La scuola senza etichette
È etico ciò che si rivolge al bene? L’etica sarebbe quindi una scienza del bene, meglio ancora se del bene comune? Oppure è etico ciò che muove dal bene, e in quanto buono può essere desiderato o desiderabile? E quindi l’etica sarebbe la scienza del buon movente?
Nei due casi deve essere noto ora il bene finale, ora il bene iniziale. Deve, cioè, essere conosciuto o l’inizio o la fine. Dunque un’etica geometrica e un’etica algebrica, ad excludendum, per escludere il male. Per quanto attiene la conoscenza dell’inizio si prescriverebbe una bontà dell’intenzione, con la formula di rito: “Cosa vuoi? Perché lo vuoi?”, per valutare il grado di coerenza tra l’intenzione e il metodo applicato per conseguirla. E rilevando la coerenza, potrebbe venire certificato il grado di normalità maggiore o minore in base a quella che viene ritenuta la possibile ottimizzazione del tempo e del modo per conseguire l’intenzione stessa. Questo finalismo diretto sarebbe la prova della normalità, in ottemperanza al principio energetistico del risparmio. Per quanto attiene al fine o alla fine, si tratti della felicità o della riunione con Dio, stabilirlo vale a prescrivere la modalità stessa o le modalità per conseguirlo, secondo il criterio della moralità o ancora della normalità.
Queste sono le varianti dell’etica come prescrizione, che vigono anche quando al bene viene sostituita la nozione di valore che, comunque, deve trattarsi sempre di valore condiviso o valore comune. Sono varianti dell’etica umana o etica sociale, dove si tratta soprattutto della finalità, del fine, della fine dell’atto, per la sua coerenza con l’intenzione e, soprattutto, della rispondenza a un’economia del bene o a un’economia del male. E così, su questi presupposti è sorto il cosiddetto “principio del piacere”. Ogni cosa, ogni azione, ogni atto sarebbe finalizzato al piacere. Si fa per piacere, per ottenere il piacere. Questa sarebbe una buona giustificazione, fare per piacere. Altrimenti, perché fare? Ma questo principio di piacere cui sarebbero rivolte le azioni e da cui sarebbero orientate, sorge proprio in quanto questo finalismo al piacere non è naturale, né risponde a un principio universale. Sorge, invece, perché risponderebbe a una presunta possibile applicazione dell’etica intesa come prescrizione morale. Il principio del piacere sarebbe un principio accomodante, giustificante, legittimante le azioni umane che, altrimenti, risulterebbero incomprensibili, ineconomiche, inspiegabili, ingiustificate. Sarebbero indici di pazzia.
Il piacere come causa, il piacere come fine. Due apparenti posizioni che, in realtà, corrispondono a uno stesso requisito, cioè di conoscere cosa sia il piacere, quale sia, dove stia. Il principio di piacere come prescrizione morale mai può divenire modo pulsionale. L’ipotesi che la pulsione si rivolga al piacere è un’ipotesi economicistica, è un’ipotesi gnostica, è un’ipotesi umana. La pulsione si rivolge alla qualità, e il piacere segue questo rivolgimento alla qualità, ma in maniera del tutto inconoscibile, incalcolabile, imprescrivibile, inassoggettabile a un’idea standard di piacere che possa renderlo piacevole e conoscibile. Il piacere non può orientare o finalizzare alcunché. Freud stesso s’era accorto che l’idea del piacere presunto, noto, calcolato, fondava una economicistica della pulsione, una energetistica, una gnosi, insomma fondava il culto del soggetto. Infatti scrive Oltre il principio di piacere. Oltre. Il pulsionale è oltre il principio del piacere, il viaggio si svolge oltre questo principio, la parola è oltre questo principio. E il soggetto che ne resta ancorato è al di qua del piacere, resta ancorato al suo principio, accontentandosi della rappresentazione del piacere, della concezione erotica del piacere, che consiste in un contenimento dell’approdo oltre il quale si situa il piacere. Contenimento dell’approdo che avrebbe invece il compito di soddisfare la “visione” del piacere, la concezione erotica che dovrebbe rappresentare la padronanza sull’oggetto e sul tempo. Il principio del piacere è il principio della presa sull’oggetto del raggiungimento dell’oggetto, intendendo che il soddisfacimento pulsionale sia in questa presa, sia nel raggiungimento del suo oggetto. Questo è l’erotismo dell’oggetto. Oppure che stia nella fissazione del tempo, nella impossibile gestione del tempo, per garantire una soggettività, un’identità, un’immagine stabile di sé e delle cose, per potere garantire la psicologia del piacere: come ottenere il piacere! Ecco il vademecum prescrittivo dell’erotismo del tempo.
La pulsione non raggiunge mai il suo oggetto perché è causata dall’oggetto, perchè non è conosciuto e non risponde a una prescrizione sociale o umana, non risponde a una finalizzazione umana o sociale, finalizzata al buon comportamento, al corretto comportamento, alla corretta gestione. Tutto ciò appartiene a quella nebulosa che Freud aveva qualificato “nevrosi” o “psicosi”, modi dell’economia, modi dell’idiozia, modi per credersi, rappresentarsi e mantenersi tali. Modi per ricordarsi con dispiacere, con vittimismo, per ricordarsi come si è, come si è fatti, come si dovrebbe fare, come non si può fare. Né la pulsione può ritenersi finalizzata alla conservazione della specie. Non è questo il suo compito, non è questo il suo motivo, non è questa la sua ragione. Proprio il principio del piacere lo indica, in quanto non sarebbe sorto a ipotetica difesa del ruolo sociale della pulsione se la ragione della pulsione fosse il mantenimento della specie. Questa ragione in sé sarebbe la ragione sufficiente e non esisterebbe il principio di piacere. Dunque nessuna prescrizione al bene, nessuna prescrizione al piacere, nessuna abitudine al bene, nessuna abitudine al piacere.
La questione della crisi è questa: l’intervento del tempo con la sua anatomia. L’intervento della trasformazione è incessante e vanifica ogni ideale instaurazione dell’epoca, cioè di un sistema di credenze che possa rappresentare il progresso verso il fine o la fine comuni. Nessuna possibile instaurazione di quell’epoca ideale, auspicata da varie ideologie, che possa rappresentare la sua apoteosi nell’adempimento di un’organizzazione definitiva attorno a un principio unico e unificante, nessuna unità, dunque nessun ritorno, nessuna circolarità, nessuna possibile padronanza, nessun soggetto padrone. “Crisi” è il modo del tempo e anche del giudizio senza condanna, senza premio, senza istituto della vendetta. La teorematica della vendetta, la formalizzazione dell’inesistenza del soggetto padrone e di un soggetto schiavo e l’inconsistenza della sistematica, della sostanziabilità della parola, è essenziale per lo statuto intellettuale di ciascuno. Ciascun accidente, ciascun accadimento introduce elementi di crisi, ossia è propizio per intendere. Per intendere ciascuna cosa, non per intendere in generale! Ciascuna cosa esige l’intendimento, in quanto il tempo interviene differentemente. La crisi si combina con la Pentecoste e favorisce l’intendimento. La differenza è una virtù del tempo e non è attributo di qualcuno, e cogliere questo è già trovarsi nella questione intellettuale che procede dall’apertura e è contrassegnata dal tempo. Quindi senza ripetizione, senza identità, senza circolarità, senza ritorno. L’analogia, la somiglianza sono indicazioni per la crisi e della crisi, e vanno in direzione della differenza, non dell’uguale. Così la rimemorazione si stabilisce quando la crisi è negata. Ricordare, ricordarsi, ripetersi senza elaborare, per confermare l’idea di sé o l’idea del fatto, del fatto fondante, della colpa, del crimine di sé o dell’Altro, del crimine su cui fondare il sistema. Il crimine non è criminoso, il crimine è originario. Il crimine non è criminale. Crimen è l’apertura stessa, originaria, per cui nulla è identico e nulla si ripete. Quando c’è l’idea che qualcosa si ripeta, si sia ripetuto, si stia ripetendo, senza differenza, quando questa idea interviene è un’indicazione dell’esigenza della elaborazione e della formalizzazione. Se nulla si formalizza, allora le cose possono essere ritenute identiche, uguali, tali. Ma la formulazione, la formalizzazione introducono alla prova di realtà e alla prova di verità. Ma qual è il criterio a cui attenersi? Quello della paura, quello del ricordo, quello dell’essere? O quello della qualità e dell’avvenire? Il criterio di come eravamo o di come saremo quando… Prefigurarsi come saremo non è l’avvenire, è un’idea di fine. È una variante della modalità di essere, di pensarsi, di rappresentarsi. L’avvenire è senza conoscenza, senza soggetto, senza soggettività, senza rappresentazione di sé e dell’Altro. Ogni rappresentazione è dettata dalla paura, dall’idea di fine, come il colpo di sonno. Il colpo di sonno, colpo di mamma, idea della fine. Come interviene la paura? Con il colpo di sonno, per esempio!
Perché avere paura dell’avvenire? Avere paura del fare? Di ciò che l’occorrenza indica, per soffermarsi invece sull’erotismo, dell’indugio davanti al fare, dell’indugio rispetto al gerundio, senza cui il piacere stesso è negato, il viaggio è negato.
Senza il gerundio è il discorso ipotetico, è l’etica ipotetica; l’erotismo reale è il rapporto di sé a sé o di sé con l’Altro, cioè il rapporto di due animali fantastici, rapporto zoologico. Come ogni rapporto esige insiemi finiti, entità finite. Perché dunque avere paura dell’atto sessuale, avere paura della parola? Perché lasciare che su di sé gravi l’ombra del male o del negativo? Del male di sé o del male dell’Altro? Del negativo di sé, del negativo del tempo o del negativo dell’Altro?
E su quest’ombra che grava su ognuno, sorge l’alternativa: fidarsi o non fidarsi? Alternativa che sorge dall’idea che ognuno ha di sé o dall’idea che ognuno ha dell’Altro, dell’Altro rappresentato. Questa alternativa è senza fede, senza tempo, è l’alternativa dei soggetti, fra soggetti, è l’alternativa senza il dispositivo fiduciario, dove la fiducia è il modo in cui opera la fede nella riuscita, non la fede in qualcuno, la fiducia in sé, non la fede in Dio, non la fede nel bene, non la fede nella buona sorte; la fede nella riuscita, la fede come operatore per la riuscita. E questo dispositivo della fiducia si avvale, a sua volta, almeno di altri due dispositivi, quello della solidarietà e del patto, patto per la riuscita e solidarietà per l’accoglimento. Se il sospetto è di qualificazione e non di male, se il sospetto è cifra e non di negativo, se il sospetto è ciò che muove dalla curiosità e va in direzione della qualificazione, della valorizzazione, allora ciascuna circostanza è propizia in quanto può volgersi al valore, e non c’è sostanza negativa, e non c’è da rimpiangere nulla, né del passato, né del presente, né dell’avvenire. Negare la crisi comporta negare il compimento della scrittura, negare che le cose si compiano, impedire che le cose si compiano, opporsi a che le cose si compiano, boicottare il compimento. Il compimento della scrittura si svolge su tre registri: la legge o legge della parola come compimento della scrittura sintattica, l’etica come compimento della scrittura frastica e la clinica come compimento della scrittura pragmatica. Chi sta a guardare, chi sta a pensarsi, chi sta a crogiolarsi, a leccarsi le proprie presunte ferite, a quale compimento, a quale registro può indirizzarsi? Sintassi, frase, pragma. Tre strutture. Sintassi, la struttura della rimozione, frase la struttura della resistenza, pragma la struttura della funzione vuota, dell’Altro, della funzione di Altro. Tre strutture che tendono a scriversi. Non per predestinazione ma pulsionalmente, nel dispositivo pulsionale, nel dispositivo intellettuale, senza credersi tali, senza credersi soggetti, senza credersi questo o quello, tizio o caio. Tendendo queste tre strutture a scriversi, l’esperienza si scrive e questa è la memoria, che dunque non è memoria del passato, ma memoria in atto, memoria come scrittura di quello che si fa, di ciò che si fa, di ciò che si dice, di ciò che entra nel registro della legge, dell’etica e della clinica. Nessuna prescrizione, dunque, a modalità comportamentali, ma l’istanza del compimento, istanza finanziaria. Risulta paradossale la formula: “Mi ricordo quella volta che…”, oppure: “Mi ricordo precisamente…”, oppure: “Questa volta è paragonabile a quell’altra in cui è accaduto che… Mi ricordo perfettamente!”. Questa è la negazione della memoria, è la negazione della scrittura dell’esperienza, ma la rimemorazione del fatto come ripetibile, nella mummificazione. Questa è la mummificazione: l’esaltazione di sé come mummia. La mummia, il padrone del tempo, colui che attraversa i secoli la mummia, incontaminata dal tempo, indifferente al tempo, invariata nel tempo, senza tempo! Queste formule servono solo per stabilire una presunta identità di modo o di fatto. Ciò che è constatabile nell’esperienza di parola è che il tempo è innegabile, la differenza è innegabile. E la questione è: ciò che sta accadendo come si articola, come si svolge? Non già se è analogo o simile o ripetente il passato. Dunque quel che sta accadendo ora, come si elabora, come si formalizza, come si qualifica? Come entra nel mio viaggio? Non già se mi riguarda o no, se è bello o no, se è stimolante o no, se mi tocca o no. Nulla tocca nessuno se le cose accadono per integrazione. Non c’è contatto. La cosa è intellettuale, procede dall’intero. Come farsi toccare da qualcosa? Ognuno reagisce all’idea di essere toccato e la sua reazione è indicativa della soggettività in cui è preso. Chi è toccato è soggetto. Si sente toccato perché si crede soggetto, dunque reagisce, e ogni reazione è idiota, perché in assenza di formalizzazione, di elaborazione, di qualificazione, di valorizzazione. È in assenza di statuto intellettuale. Eppure, la prescrizione vigente è quella di reagire. Occorre reagire. “Sei giù? Reagisci!”, “Stai male? Devi reagire!”, “Come ti senti? Devi reagire!”. Reagiamo! “Reagisci, vedrai che ti sentirai meglio, sollevato”. Ogni soggetto reagisce, reagisce già di suo, reagisce alla parola. Ogni reazione è reazione alla parola! Senza reagire, la questione è come ciò che sta accadendo si situa in direzione dell’avvenire, in direzione del proseguimento, in direzione della valorizzazione. Come? È un contributo al viaggio. Come? Senza reagire, ma con l’instaurazione del dispositivo fiduciario: solidarietà e patto. Non razzismo e diffidenza, solidarietà e patto. Non chiusura, sfida e condanna. Solidarietà e patto per la riuscita.
Pensare la ripetizione è un’idea di toglimento del tempo “Io sono così, non c’è nulla da fare, questo non l’ho mai fatto e anzi, sicuramente, non ne sono capace. Non lo so come fare.”. E chi ha detto che occorre saperlo? Da dove viene l’idea che il fare dipenda dal sapere? Chi lo sostiene? Sono formule della soggettività, cioè della negazione del transfert. Il soggetto in quanto immutabile, in quanto gnostico, in quanto cosciente, sarebbe infatti in assenza di transfert, in assenza di parola, in assenza di trasformazione, in assenza di crisi. Perché il soggetto teme sopra ogni cosa di andare in crisi, di essere messo in crisi. Il soggetto in realtà è sempre in crisi. “Come stai?” “Sono in crisi”. C’è uno spiraglio! Piccolo ma c’è. La scommessa intellettuale è innanzitutto una scommessa sul transfert, sul processo di qualificazione, non sulla saccenza, non sulla sufficienza, non sull’idea di sé, ma è scommessa sulla scrittura, sulla riuscita. Si tratta, come dicevamo, di non negare la pulsione e di non opporvisi.
Negazione o opposizione sarebbero in nome di una ragione soggettiva, che è l’altro nome del fantasma materno, o del fantasma di padronanza, che è la stessa cosa. Nessuno è tale, nessuna cosa è tale. La domanda si dirige alla cifra nel dispositivo intellettuale, a condizione però di non negarlo. Perché ognuno crede di farsi bello reagendo al dispositivo intellettuale, dimostrandosi sufficiente a se stesso, sufficiente all’idea di bastare a se stesso, per etichettarsi in questo o in quel modo. Ognuno si affibbia un’etichetta per dimostrare di essere qualcosa o qualcuno, per dimostrare la sua ragione sufficiente, la sua ragione soggettiva. Ogni etichetta vuole dimostrare questo, l’appartenenza a una ragione soggettiva, a una ragione sufficiente. Purtroppo questo è l’esempio che viene anche dalla scuola, dove, adottando sistemi di riferimento gnostici, ognuno è passibile di etichetta. E ogni etichetta contraddistingue un essere e la sua soggettività, e al colmo della casistica ritenuta scientifica, la sua personalità. Se queste etichette vengono attribuite, o c’è chi se le attribuisce, o chi crede di meritarle, o chi crede con questo di definirsi, di rappresentarsi meglio, per indicare il suo stato, il suo essere, la sua natura, se queste etichette, anziché rivolgersi al transfert, dunque alla qualificazione, alla scrittura, alla valorizzazione, anziché entrare nel processo di parola, nel processo intellettuale, si pietrificano, si sostantificano, senza equivoco, senza menzogna, senza malinteso, quindi senza processo metaforico, metonimico o di catacresi, allora la responsabilità, la capacità, il limite, si personalizzano per dar luogo al soggetto irresponsabile, al soggetto incapace, al soggetto limitato. Se si tiene conto che responsabilità, capacità e limite sono proprietà di ciò che si scrive in direzione della legge, dell’etica e della clinica della parola allora non c’è più la necessità di attenersi all’etichetta, non c’è più nemmeno per Daniel Paul Schreber la necessità di qualificarsi, di definirsi präsident, Senatspräsident. Non c’è più la necessità del nome del nome o del significante istituzionale con cui “presentarsi” all’Altro rappresentato per stabilire convenevoli sociali, del rapporto di sé a sé e di sé all’Altro, non c’è più la necessità di attenersi al ricordo di quel che ognuno crede di essere o di essere stato.
Ebbene, è giunto il momento della dissipazione dell’etichettatura. È giunto il momento, in questa era della parola, che chi è testimone della parola, dei suoi effetti, dei suoi modi, della sua civiltà, delle sue istanze, valorizzi il capitale della vita, valorizzi gli elementi del suo viaggio, del suo itinerario, che costituiscono il capitale intellettuale.
Tredicesima conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto