La scuola: per tutti o per ciascuno?
Chi insegna e a chi? Agli allievi? Alla classe? A un insieme? E dove avviene questo?
La risposta a queste domande esige un certo percorso, una certa ricognizione di varie cose. Osserviamo le stelle nel cielo: si tratta del cielo stellato? Di tutte le stelle o di ciascuna stella? Le cose sono tante. Quantificandole, si tratta di tutte le cose o di ciascuna cosa? Il vento va e poi viene: si tratta di tutto il vento o di ciascun refolo, di ciascun soffio? Le cose si dicono: tutte le cose o ciascuna cosa? Tutto e ciascuno non vanno insieme, non si equivalgono né sono sinonimi; quel che si dice tende a qualificarsi, tende a divenire qualità, tende al valore, al valore assoluto, ma in che modo ognuno si oppone a questa tendenza? In che modo ognuno riesce a opporsi alla tendenza delle cose a qualificarsi? In che modo si oppone, volendo sapere già ciò che dice, volendo addirittura sapere già ciò che sta per dire, pensando di sapere già, e quindi rinunciando a dire, a lasciare che le cose si dicano, tacendo? “Questo posso anche non dirlo, posso tacerlo, tanto so già più o meno cosa vuol dire”. È questo il modo di togliere il tempo dalla parola.
È il tempo infatti che, intervenendo, effettua il senso, il sapere, la verità. Sono questi gli effetti della parola, gli effetti con cui la parola agisce, e con il senso, il sapere, la verità la differenza sessuale, che non è la differenza tra i sessi, tra uomo e donna, tra maschio e femmina. La differenza sessuale, ossia la differenza temporale, la differenza assoluta per cui le cose si scrivono. Per questa struttura temporale, per via dell’intervento del tempo, il miraggio della conoscenza o della conoscibilità è vano, non si realizza, è appunto un miraggio. Conoscenza e conoscibilità restano un miraggio, perché è impossibile abolire il tempo, togliere il tempo. È impossibile ripetere, impossibile che qualcosa si ripeta. E quindi, se nulla si ripete, nulla è già noto, nulla è già visto o già saputo. Occorre capire, occorre intendere, occorre ascoltare. Ma come capire, come intendere, come ascoltare? Capire, intendere, ascoltare esigono l’assenza della possibile scelta fra il bene e il male. Sono senza l’idea del bene o del male dinanzi, quindi senza l’idea di alternativa, senza l’idea di dovere o potere o sapere mediare fra il bene e il male. Anche senza l’idea di volere mediare. Senza mediazione, senza cioè dovere accollarsi la paura di sbagliare fra il bene o il male, fra un’ipotesi positiva e una negativa. La paura è l’unico freno alla riuscita, è l’unico antidoto alla riuscita. La paura esige il suo soggetto, il soggetto agente, non più dunque la parola che agisce, ma il soggetto che agisce, il soggetto quale presunto agente di ciò che può risultare positivo o negativo, giusto o sbagliato, e così la paura frena la riuscita. Nella scuola, negli studi, nel lavoro, nella ricerca, nell’impresa, nella vita. La paura è ciò per cui la domanda, che tende alla soddisfazione, al soddisfacimento, viene contenuta, viene limitata, viene frenata, viene rappresentata, viene corretta secondo i canoni soggettivi. Quindi, per paura, ognuno pretende le cose facili, pretende che le cose siano facili. La paura di non farcela. Teme di non farcela, di non essere all’altezza, teme che possa andare male, teme. Teme che sia troppo difficile. Così la scuola: la scuola deve essere facile? Deve essere accessibile? E soprattutto deve essere accessibile a tutti? L’accesso indica la via dei modi del viaggio. Per questo non c’è acceso diretto. Non c’è accesso diretto alla parola, accesso diretto alla comunicazione accesso diretto all’inconscio. Nessun acceso diretto. Ma l’accesso, particolare e specifico a ciascuno, per ciascuno, in ciascun caso. Nessun parlare facile può consentire l’accesso alla parola, l’accesso diretto, che sarebbe l’accesso senza intellettualità, senza materia intellettuale, senza materia del dire. Come poter presumere di spianare il viaggio? Di renderlo rettilineo? Di togliere l’increspatura dalla superficie? Sarebbe come togliere il viaggio.
Tolto il viaggio, tolta l’istanza del viaggio, ecco il viaggio per tutti, dove tutti possono accedervi. Ma tutti chi? Chi sono questi tutti? L’idea che la scuola possa essere per tutti è la negazione della scuola, è la negazione dell’itinerario intellettuale che la scuola ha il compito di avviare, dunque per tutti, cioè nessuno escluso. Per tutti: assurdo. E da dove viene l’idea che qualcuno possa risultare escluso? Da dove viene questo pericolo di esclusione? Un monito recita: “La legge è uguale per tutti”. Un altro dice: “Tutti sono uguali di fronte la legge”. Un altro ancora dice: “La scuola è per tutti”. Allora tutti sono uguali per la scuola o nella scuola? Tutti in quanto uguali? Uguaglianza equità, parità. Uguale, cioè che non pende da nessuna parte. Questa è la caratteristica dell’ugualitas, la superficie che non pende da nessuna parte. Ma questo non impedisce che questa superficie possa incorrere nella sintassi di quel che si dice, dunque nell’equivoco, per cui non c’è cosa pari a un’altra cosa. Questa equità della superficie non la rende tale da parificare alcunché, nulla è pari a altro. Impossibile parità, impossibile ontologia. Come trovare un carattere comune? Come trovare qualcosa in comune? Come poter partecipare di qualcosa, a qualcosa, comunemente? Quale minimo comune multiplo, quale minimo comune male, quale massimo comun divisore per poter comprendere tutti? Quale arte, quale cultura, quale scienza potrebbero sorgere dall’applicazione di questa prescrizione alla comunanza, comunanza a essere tutti? Tutti, per di più uguali. La legge uguale, tutti sono uguali… Dove? Dove sarebbe possibile questo? Forse nella città dei morti viventi. Chi può inscriversi nella prescrizione all’omologazione tale per cui possa essere rispettata la caratteristica universale? Perché ci deve essere una caratteristica universale perché tutti siano uguali, e quindi ognuno, ognuno quindi tutti. Ognuno è il moltiplicatore universale per cui uno vale l’altro, senza differenza, senza variazione, anche senza distinzione; alla base della prescrizione a essere tutti, tutti insieme, tutti uguali, a condividere, c’è quindi l’interscambiabilità. Ognuno è interscambiabile, perché tutti sono uguali, i soggetti sono interscambiabili, i soggetti cloni. Ma quindi l’istruzione a chi si rivolge? L’insegnamento a chi si rivolge? E l’educazione a chi si rivolge? La pedagogia è per tutti o per ciascuno? E la psicanalisi? È per tutti? E la cifrematica? È per tutti? E l’esperienza della parola è per tutti? Si rivolge a tutti?
Impossibile. Il particolare e lo specifico, l’analisi, la qualificazione, la clinica, la scrittura, la valorizzazione esigono l’esperienza del ciascuno, e l’esperienza per ciascuno come unicum e come caso di qualità. Quando tutti? Quale caso può consentire di rappresentare il caso di tutti? Quale caso potrebbe essere il caso di tutti? Che ci sia chi corre il rischio di verità, il rischio di parola, il rischio d’impresa, di ricerca non toglie niente a nessuno. Nessuna cosa toglie nulla all’altra cosa. Nessuno toglie niente all’Altro. Perché allora questa prescrizione alla totalità, ai tutti? “Tutti dicono”, “Tutti pensano”. “Non posso fare così, perché tutti mi dicono…”. Tutti mi dicono. “Tutti penserebbero che io…”, “Eh, non sono più dei loro”. Oh, perbacco, perché quando mai qualcuno è stato un esponente della totalità, di tutti? Ma “tutti mi dicono che…”, “tutti pensano che…”, “tutti fanno così”, “tutti dicono così”. Tutti chi? “Tutti quanti”. E quanti sono, tutti? Proviamo a dire quanti sono, e quindi quali sono. Quanti e quali sono questi tutti? Due o tre, forse addirittura due, papà e la mamma; forse uno solo, la mamma, o il papà. “Tutti”. “Dovrei subire la vergogna davanti a tutti”. Tutti. Un modo di rappresentare l’idea della morale. Perché solo la morale può esporre alla gogna. La gogna è la gogna morale, non c’è altra gogna. La paura, dunque, è anche paura della gogna. È una paura morale. La morale sorge per favorire la paura, per servire la paura, per trovare tutti i servitori della paura. Dunque, nell’esperienza della parola, nell’itinerario intellettuale non ci sono più tutti, non c’è più l’idea dei tutti. Ma tuttavia quest’idea che tutti debbono, possono, hanno diritto a fare, tutti debbono avere, tutti debbono essere, possono essere, quest’idea persiste, quest’idea ha una solida base sociale, il principio dell’invidia sociale e il principio della parità sociale. Principio con le sue due facce, il male e il bene; male da evitare e il bene da prescrivere, da difendere, da tutelare, da volere. Ognuno vuole il bene, tutti vogliono il bene, tutti devono volere il bene e dovere è il bene di tutti. Questo è il principio su cui sorge la psicoterapia intesa come la parola per tutti, la confessione laica per tutti, la parola buona per tutti, la parola come psicofarmaco per tutti. A ognuno il suo disturbo, a ognuno il suo male, a ognuno il suo rimedio, la sua soluzione umana. “Hai un problema? Risolvilo. Vedi di risolverlo. So io come risolverlo. Tutti noi possiamo risolverlo”.
Questo è il principio dell’idiozia totale. Tutti sono perfettamente idioti. Tutti per definizione idioti, cioè senza caratteristica senza particolarità. L’idiotès è questo: l’assenza di caratteristica, l’assenza di particolarità. La psicoterapia è idiota. Psicoterapia, ossia la parola per tutti, la parola da somministrare, ignorando però la sua logica, ignorando la sua struttura, ignorando la sua scienza. Solo così può essere pensata applicabile, applicabile a tutti e a ognuno, per risolvere, quindi sul principio del male da togliere, del male da debellare, dunque sul principio del male. Dunque una teoria dell’esorcismo laico, la psicoterapia. Esorcismo con cui ogni soggetto può essere trattato. “Ti tratto io”. “Tutti possono essere trattati. Questo metodo è per tutti”, “È un trattamento per tutti”. Tutti i soggetti possono essere trattati, trattati da soggetti. Tutti nella loro idiozia, nella loro assenza di caratteristica, tutti in quanto materia inerte, senza materia intellettuale, che rende vano il trattamento. La materia intellettuale non si lascia trattare, questo il punto! Come trattare la materia? Certo, il vasaio fa i vasi con la creta. Con la materia inerte il vasaio fa i vasi. L’artigiano fa altre cose, ogni artigiano tratta la materia inerte, ogni artigiano fa il suo trattamento alla materia inerte, ma la materia intellettuale non è inerte. È intrattabile. Il trattamento esige che ci sia chi sta sopra e chi sta sotto, chi sa e chi non sa, chi dà e chi riceve, il trattante e il trattato. La coppia, l’accoppiamento, la coppia servo – padrone, medico – paziente, sano – malato. Non c’è scambio in questa coppia, c’è trattamento. La questione invece è che la materia intellettuale è intrattabile perché procede dallo scambio, il dispositivo procede dallo scambio. Dunque si tratta del dispositivo dello scambio, non certo del trattamento. Nessun esorcismo, né religioso né laico, nessuna applicazione, ma il dispositivo della parola, gli effetti della parola, l’itinerario intellettuale, gli effetti del tempo, la combinazione di corpo e scena nella cifra. Un’altra cosa la soddisfazione che produce questa combinazione di corpo e scena nella cifra. In che modo allora avviene sulla scena civile l’educazione alla parola, alla sua particolarità, alla sua logica, alla sua intrattabilità, alla sua intellettualità, che è educazione al ciascuno, non l’educazione di ciascuno, ma al ciascuno? Ciascuno non è il rappresentante singolare della pluralità dei cloni, non è la variante dell’ognuno, non è l’equivalente generale detto in una lingua dotta.
Ciascuno non ha niente a che vedere con l’ognuno. Ciascuno è lo statuto intellettuale, è il dispositivo di cifra, è il dispositivo del valore, è lo statuto del valore. Ciascuno. Educazione al ciascuno, non già al tutto; al ciascuno. Per capire, per intendere, per ascoltare occorre che ciascuna cosa si qualifichi, si scriva, si cifri. Ciascuna cosa, non tutte le cose. Ciascuna cosa è senza affastellamento, senza somma, senza sommatoria. Nessun giudizio sommario, nessuna giustizia sommaria se l’oggetto distingue e il tempo divide. Ciascuna cosa procede dalla distinzione e dalla divisione. Anche dal funzionamento. Ciascuna cosa. Ciascuno. Quando ciascuno? Quando ciascuna cosa? Quando è istantanea. Non è l’insieme dei ricordi che emergono o dei ricordi che ritornano. Quando non è una somma di istanti, non indica la durata: “Quando andavo…”, “Quando facevo…”, “Quando dicevo…”. Quando indica l’istante in cui qualcosa accade. Quando dico questa formula non equivale a dire “tutte le volte che dico ciò”, ma indica l’istante in cui quella cosa si dice. Questa è l’istanza temporale. Quando. Non è l’età dell’oro di ogni ricordo. “Quando ero giovane”, “Quando ero bravo”, “Quando facevo”. Quando. Ora. L’attuale. E dunque nessun caso, nella parola, può trattarsi di tutti. Nella parola, ossia nello statuto intellettuale, nell’esperienza intellettuale, nell’esperienza cifrematica, nell’esperienza della psicanalisi, della nostra psicanalisi, dove appunto ha la sua sede ciascuno. E solamente se è per ciascuno, se è disposta al ciascuno la scuola può assolvere il suo mandato istruttivo e formativo. Questo per porre la questione.
Undicesima conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto