La scuola, l’intellettualità, il merito
L’insegnamento e la formazione sono due aspetti della memoria come struttura e come esperienza originaria che si scrive. Nulla di statico, se la memoria esige di scriversi e non di venire rimemorata. Le cose della memoria si scrivono in direzione del modo gerundivo cioè del programma, dell’agenda, di ciò che occorre fare. Dunque è la struttura che insegna e non qualcuno: insegnante è la struttura temporale. La parola, nella sua procedura dall’oralità alla scrittura, alla cifra è esposta agli effetti del tempo che sono effetti strutturali. Come accade che quel che si dice incorra nell’equivoco, nel malinteso o nella menzogna? Menzogna in quanto menzogna strutturale, non il mentire come facoltà, menzogna come proprietà del significante che differisce da sé. Questa è la menzogna nella sua precisa accezione, come differente da sé; il significante è menzognero in quanto differente da se stesso, e questa differenza, questa equivocità risultano per sostituzione, per via quindi di metafora e di metonimia. Ciascuna metafora, ciascuna metonimia è il modo della sostituzione per cui un significante, un nome sta accanto a un altro significante, a un altro nome, e un nome sta accanto a un altro significante. Questa struttura in cui il nome e il significante stanno accanto, esige già il malinteso, è il modo del malinteso.
Questo stare accanto è l’adiacenza che si situa nell’ intervallo tra la funzione di rimozione e la funzione di resistenza, nell’intervallo tra l’equivoco e la menzogna, dove appunto risiede il malinteso. Il malinteso è questa adiacenza data da un aspetto della funzione di Altro; quindi tre modi del funzionamento: la rimozione, la resistenza e la funzione di Altro. Per questa via, l’equivoco è il modo della contraddizione secondo il tre, dove cioè un nome sta accanto, funziona accanto a un significante, e un significante funziona accanto a un nome, e nome e significante funzionano accanto a Altro. Equivoco, menzogna, malinteso. Si tratta di qualcosa che risulta impensabile a chi tenta di riportare la parola a un sistema di segni, di significati, a un sistema binario, dove la prevedibilità, la calcolabilità possano consentire l’esercizio della padronanza sulla parola. Ma proprio questo modo del due e questo modo del tre impediscono l’esercizio della padronanza, comportano l’impossibilità di prevedere quel che si dice e quel che si dirà; esigono invece l’ascolto, la necessità di capire, di intendere ciascuna volta senza il riferimento a ciò che si è detto, a ciò che si è capito, a ciò che si è inteso, quindi senza il riferimento al passato o a un presunto fondamento del dire, dello scrivere, dell’oralità, della parola stessa. Parola senza fondamento, senza riferimento al passato, senza riferimento al precedente e senza riferimento al susseguente, parola senza cronologia, senza successione.
L’idea della successione è l’idea stessa della genealogia, è l’idea stessa della morte, è quell’idea per cui ciascuno, o meglio ognuno, che si rappresenti soggetto, rappresenta la malattia come segno della sua appartenenza; e questo è il modo sancito, prescritto, codificato dalla medicologia sotto il nome di ereditarietà. Ognuno, anziché ereditiere della parola e della sua logica, come ereditiere dell’originario, si rappresenta invece come chi ha ereditato per esempio una tara, un male, un segno, ha ereditato il suo segno dell’origine. Questa fantasia di ereditarietà è chiaramente una superstizione e è ciò che impedisce a chi incappi in un contropiede, in un contrappasso, in un inghippo della rappresentazione, di stabilire il dispositivo della cura. Chi crede nell’ereditarietà certamente crede che questa certa malattia è inevitabile e dunque è incurabile; per questa via si affida allo stregone di turno, al medico non in quanto un elemento nel dispositivo della cura, ma al medico come soggetto che sa quale sia il destino, e questa è la prognosi; al medico che dunque sappia la diagnosi, di conseguenza faccia la prognosi e di conseguenza sappia indicare che cosa resta, nella specie di cosa resta da vivere. Ma la cura non è ciò che resta da vivere. La cura sta nel dispositivo che si tratta di instaurare innanzi tutto per capire, per intendere e fare quel che occorre fare in direzione della salute. Occorre innanzi tutto capire di cosa si tratta in quel che viene definito malattia.
La malattia, in quanto forma del male, economia del male che diviene economia della morte, è per ogni soggetto ciò che consente la chiusura del cerchio dall’origine alla fine. E questa malattia che deve rappresentare la morte, che deve significare la morte, la mortalità del soggetto è la malattia mentale. In questo senso ogni malattia in quanto malattia mentale è incurabile e ha come sua guarigione la morte. Questa è la guarigione per la medicologia; già nella sua prescrizione costitutiva chiama guarigione la restitutio in pristinum, il ritorno allo stato di partenza, il ritorno all’origine. Ma il ritorno all’origine si compie con la chiusura del cerchio; quindi, l’unico vero ritorno all’origine è la morte che significa il ripristino, il ritorno, il compimento della circolarità. Non è questa la restituzione di cui si tratta per l’ereditiere, per chi non appartenga alla schiera dei mortali, ma si trova invece nel viaggio in direzione della qualità la cui istanza è la salute; la salute importa, non già la guarigione. La salute come istanza di qualità, la salute che esige, per la sua conquista, l’instaurazione di dispositivi intellettuali. Chi credesse nell’ereditarietà, come può instaurare con il medico, con se stesso, con chi occorre che intervenga nel caso in questione, un dispositivo in direzione della salute? Si troverebbe a dover accettare il fatalismo, le superstizioni, la prescrizione alla morte propria di ciascuna logìa. In fin dei conti il motto più comune reperibile tra i medicologi è che di qualcosa bisogna pur morire, quindi si tratta solo eventualmente di durare il più a lungo possibile e la vita viene misurata secondo la durata ossia secondo l’idea di fine.
La durata della vita è l’idea della fine della vita che viene applicata alla vita così come a ciascuna cosa quando intervenga la preoccupazione della durata. Quanto dura la cura? Quanto dura il lavoro? E lo studio, quanto durerà? È l’idea stessa di morte. Come opera il fantasma di morte caso per caso? È questo che non è vietato indagare, è questo che comporta, in molti casi, inciampi, inghippi, contropiedi, contrappassi, più comunemente riassunti dal termine malattia, malanno, disturbo. Malattia di cui il discorso medico tenta di fare l’elenco rispetto a cui poter vantare una casistica, ma a che pro? Per poter stabilire la diagnosi, la prognosi e la terapia su base statistica, sulla base di una letteratura nel merito, sulla base quindi di una presunta appartenenza di ogni malato alla malattia. Quindi non si tratta più di capire, intendere, indagare sul caso in questione, ma sulla malattia rappresentata statisticamente. Ognuno che si ammala è un caso di malattia, di quella malattia. Si tratta di applicare i criteri della malattia, le conoscenze sulla malattia, la statistica sulla malattia, ma in che modo il caso in questione si combina con la malattia? Quali sono le specificità, quali sono le caratteristiche, qual è la combinatoria, quali sono le combinazioni? In che modo dunque entrano nella questione il modo del due e il modo del tre a indicare la particolarità e la specificità di quel caso? Lì dove il principio è il principio di malattia e non il principio della parola, la particolarità e la specificità sono completamente trascurate. Questa è la medicologia, ossia il discorso sul male dell’Altro, dunque la malattia dell’Altro come malattia mentale. Questo è il sistema, è il modo cosiddetto scientifico nel sistema chiuso, nel luogo dove tutti e tutte le cose stanno insieme, dove importa l’idea di inizio, l’idea di fine, l’idea di origine e l’idea di morte e dove queste idee di origine e di fine possono seguire un’algebra e una geometria, dentro un sistema binario. Questo sistema binario che governa la maggioranza del pianeta nei secoli, ogni tanto è incrinato dall’irruzione del tempo, e questa è la crisi, ossia il tempo irrompe nel sistema: allora il sistema non c’è più, è incrinato dalla crisi. Uno squarcio, nulla da temere, ci sono delle chances. Certo non per chi rimpiange il sistema, non per chi ritiene di doversi riparare nel sistema, non per chi fa del sistema il suo apparato morfologico-dinamico di riferimento e che dunque si inscrive in una genealogia e nella superstizione e che a questa genealogia fa seguire il destino assegnato. Nulla di negativo dunque nella crisi, e tanto più è estesa, tanto più dilagante, tanto più debordante nei diversi settori, tanto più indica che ci sono delle chances di novità, di invenzione, di variazione. Si tratta di cogliere queste opportunità, di non stare lì a contemplare, a rimpiangere il sistema che non c’è più, ma di orientarsi nella direzione che la crisi indica, occorre leggere la crisi. Per chi legge nelle cose e quindi in ciò che accade, la crisi non è del tutto una sorpresa: gli indizi della crisi qua e là c’erano.
Per chi non ha bisogno di ripararsi dal tempo, la crisi è persistente. L’antidoto all’irruzione della crisi è l’abitudine. Chi si trincera nelle abitudini chiaramente è sorpreso dalla crisi e è assolutamente contrario a ogni crisi perché mina l’abitudine. L’abitudine è l’abito del sistema, è − per così dire − la camicia di Nesso applicata al sistema, quella camicia che vorrebbe imbrigliare il tempo. La camicia di forza, la camicia sulla forza. Allora dicevamo che la crisi possiamo chiamarla anche una virtù della gioventù, un’istanza della gioventù. Ovviamente si parla di crisi dell’adolescenza, adolescenza come momento di crisi, proprio perché l’adolescenza comporta l’istanza della crescita, l’autorità e la crescita, l’aumento imprevedibile, irrefrenabile; niente di male dunque nella crisi, che comporta per ciascuno l’adolescenza, dunque la costanza dell’aumento, della crescita, della sostituzione per via di equivoco. Comporta dunque la trasformazione del mercato, questa crisi, su questo versante, e se calano i fatturati non è per via della crisi, ma del sistema, dell’idea di sistema, applicato a ciò che si fa. La crisi è favorevole ai fatturati, con la crisi i fatturati aumentano, certo se non si instaura l’abitudine, il meccanicismo, il fatalismo dell’atto, il meccanicismo dell’atto, l’idea di poter fare oggi e rifare domani, l’idea quindi di un ritorno, di una ripetizione delle cose, ripetizione come ritorno, perché la ripetizione originaria è senza ritorno, e è ciò per cui il significante rilascia una lettera che nella sua insistenza non è mai la stessa lettera, è sempre una lettera differente. Dunque dicevamo la restituzione da parte dell’ereditiere. E che cosa può venire restituito? Per ciascuno si tratta di restituire gli elementi intellettuali in termini di qualità, perché questa restituzione comporta la qualificazione stessa del proprio viaggio, della vita. Allora, la restituzione esige intanto l’intellettualità, la dissipazione di ogni idea di sostanza, di fondamento, di appartenenza, la dissipazione della superstizione, della soggettività. Esige la generosità, l’indulgenza, l’immunità. Esige le virtù del tempo e le virtù della parola, in particolare ciò che sta nel principio della parola come principio originario; la libertà, la leggerezza, l’aria, l’anoressia come anoressia intellettuale, la tentazione intellettuale con l’anoressia, che mai può divenire così anoressia mentale, che è sempre il modo di inscrivere il segno della propria genealogia per esempio in ciò che viene ritenuto il pasto di amore o il pasto di odio, cioè in una rappresentazione dell’amore e dell’odio come cannibalismo.
La generosità è una virtù dell’Altro per cui non c’è cosa che sia gravata dal peso, che sia significata da un segno positivo o negativo che sia anteposto o posposto. Nulla e nessuno sono significati, nulla e nessuno sono rappresentati. Nulla e nessuno “è”. Nulla e nessuno può venire classificato, catalogato o venire inscritto in qualche catalogo per la rappresentazione che sta facendo, dicendo, per la soggettività che sta magari transitoriamente proponendo. Questa la generosità, essenziale all’accoglimento della domanda. Generosità senza diagnosi, senza psicopatologia di riferimento. Generosità che comporta quindi che ciascuna cosa venga indagata per il contesto, per il suo testo, testo di cui occorre fare la restituzione in termini di qualità. Questo è il modo della clinica, il modo della cifrematica, che esige la generosità originaria, e dunque per questa via non c’è più idea di durata, non c’è più idea di fine, non c’è più idea di genealogia, non c’è più nemmeno malattia come modo di incasellamento, come modo di inscrizione in un elenco dei mali dell’Altro. Questo non vuol dire che non possano accadere contrappassi, contropiedi, ma non come mali dell’Altro e quindi in ciascun caso si tratta di capire, intendere, attuare un dispositivo di cura, attuare un dispositivo con chi è incorso in queste rappresentazioni del male. La cura non è standard, non può essere standard, la clinica non è standard, la vita non è standard. La nozione di ascolto che implica questa dissipazione del riferimento allo standard è chiaro che è inaccettabile per gli apparati medicologici e disciplinari in genere, psicologici, sociologici, filosofici, dove viga l’idea di un sapere da trasmettere, un sapere sull’Altro, un sapere sul suo bene e sul suo male. Posta la questione dell’intellettualità, che va dall’analisi come preambolo per cui si dissipa il riferimento alla sostanza, all’idea di soggettività, all’idea di mortalità, fino alla qualificazione di ciascuna cosa, fino all’instaurazione di dispositivi di valorizzazione delle cose che intervengono lungo l’itinerario, accanto, senza esclusione, senza contrapposizione, senza alternativa, ma accanto, allora qual è il merito, per la scuola? Di che si tratta quanto al merito, qual è il merito di ciascuno?
Dicono che la nuova riforma abbia reintrodotto il merito nelle scuole. Di quale merito si tratterebbe? Chi ha merito? Chi ha i meriti? È la scuola secondo il merito o il merito secondo la scuola? Che cosa si merita ognuno? Dice qualcuno che alla fine ognuno riceverà secondo i meriti. E che cosa riceverà? Il premio o la punizione. Si sarà meritato il premio o la punizione. La meritocrazia. Anticamente cos’era il merito? Era la ricompensa del soldato, la ricompensa per aver servito l’esercito, il guadagno, il salario. Meritare: fare per soldi; il meretricio: la meretrice fa per soldi, per guadagnare, senza dunque la soddisfazione. Questa è la condizione del merito: avere la ricompensa che possa valere la soddisfazione. I soldi come ricompensa, la ricompensa come soddisfazione, dunque senza soddisfazione. L’accordo sul merito è l’accordo sull’espunzione della soddisfazione. Questo è il meretricio nella sua convenzione. Dunque servire, servire Dio, servire il popolo, servire la patria, servire l’esercito, servire a fine di ricompensa, a fine di bene, a fine di male. Benemerito, malemerito, ma dunque questo merito parte dall’idea di fine; il merito avrà la sua ricompensa a cose fatte, a cose finite. Così come il professore emerito, colui che ha servito, colui che ha insegnato, colui che non lo fa più, che ha finito di insegnare, quindi emerito. Questo è il merito secondo l’idea distributiva, secondo la nozione di circolazione. Il merito senza indulgenza, senza generosità, senza il tempo. Perché può darsi anche un’altra accezione di merito, quel merito che non preveda né la ricompensa né la pena. Quel merito che trova il suo statuto non nella ricompensa, non nel premio o nella pena, ma nella perennità, nella persistenza, il merito quindi come persistenza in direzione della soddisfazione. Indulgenza. Di cosa si tratta nell’indulgenza? Che non c’è più pena, non c’è più il sistema del premio o della pena, il sistema dell’alternativa applicata alle cose secondo il criterio del bene o del male. L’indulgenza esige la logica della nominazione: nulla è ontologico, nulla è già dato, nulla è già assegnato ma ciascuna cosa entra nel merito linguistico, il merito che comporta come le cose si dicono, come si scrivono, dove si scrivono, come si combinano, qual è la combinazione, qual è la combinatoria. Il merito a cui risultano essenziali l’arbitrarietà e il disagio, non il premio o la pena secondo la convenzione, secondo l’abitudine, secondo il sistema ma il merito secondo l’arbitrarietà e il disagio. Allora, per via di questo merito, può instaurarsi il dispositivo clinico, il dispositivo pragmatico, il dispositivo cifratico.
Quarta conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto