenenza, dalla genealogia, il piacere che sarebbe possibile conoscere e stabilire prima dell’atto e, in base alla conoscenza, potere decidere, stabilire e scegliere se correre il rischio dell’atto.
L’idea di padronanza, di soggettività è questa: eludere, evitare l’atto, cioè padroneggiarlo. Questa è la padronanza, l’elusione e l’evitamento dell’atto, negandolo. Anziché l’accoglimento, la negazione in nome della padronanza, per gestire l’atto, per gestirne gli effetti, le proprietà, le virtù, le particolarità. Anche l’idea di “avere la logica” e di essere conformi alla logica non ha nulla a che vedere con la logica della parola. È rappresentazione di sé e dell’Altro, della genealogia, del conformismo, rappresentazione che procede dall’idea dell’alternanza amico e nemico, dell’alternativa fra il bene e il male, logica del bene e logica del male, morale del bene e morale del male. “Io ho la mia particolarità. Io ho la mia idea di questo e di quello” sarebbe la particolarità assunta e negata.
La particolarità della parola non è la facoltà di scelta tra il bene e il male, ma è la logica diadica e la logica singolare triale: la particolarità della parola. Allora, sfido chiunque a attribuirsi il due e il tre, la logica diadica e la logica singolare triale come attributo personale, facoltà personale, caratteristica personale per potere dire “Io ho la mia logica, logica diadica e logica singolare triale”. Mia, tua, sua, nostra? Rappresentabile come? Rappresentabile in che cosa?
Ciascuno non è l’altro nome dell’ognuno e del chiunque. Nessuno può insediarsi nel ciascuno, attribuirsi il ciascuno e dire “Ecco, io sono ciascuno”. Sì, come dire “Io sono Napoleone, io sono Schreber, io sono pazzo”. Certo, ognuno lo può dire. E quanti non lo dicono? Con convinzione, attribuendosi l’attributo, cioè la padronanza, il toglimento della parola, attribuendosi l’attributo della volgarità, della appartenenza al volgo, al popolo e a quanto c’è di comune. È la volgarità, l’appartenenza allo standard, a quanto c’è di comune, di idiota, di aspecifico, di generico.
L’idea di essere “un ciascuno” è l’idea di instaurare, attraverso l’uso comune di un lessema specifico, il nuovo canone, il nuovo gergo senza la briga di attraversare il gergo, di analizzarlo, di analizzare la lingua, di cogliere quale sia la questione della lingua. Presumere che la cifratura, che approda alla proprietà del viaggio, sia uno scherzo, vuole dire scherzare con la vita, con la qualità, con la vivenza, vuole dire condannarsi alla mediocrità, al nulla e all’infernale per potere lamentarsi giorno e notte nella rappresentazione della mediocrità di sé e dell’Altro.
Ciascuno, oltre che statuto intellettuale, è dispositivo di riuscita, in quanto statuto intellettuale che si scrive, non che “è”, per cui sarebbe raggiunto e mantenuto in pianta stabile. Nessuna stabilità, grazie al tempo. Lo statuto intellettuale è statuto temporale, non statuto umano, non statuto dell’essere umano, dell’essere parlante, non come “chiunque”, non come esponente della comunità, del genere. Ciascuno si instaura avendo dissipato la genealogia, l’idea di origine, di fine, di mortalità, di animalità, di contabilità del tempo, l’idea di cronologia, di essere, di essere fatto o fatta in un certo modo e, pertanto, di dovere rispettare la confezione o la defezione che, in termini realistici, potrebbe precludere o facilitare una cosa o l’altra.
Con lo statuto intellettuale, il caso di cifra. In assenza, abbiamo il caso pietoso, penoso, patologico, psicologico, il caso sociale, compassionevole, il caso negativo, il caso positivo, l’alternanza tra il caso positivo e il caso negativo, e la speranza che l’espiazione della negatività porti a meritare il premio. Dalla pena al premio, ognuno si crogiola nel lamento della pena e nella speranza del premio. Ecco la predestinazione negativa e positiva in cui si barcamena il soggetto che espunge la parola, che evita l’itinerario, la domanda, la costanza, che si crogiola nell’idea di sé e nell’idea dell’Altro.
Il caso di cifra. Anche qui, il pettegolezzo, cos’ha capito? Che è il corrispettivo dell’ascesi, cioè che, dopo tanto sacrificio, tanta pena, tanta penitenza, ognuno giunge a diventare caso di cifra. È il premio. Dopo una vita di stenti, ecco la cifra! La cifra, finalmente! La cifra, il paradiso. Dall’inferno al paradiso, dall’origine alla fine, la fine paradisiaca. La cifra come eutanasia, la buona fine. Ah, che bello! Però andiamoci piano perché, dato che la cifra è l’ultima cifra, ce la somministriamo piano piano, ci arriviamo alla lunga, centelliniamo. Poi, dato che la verità è effetto della cifra, il piacere è effetto della cifra, e la cifra è l’ultima cifra, l’ultimo piacere, ce lo somministriamo proprio per potere, poi, assaporare in pieno il premio finale. Ah, che bello!
La soggettività ha volto la questione della qualità estrema, della qualità assoluta della parola, del caso di cifra, nell’ultimo caso. Dopo di che, la fine. No! La questione è temporale, esige l’occorrenza. Nessuno è caso di cifra. Ciascuno ha da testimoniare del caso di cifra in cui si imbatte volta per volta. Nessuno è caso di cifra. Nessuno è la significazione dell’intersezione tra simbolo e lettera, nessuno è significazione della combinatoria e della combinazione necessarie a che la cifra si istituisca all’intersezione tra simbolo e lettera.
Caso di cifra come caso linguistico, non come caso disperato, sperato, fortunato, caso umano, patologico. Caso di parola, linguistico, di attuazione, caso sintattico, frastico, pragmatico. Caso di cifra, non caso ontologico. L’ontologia è opposta alla parola, è l’invenzione che è stata fatta per opporsi alla parola.
Come potere pensare che la cifra sia ontologica, che la qualità sia ontologica, sia una volta per tutte e significhi la fine del viaggio? È la costruzione degna del migliore pregiudizio psichiatrico, psicologico, sociologico, del migliore pregiudizio disciplinare che, del tutto dedito alla negazione della parola, non può nemmeno lontanamente ammettere che qualcosa sia effetto del tempo, avendolo negato e negandolo costantemente, avendo istituito la cronologia, la contabilità del tempo, la negativa del tempo.
Se tutto ciò non è analizzato, non è indagato, è ben lungi dal potere essere inteso. Inteso? Mai. Capito? Poco. Appena appena avvertito. Allucinato forse, in quanto ognuno è occupato dal mantenimento della “sua” logica, delle “sue” idee, della “sua” vita, dei suoi pregiudizi, delle sue riserve, delle sue remore, dei suoi rimandi quanto alla domanda, alla tensione. E, occupato dal mantenimento di tutto questo bagaglio, ognuno bada alle convenzioni comuni, sociali, ordinarie, alle convenzioni canoniche cui si attiene con scrupolo, perché è ognuno, esponente di genere.
Questo è il soggetto, con le sue convenzioni e convinzioni personali e sociali, rispettoso e dedito all’idea che ha di sé e all’idea che ha dell’Altro, all’idea che crede di dovere avere degli altri, del proprio destino, della propria fine, della propria origine e di ciò che è “suo”. Questo è il soggetto: creatura fantastica dedita a mantenere la sua possessione, rispetto cui giustificazioni e argomentazioni non mancano, non difettano, per mantenere e alimentare ciò che contrasta l’attuazione delle istanze della domanda.
E, allora, ecco l’ottativo, il condizionale, i modi preferiti del soggetto: “Speriamo, mi piacerebbe, vorrei tanto. Vorrei, potrei, farei, se non fossi soggetto”. Perché è priorità per il soggetto mantenere il proprio personalismo, cioè il mimetismo soggettivo che si affianca al familiarismo, al cameratismo, al corporativismo, al comunitarismo che è funzionale alla giustificazione della paura. Il personalismo è l’indice della paura presa per la coda, che quindi è mantenuta come tale, come compromesso soggettivo tra sé e sé, e tra sé e l’Altro, negando la domanda, negando la parola e cercando di venire a patti, a conti, a calcoli con la parola, con la domanda, con l’incalzare delle cose.
Il compito della domanda è l’instaurazione dello statuto intellettuale. Contro questo compito si leva il personalismo, cioè l’idea del possesso di sé, del possesso della maschera di sé, della rappresentazione di sé, della genealogia di sé. Seguendo il principio dell’alternanza e dell’alternativa, ognuno, in quanto uomo, donna, figlio, personaggio, in quanto ruolo sociale e in quanto soggetto all’essere, all’avere, alla volontà, alla volontà di bene, ognuno cerca le soluzioni. E così anche ogni azienda che si lasci rappresentare dall’ognuno nei suoi apparati convenzionali e conformisti.
Ognuno cerca le soluzioni se partecipa ai luoghi comuni della vita, all’algebra e alla geometria della vita, all’algebra e alla geometria del tempo, agli algoritmi della vita e del tempo. Algoritmi intesi come algoritmi delle soluzioni, perché ognuno cerca le soluzioni se non addirittura la soluzione definitiva, la soluzione al male, al disagio, alla sofferenza, all’indigenza, la soluzione alla domanda e alla tensione, all’ansia e alla fatica, la soluzione al sonno e all’insonnia. La soluzione! Ognuno cerca la soluzione mentre la parola, le cose, procedono dal due e si rivolgono alla qualità.
Oh, differenza di caso! Le cose procedono dal due e si rivolgono alla qualità. Ognuno procede dalla sua origine e si rivolge alla soluzione! Non c’è proprio possibile commistione, nessuna possibilità di compromesso. Infatti, nel caso della parola si tratta della vivenza e nel caso di ognuno si tratta dei casi patologici, psichiatrici, dei casi che dimostrano la validità, l’ineluttabilità dell’alternanza e dell’alternativa come principio.
È in nome di questo principio dell’alternanza e dell’alternativa che sorge la curiosa fantasia del possibile miglioramento dell’atto. Ci sono degli atti che non vengono bene, che non riescono bene e che occorre, quindi, migliorare. È la teoria del miglioramento dell’atto, curiosa teoria che ha la sua base nell’alternativa fra il bene e il male. È chiaro che l’atto non viene bene se c’è una componente negativa di qualche natura e di una certa quantità. Bisogna toglierla, bisogna togliere il negativo dall’atto per migliorarlo. Come si chiama questo procedimento di miglioramento degli atti? Si chiama altruismo, che ha la sua massima espressione nella psicoterapia.
La psicoterapia è il procedimento di miglioramento degli atti attraverso l’attuazione della caccia al male. Si tratta di intraprendere la caccia al male per toglierlo di mezzo e, allora, finalmente, avremo il bene, il meglio. Addirittura, in alcuni casi, l’ottimo, il caso ottimo.
L’invenzione moderna della psicoterapia, in particolare cognitivista e comportamentista, con quale strumento conta di riuscire nella caccia e nell’espulsione del male? Con il rafforzamento della capacità di reazione del soggetto, rafforzando la reattività del soggetto e la reazione del soggetto al suo fantasma. Ma, il soggetto è già reazione, è reazione alla parola, alla sua galassia, alle sue costellazioni. Quale terapia del rafforzamento della reazione alla parola per l’entità che è già reazione? Geniale, un processo veramente geniale la psicoterapia: si tratta di togliere il male dalla psiche, dall’atto, per l’apoteosi del bene! È il processo mistico, religioso, spirituale, sacerdotale, misterico. Il rafforzamento dovrebbe privilegiare il criterio del possibile e del probabile, il miglioramento dell’atto attraverso l’applicazione del possibilismo e del probabilismo come criteri di espunzione del rischio di parola. Complimenti, è stato ben trovato!
C’è da chiedersi su che basi è stata congetturata, e poi attuata, questa modalità affermata sia nella psicologia, sia nella medicologia, sia nella sociologia come in altre discipline, che sono sorte sulla conferma e sulla conservazione del sapere acquisito, stabile, del sapere che non deve essere messo in discussione, sapere da tramandare senza sforzo, senza equivoco, senza malinteso e senza cifratura.
Ecco la questione: questa modalità è stata cercata, e poi trovata, sulla base e sul compromesso di espunzione della lingua. La psicoterapia è il modo con cui la lingua è abolita, e con essa l’afasia, cioè la lingua originaria. Il comportamento è la traduzione in fatti una volta tolta la parola e la lingua dall’atto.
La questione che si è posta e si pone con le discipline è quella dell’uniformazione, dell’uniformità delle categorie, degli attributi per mantenere e definire ogni cosa in assenza di linguistica. Come mantenere le categorie? Come mantenere i concetti? Come mantenere le attribuzioni? Negando e togliendo la lingua, negando e togliendo l’afasia, negando e togliendo l’altra lingua e la lingua altra, negando e togliendo la parola e eleggendo il soggetto come ente detentore delle attribuzioni e delle categorizzazioni, cioè, introducendo l’ontologia nel caso umano e facendolo diventare caso patologico.
La patologia è l’espunzione del tempo e della lingua dall’atto, in assenza di cifratura e di qualificazione. Ecco da dove viene la malattia mentale: dal negativo applicato all’essere, dal male applicato all’essere, dall’ontologia negativa applicata al soggetto! Occorre abolire l’effettualità linguistica, il processo di qualificazione, il processo di valorizzazione, il processo intellettuale, l’articolazione e la combinatoria linguistica; occorre abolire la cifratura. La cifratura, ciò per cui ciascuna cosa acquisisce lo statuto intellettuale, non già ontologico. Intellettuale!
Ecco perché l’apparato disciplinare sostiene e pubblicizza la lingua cibernetica, perché favorisce l’esecuzione dei comandi delle macchine e dei soggetti resi macchina, con l’interpretazione univoca dei messaggi, di ciò che entra apparentemente nella comunicazione. L’abolizione della lingua, l’abolizione della parola, trae al facile, al facoltativo, al comune, al generico, al generale che sono prerogative del personalismo. L’atto non è migliorabile. L’atto di parola segue la procedura, è secondo la logica, entra nel processo intellettuale se è in atto il dispositivo intellettuale. L’atto è assoluto.
Se il principio penale e il principio penitenziario non sono applicabili, allora cessa il ricatto del così detto senso di colpa dell’ideale. Che ne è del soggetto senza il senso di colpa? Che ne è?
Undicesima conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola