Non c’è più da aspettare
In riferimento all’esperienza di Freud e ai contributi alla civiltà forniti dal suo testo, il lessema psicanalisi è entrato nel dizionario cifrematico per indicare l’esperienza della parola originaria, l’esperienza della parola che diviene cifra. È stato un modo di valorizzare l’esperienza e l’invenzione di Freud, il suo contributo alla scienza della parola, anche se è con la cifrematica che questo contributo ha, effettivamente, assunto il suo valore, ben oltre le riconduzioni ideologiche, psicologiche cui è stato fatto oggetto già sin dalla traduzione. Ma è constatabile che la valorizzazione che l’esperienza cifrematica ha dato al lessema psicanalisi, non ha superato la barriera omologante, ideologica e pregiudiziale che ha fatto sì che il testo di Freud, in particolare in Italia, ma non solo, sia stato mantenuto segregato, se non segreto.
Questa barriera omologante è constatabile con il fatto che, nel contesto sociale dell’epoca, psicanalisi designa più che l’esperienza di parola, un luogo comune becero e conformista, dove si tratterebbe della commutazione in significazioni generali e aspecifiche di quanto si dice e si fa. È oggi chiamata psicanalisi una sorta di cabala napoletana che dai sogni si estende a ogni formulazione. Si tratta di un apparato di traduzione universale in una presunta lingua comune di quanto si dice e si fa, senza tenere conto che ciò che si dice e ciò che si fa è atto linguistico.
Nella significazione che questo lessema ha assunto, l’atto è negato, l’ascolto è negato e vale, invece, una traduzione già codificata. “Questo vuole dire che…”, è la formula utilizzata come una applicazione tecnologica, come un traduttore universale per potere stabilire “quel che si è” e “quel che si vuole”. È l’applicazione di un algoritmo alle cose che si dicono per convertirle in significazioni di quello che si vuole, di quello che si vuole fare, di ciò che si vuole essere, di ciò che si è detto, per convertire la parola libera in una lingua generale, in una lingua comune e condivisa.
È così che è avvenuta e avviene la conversione della psicanalisi in psicoterapia, cioè in una metodologia conformante, omologante, per il ripristino di un assetto soggettivo che si presume essere andato perduto, con la finalità di un reintegro sociale dei soggetti. Come avverrebbe questo reintegro? Attraverso la somministrazione del canone inteso come trattamento. Il soggetto da reintegrare viene trattato con la somministrazione di un canone di comportamento, canone di pensiero, canone ideologico, canone disciplinare, canone mimetico.
La riconduzione deve essere all’origine e al ritratto umano. Tutto ciò avrebbe il fine di recuperare; l’esperienza della parola sarebbe un recupero, la psicanalisi sarebbe un recupero, la terapia sarebbe nel recupero. Recupero degli aspetti emotivi e cognitivi delle esperienze precedenti che sarebbero andate perdute, per potere ripercorrerle e rielaborarle da differenti punti di vista, in armonia e non in contraddizione, con il resto della propria storia di vita. Ecco il fine psicoterapico: il recupero, il reintegro, il ripercorrimento, la rielaborazione di esperienze precedenti in armonia e non in contraddizione con il resto della propria storia.
Di questo si tratta nella psicoterapia, dell’applicazione del principio di non contraddizione per il mantenimento del principio di alternanza e di alternativa. Il processo di adattamento, di adeguamento, di conformazione deve essere sulla base dell’esclusione della dissidenza della parola. Si tratta non già di fare un percorso ma di ripercorrere, non già di fare un attraversamento ma una rimemorazione, una rielaborazione, una ripetizione, niente di più di una ripetizione, una mera ripetizione guidata in direzione del bene. Non un andamento libero, un itinerario libero, bensì guidati in direzione del bene, il bene proprio come emanazione del bene comune. E la riuscita sarebbe nell’adeguamento al canone.
Cosa abbia questo a che vedere con la psicanalisi come esperienza della parola che diviene cifra è del tutto evidente: non ha nulla a che vedere! Però, il lessema psicanalisi è stato convertito nella sua traduzione in psicoterapia, formula che nega propriamente le caratteristiche, le virtù, le proprietà della psicanalisi come itinerario in direzione della qualità. E allora occorre non avere paura di riconoscere che, oggi, l’esperienza della parola libera è l’esperienza cifrematica e che, rispetto alla traduzione volgare, il termine psicanalisi è in una distanza estrema. Non c’è da contare su una possibile interpretazione che dia alla psicanalisi il suo valore di esperienza. Oggi, dire psicanalisi equivale a dire psicoterapia, vale a dire esperienza di adeguamento e di conformazione al canone. E siccome il processo di questa modalità psicoterapica non è analitico ma è anamnestico, non vale il caso di arrischiare un apparentamento.
L’analisi è la teorematica che indica la dissipazione delle credenze, delle fantasmatiche di appartenenza e di legame con l’origine e la predestinazione. Per via di anamnesi si stabilisce proprio l’appartenenza al ghenos, all’origine, a un’origine di appartenenza che deve essere riconosciuta e mantenuta. È qualcosa di antitetico all’analisi. La metodica psicoterapica è un processo di ripristino platonico dell’identità. Anziché il paradosso dell’identità, si tratta qui dell’identità come prescrizione e della sua attuazione come fine. Del mantenimento e acquisizione dell’identità soggettiva rispetto all’origine. Così è stato inteso il riferimento freudiano all’archeologia come ripristino, come scoperta del proprio vero essere, dell’origine a cui appartenere, la consacrazione del mimetismo anziché la sua dissipazione!
Occorre rilevare questa assoluta distanza e differenza tra l’esperienza della parola, l’esperienza della qualificazione della parola, l’esperienza che va in direzione della qualità e della qualificazione delle cose rispetto a ogni altra forma di psicoterapia, senza nascondere questa differenza e senza nascondersi. Non c’è da avere paura della parola, non c’è da vergognarsi della parola, né c’è da avere paura della lingua, non c’è da vergognarsi della lingua e nemmeno di quell’esperienza che, grazie alla parola e alla lingua, consente di dirigersi verso la qualità delle cose.
La lingua procede dall’afasia, cioè dall’impossibile localizzazione della parola e della sua origine. La lingua non è un apparato codificato, un apparato di segni per la significazione delle cose, ma consta della trialità del segno. La parola, in quanto segno, si tripartisce parlando. Trifunzionalità e tripartizione sono proprietà della parola e del suo processo di qualificazione. Tripartizione del segno. Cosa indica? Indica la tripartizione nello zero, nell’uno e nell’Altro. Tripartizione di significante, nome e Altro. La parola non è identica a sé. Tre funzioni, tre strutture. Funzione di rimozione, funzione di resistenza, funzione di Altro. Struttura della Sintassi, struttura della Frase, struttura del Pragma. Logica e struttura. Altro che l’attribuzione dell’identità al soggetto per il suo reintegro, per la sua ricostituzione, per la sua ricomposizione.
È il processo linguistico che importa, gli effetti della parola, i frutti della lingua. Se togliamo la parola, se togliamo la lingua, diventano possibili la gestione di sé, dell’Altro, delle cose e del tempo, ossia lo studium, senza funzionamento e senza strutturazione. Lo studium delle cose nella loro staticità, nella loro ontologia. Ecco la cura come cura di sé e cura dell’Altro, gestione di sé e gestione dell’Altro, cioè, la cura negata diventa adeguamento al fondamento, alla prescrizione ontologica di come si deve essere. Ecco il rispetto della soggettività, secondo il principio dell’alternanza e dell’alternativa che impedisce l’instaurazione del tre. Negato il due e negato il tre abbiamo le cose “come sono, come stanno e come stavano”. E, allora, per ovviare a quello che viene definito il malessere, occorre ripristinare le cose come stavano nell’era del benessere, quando tutto andava bene, in cerca della causa che ha determinato il rovesciamento del benessere nel malessere!
La cura anamnestica, lo scavo, l’indagine a ritroso, l’indagine diagnostica. Non importano la qualificazione, la narrazione, il racconto per instaurare un altro panorama, lo statuto delle cose, un altro valore. Il valore! In questa negazione della parola vige l’ontologia, cioè vige la negazione dell’aritmetica della parola a favore dell’algebra e della geometria. E il soggetto si attorciglia sull’origine, sulla ricerca intorno all’origine, sul perché dell’origine, sulla necessità di sapere i vizi dell’origine, perché dai vizi dell’origine, ovviamente, dipenderanno i vizi del destino, in una circolarità che chiude la ricerca. L’adesione al principio algebrico e geometrico che devono giungere al ripristino, negano la ricerca e la qualità del viaggio.
L’idea della scoperta del male e del suo perché, impedisce di cogliere i frutti del funzionamento della parola e dell’intervento del tempo della parola, impedisce l’instaurazione del dispositivo della parola, il dispositivo della valorizzazione, il dispositivo del brainworking. A impedire di cogliere i frutti è anche l’idea di soluzione che comprime la ricerca, la orienta in direzione della fine. La soluzione, cioè la fine, ossia la sostanza. La soluzione, ossia l’assenza di analisi. La soluzione, ossia la negazione dell’enigma.
L’analisi non è l’analisi dell’origine o del passato, ma è analisi del sembiante, analisi dell’oggetto, analisi dell’intervento dell’oggetto. Analisi come teorematica che indica che non c’è più sostanza, non c’è più la rappresentazione sostanziale delle cose, ma il lancio e il rilancio in direzione della cifra. E così che si pone la questione della cura. La cura come cura del tempo, la cura del taglio non algebrico, la cura pragmatica e non come attesa del ripristino della salute, dell’attesa come ritorno allo stato primitivo e, quindi, una volta saputa la verità delle cose, potere finalmente fare quel che è opportuno. Questa modalità nega la cura, la ricerca e l’impresa, e conferma la soggettività come immobilismo, come necessità dell’immobilismo e necessità di dovere aspettare di sapere. E ognuno si attribuisce una malattia da cui deve essere guarito. L’attribuzione di malattia è una forma di afflizione soggettiva.
La cura è dispositivo immunitario e clinico, esige la scommessa in direzione della qualità, esige l’azzardo, non l’attesa, non la speranza che il daimon, intervenendo, possa mettere le cose a posto, possa togliere il male per dispensare il bene. Nella cura non c’è una priorità del sapere rispetto al fare. La cura è pragmatica, esige l’instaurazione del gerundio. Cercando e facendo la cura approda alla riuscita. La cura non ha da confermare il soggetto né la sua ontologia. La chance è che nella cura ci sia la dissipazione del soggetto, ossia della fantasmatica che lo mantiene. Cioè, la cura non è un caso particolare del viaggio. La cura è il viaggio, è l’itinerario e non una finalità particolare che orienta il viaggio verso il bene e fa l’economia del viaggio.
La cura sta nel viaggio e la direzione del viaggio non è regolata dalla diagnosi, non è assicurata dalla diagnosi. La conoscenza vera o presunta del male o del bene, di sé o dell’Altro – e quindi si tratta sempre di conoscenza presunta, conoscenza ideale – pregiudica il viaggio, comporta gli evitamenti che inficiano e paralizzano il viaggio. La conoscenza preclude al viaggio le svolte, i giri, i raggiri, le sviste, le cantonate, gli sbagli, gli errori, presumendo l’esistenza di un viaggio ideale che possa procedere nell’economia del tempo, del cammino, del percorso e del dispendio, tirando dritto. Ma, è impossibile abolire la ricerca, è impossibile abolire la Sintassi e la Frase così come è impossibile abolire l’impresa, cioè la struttura del Pragma.
Che cosa comporta tentare di abolire o limitare la ricerca e l’impresa? Vuole dire instaurare il terrore, lo spavento e il panico che sono le modalità che indicano l’instaurazione di un sistema che nega il tempo, nega l’avvenire, nega il viaggio. Terrore, panico e spavento; ogni sistema ha questi indicatori che non sono indici di malattia mentale, ma sono indicatori di sistema, indicatori del toglimento dell’aria, del respiro, della domanda, dell’avvenire.
Come può darsi il caso che l’instaurazione di un sistema che toglie l’infinito, la domanda, la libertà della parola, possa instaurare la gioia, la felicità, la serenità, l’approdo, l’armonia? In nome dell’armonia cosmica, cioè in nome della negazione del due, sorge la necessità della psicoterapia, cioè della somministrazione del canone per il ripristino. Questo è il progetto psicoterapico: abolire la dissidenza della parola a favore del mantenimento del sistema, quel sistema che assicura la necessità psicoterapica. È un circolo ben congegnato!
Nella parola non c’è sistema e, instaurando la parola, non c’è più terrore, non c’è più spavento, non c’è più panico. Questi indici non necessitano di alcun trattamento o di alcuna somministrazione, ma necessitano solamente dell’instaurazione della parola nel suo dispositivo. L’esperienza della parola non è un’esperienza intima, riservata, da mantenere segreta o nascosta, perché esige la restituzione in qualità, esige di dare un contributo alla civiltà e non di accumulare il tesoro per sé. Sarebbe ripristinare ancora una volta il sistema, cioè qualcosa di chiuso, qualcosa di personale abolendo lo scambio. La questione linguistica è la questione dello scambio, lo scambio libero in direzione della qualità, scambio di cui si ignora talvolta di cosa si tratta. Scambio!
E dallo scambio procede il servizio intellettuale. Il contributo alla civiltà è anche il servizio intellettuale. Dove, come e quando attuare il servizio intellettuale? Di cosa si tratta? Si tratta del brainworking, ossia il dispositivo della parola in direzione della qualità, il dispositivo della scrittura della ricerca e dell’impresa in direzione della qualità. Brainworking, cioè dispositivo di direzione e di valore; ma non per sé, non tra sé e sé, è per ciascuno. La questione è quella del ciascuno, cioè dello statuto di valore che il dispositivo instaura.
A chi sta, oggi, indicare la direzione del valore a fronte del monopolio professionale, confessionale, ideologico, sociale, che tenta di convertire il servizio in soggettività, somministrazione della soggettività? Di chi è il compito di indicare la direzione al valore? Ecco, chi ha assunto la scommessa come scommessa intellettuale può proporsi questo compito come programma di vita. Senza più aspettare!
Se c’è chi non ha orrore, terrore, panico, spavento, può formulare qualche notazione; se invece è tutto chiaro e non c’è bisogno di discutere nulla, allora possiamo andare!
Il lessema psicanalisi è preciso, per chi lo ha elaborato. Ma, al di fuori del contesto di questa elaborazione, lei dice psicanalisi e il suo interlocutore capisce psicoterapia, lei dice parola libera e il suo interlocutore capisce somministrazione del canone di comportamento, lei dice qualificazione delle cose e il suo interlocutore capisce malattia da cui bisogna guarire. Allora, lei vuole passare tutta la conversazione, l’interlocuzione a spiegare “No, ha capito male”? Vuole passare il suo tempo a convincere?
Occorre introdurre la novità nel suo estremismo. Non si tratta di chiarire che c’è una rappresentazione della psicanalisi sbagliata e invece questa è quella giusta. Nessuno può essere convinto, può solo prodursi uno squarcio per cui qualcosa di nuovo rompe il muro del sistema, il muro della conoscenza, il muro del pregiudizio psichiatrico e questa novità non può passare attraverso questo lessema, perché ormai è abusato, logorato, reso conosciuto, presunto conosciuto come indicativo di un codice che non è dato dall’esperienza psicanalitica, ma dalle conoscenze psicologiche.
Allora, perché insistere a volere fare la lotta delle piccole differenze per evitare equivoci, menzogne e malintesi e porre la versione corretta? Occorre, invece, che si instaurino equivoci, menzogne e malintesi rispetto a qualcosa che non è conosciuto, e che non può essere recuperato nel codice del sistema delle cose conosciute. È evidente. D’altronde, non c’è alcuna necessità di fare la battaglia sulle proprietà di questo lessema. Sul lessema cifrematica non c’è nessun diritto di proprietà da stabilire, perché non si è stabilito attorno a questo lessema nessuna conoscenza di natura disciplinare e, quindi, può veicolare un’attenzione e un interesse verso qualcosa che giunge nuovo, mentre il pregiudizio soggettivo comporta tutto ciò che giunge conosciuto in toto o in parte.
La questione è quella dell’esperienza della parola, è quella del servizio intellettuale, questa è la proposta, la questione della scommessa intorno al servizio intellettuale. Questo servizio si chiama brainworking, e comporta l’instaurazione di altri dispositivi, non l’attesa che venga conosciuto; l’attuazione di dispositivi che indicano il servizio in atto. Allora, chi ha l’ambizione, l’audacia di dire che la sua vita è esperienza, non può esimersi, perché esimersi è negare lo specifico dell’esperienza stessa, che non è quella di stare raccolta in se stessa e svolgersi nell’intimità tra sé e sé, o di sé all’Altro, ma esige il pubblico, esige la testimonianza, esige il servizio intellettuale, esige il contributo alla civiltà. Questa è la questione intellettuale che esclude la conventicola, esclude l’applicazione a una disciplina, o a un ordine, o al ghenos e pone, invece, l’istanza pragmatica. Senza l’istanza pragmatica si tratta ancora di psicoterapia. Ognuno pensa di ambire alla qualità, invece ambisce alla soluzione delle sue questioni personali, cioè è soggetto. Allora, tanto vale che questo soggetto sappia che sta coltivando una intimità di sé in sé.
Dodicesima conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola