La scuola e l’itinerario intellettuale
Questa sera incominciamo la serie che si intitola La scuola del disagio e dell’ascolto. La nostra esperienza cifrematica è anche esperienza di scuola: scuola della parola, scuola di clinica, scuola di edizione, scuola di scrittura, scuola di qualità. È scuola in cui si tratta dell’insegnamento e della formazione quali aspetti della memoria. Quando, nell’interlocuzione tra la dottoressa Saia e Cecilia Maurantonio, è sorta l’ipotesi di affrontare la questione della scuola, abbiamo ritenuto che fosse argomento degno di venire discusso: non della scuola in generale, di cui si sta dibattendo nelle piazze, sui giornali e non solo, in questo periodo, non di “quella” scuola. Non entreremo nel merito della riforma, delle questioni che vengono sollevate al proposito. Poniamo qui la questione della scuola del disagio e dell’ascolto. Non del disagio a scuola, ma della scuola del disagio, cioè della scuola che procede dal disagio, quindi in un’accezione del disagio ben precisa e che forse esige qualche precisazione, che questa sera vedremo di proporre. La nostra esperienza, l’esperienza cifrematica, sorta trentacinque anni fa, è constatabile anche come esperienza di scuola. È scuola per i dispositivi che nel corso di questi anni sono stati inventati, sono sorti, sono in atto e per gli effetti di scuola che questi dispositivi producono e hanno prodotto. Non è sorta come una scuola, cioè la nostra esperienza non si è posta come uno spazio per insegnare qualcosa. Oggi ognuno può improvvisarsi come insegnante di qualcosa, come docente di una scuola, sulla scia della new age, in cui si tratta di raccogliere le schegge del luogo comune per metterle assieme in una shakerata un po’ differente e proporre luoghi comuni come novità o come panacea ai vari mali.
La nostra esperienza, invece, ha effetti di scuola, consegue risultati di scuola, nel senso della formazione intellettuale, nella educazione alla qualità quanto alla produzione di scrittura, di progetti, programmi, quanto all’invenzione di dispositivi, a come verificare lo statuto intellettuale, perché non si tratta solo di dire che lo statuto intellettuale può esserci, si tratta anche di dare prova che ci sia. Quindi è scuola, per di più senza l’idea di fine e senza finalità di bene. Vedremo di chiarire cosa intendo. Intanto, è constatabile che nel contesto di questa esperienza sono sorte varie associazioni culturali, case editrici, società: la Fondazione di cultura internazionale Armando Verdiglione, l’Università internazionale del Secondo Rinascimento, il Progetto artistico e culturale del Secondo Rinascimento, il Movimento cifrematico internazionale, il Museo della villa San Carlo Borromeo, la stessa Villa San Carlo Borromeo come centro internazionale di scambi artistici e culturali e quindi come museo vivente. È innegabile che tutto ciò è sorto, è in atto e prosegue come attività in corso: la produzione di libri, di testi, di convegni, congressi, festival lo testimoniano; l’attività in varie città, in varie sedi, in Italia e all’estero. Tutto ciò è in atto e questa è anche la scuola. Quindi scuola in un’accezione ampia, non come scuola di questa o quella disciplina, di questo o quell’insegnamento, ma propriamente come scuola di vita.
La questione della parola, della cifrematica, della formazione intellettuale pone la questione della vita: come vivere, come fare, come scrivere, come pensare, ma senza punto di domanda, senza chi, dinanzi alla questione come vivere, come fare, come scrivere possa porre la risposta, proponendo il modo prescrittivo, ma lasciando che ciascuno trovi il modo, trovi il modo della qualità.
In questo senso questa scuola è unica, ma non è che deve restare unica o deve restare questo l’unico ambito in cui possa svolgersi questo modo, per cui ciascuno, ciascuna cosa possa rivolgersi alla qualità. Questa scuola, oggi, può dare un contributo, delle indicazioni anche a quella che viene chiamata l’istituzione scuola, la scuola “per tutti”, dove già la formula “scuola per tutti”, risulta un inghippo, risulta demagogica e esige una riflessione, perché, se è pur vero che occorre che la scuola accolga ciascuno, è anche vero che deve consentire a ciascuno di trovare il modo della qualità, il modo di dare compimento alla domanda che tramite la scuola può sorgere.
Già così si pone, in adiacenza alla scuola, la questione della domanda che occorre non trascurare anche lì dove si tratti della cosiddetta scuola dell’obbligo. Questo chiama in causa non tanto la scuola in quanto tale, come ente, ma ciascuno che si trovi nella scuola per un servizio, che occorre sia un servizio intellettuale, servizio per l’insegnamento, servizio per la formazione, servizio per l’istruzione, servizio per l’educazione. Servizio in quanto servizio intellettuale.
Ciò che è constatabile, in questi trentacinque anni è che, sorta da qualche parte, è nata nel pianeta una scuola che è la scuola della parola e che è scuola di vita. La sfida e la scommessa sono che il modo della parola, la scommessa intorno alla parola possano essere assunti anche da altri, anche da chi, in particolare, ha a che fare con questo significante “scuola” perché non resti solamente una parola vuota.
Spesso, accanto al termine scuola, per indicare una scuola per tutti, figura il termine istituzione: la scuola come istituzione, l’istituzione scuola, e questo sembra già definire la scuola. La scuola è un’istituzione: ma che cosa indica il termine istituzione? Come intendere l’istituzione? Leggiamo, per esempio, il Grande dizionario dell’uso della lingua italiana di Tullio De Mauro, uno dei dizionari più recenti, dizionario dell’uso! Non il vocabolario di una lingua morta, ma un dizionario dell’uso! Questo lo rende, almeno nella sua definizione, interessante. Alla voce “istituzione”, tra le altre cose, dice: modo stabile di organizzazione della vita individuale e sociale, regolato da norme sociali, religiose, giuridiche e profondamente radicato nella coscienza della vita collettiva, che produce comportamenti uniformi.
Quindi l’istituzione sarebbe qualcosa di stabile, profondamente radicato nella coscienza collettiva, che produce comportamenti uniformi. Se l’istituzione è questa, è qualcosa di divino, di immutabile, di statico, la cui mansione, il cui atto è quello di autocontenersi, immobile, immutabile. È l’essenza stessa della burocrazia, del potere invisibile, è qualcosa di assolutamente fantasmatico: nulla di attuale, nulla di pragmatico. Questa è la definizione dell’istituzione dove non deve accadere niente perché qualora accadesse qualcosa non potrebbe più soddisfare la sua definizione, cioè il modo e lo stato dell’organizzazione individuale e collettiva, regolato da norme sociali… che produce comportamenti uniformi.
Freud aveva affrontato, all’inizio del secolo scorso, la questione dei mestieri impossibili e aveva posto gli esempi dell’educare, insegnare e governare. Impossibili in quanto governare, insegnare e educare facevano riferimento a masse organizzate in maniera rigida (la chiesa, l’esercito, lo Stato) che rendevano impossibile l’esercizio, nel senso dell’attuazione di qualcosa che fosse in movimento, che fosse in atto e che non seguisse una prescrizione ontologica.
Ora, se questo fosse il criterio di impostazione della scuola, ci sarebbe già molto da discutere, nel senso che nulla potrebbe avvenire nella scuola in termini di insegnamento e di formazione, perché incontrerebbe già una contraddizione nella stessa definizione di partenza; che poi la scuola debba produrre comportamenti uniformi è discutibile. Allora, in che termini oggi si pone la questione dell’istituzione, di qualcosa che possa chiamarsi istituzione? Nella nostra esperienza abbiamo qualificato l’istituzione come ciò che si pone nel registro pragmatico. L’istituzione che abbiamo incontrato nella nostra esperienza di organizzazione, di attuazione di dispositivi, di programmi non ideali, ma pragmatici, è qualcosa che si struttura alterandosi: non nella sua immutabilità, non nella sua stabilità, ma nella sua alterazione. L’istituzione non già come modo stabile dell’organizzazione ma, eventualmente, come modo variabile e differente dell’organizzazione, come modo variabile e differente del fare. Questa è l’accezione di istituzione che noi abbiamo preferito, elaborato, inventato nella nostra esperienza. Nulla che assicuri l’inerzia, nulla che assicuri uno statuto ontologico di qualcuno, anzi: qualcosa che esige, per ciascuno, che dica, indichi, si situi nell’istituzione, che esiga quindi un’istanza di continuo aggiornamento, continua formazione, continua acquisizione rispetto a ciò che si fa. Un’istanza incessante di acquisizione che mai può ritenersi soddisfatta. Questa è istituzione, ma questa dunque è anche la scuola in quanto istituzione, la scuola come istanza di insegnamento e formazione in costante divenire.
Questo è il registro linguistico in cui noi ci troviamo a riflettere e a qualificare qualcosa in cui ci imbattiamo, per esempio l’istituzione. Ma che dire dunque della definizione di istituzione del dizionario dell’uso, in cui è evidente uno slittamento dal registro linguistico a quello ideologico, a questa prescrizione ideologica di produrre comportamenti uniformi, di dovere, in quanto istituzione, garantire una stabilità delle cose, un immobilismo che è incompatibile con la questione intellettuale? Ciò che si pone come immobile può produrre al massimo una mentalità, una appartenenza ideologica, morale, fantasmatica. Nulla di intellettuale può risultare fisso. Intellettuale è come dire temporale, sessuale. La questione intellettuale è la questione temporale; come presumere che possa diventare stabile, fissa, ontologica? Sarebbe la negazione stessa del tempo, della temporalità, dell’intellettualità. Intellettualità è un termine molto bello, interessante se non viene letto in termini ideologici, se non viene letto come qualcosa che individui una élite, un settore, un recinto, quello degli intellettuali. L’intellettualità indica qualcosa che è per ciascuno, a condizione di non togliere il tempo dalle cose, che vuol dire non dare per scontato nulla, ma far sì che ciascuna cosa risulti in un processo di qualificazione costante. Questo è il dispositivo intellettuale, dove nulla è già dato, nulla è scontato, nulla è privo di valore, nulla ha, peraltro, un valore assegnato, stabile. Allora, se questo vale per ciascuno, per ciascuna cosa, se questo vale per il dispositivo intellettuale, vale anche per la scuola che, dunque, non può risultare quel mero spazio dove si tratta di somministrare un sapere, che, in quanto somministrabile, sarebbe stabile e immutabile. Allora, l’esigenza effettiva della scuola, della questione scuola, di chi si pone l’istanza della scuola è quali siano i dispositivi della scuola, qual è il modo della scuola. La questione del “cosa” − cosa insegnare, le materie, le discipline − è meramente pretestuale al modo, al fare in modo che risultino esche, perché si instaurino dispositivi in cui si ponga effettivamente per ciascuno la domanda e il suo svolgimento in direzione del valore, della qualità. Questo è il corso della scuola. E il corso di studi ha da essere un corso di ricerca, un corso di lettura, un corso di rivolgimento delle cose in direzione del valore. Non per studiare le cose, non per vedere le cose, non per sapere le cose, ma per capire. La scuola per capire, non la scuola per sapere. Sapere, che importa? Dinanzi a una novità, dinanzi a un imprevisto, dinanzi a un interrogativo, dinanzi a ciò che occorre fare, il sapere non aiuta un granché. Essenziale è capire come, non sapere. Ciascun caso è differente da un altro, esige ingegno, cioè l’altro modo; non il modo abituale, ma l’altro modo, che si attagli al caso specifico, al caso in questione. Dunque occorre capire, l’educazione a capire, la formazione per capire, non già per sapere. Occorre anche qualificare questo termine scuola, capire di che cosa si tratta, cosa indichi il termine scuola. Gli antichi chiamavano scholé l’ozio, il tempo libero, l’agio di capire, di acquisire cose nuove. Scholé: l’agio con cui ciascuno poteva alimentarsi di cibo intellettuale. L’agio: non già la comodità, ma l’adiacenza; accanto a altre cose, questa, quella e altre ancora. L’agio di accogliere ciascuna cosa: skholé. Un tempo, questa skholé, il tempo dell’ozio; non uno spazio, ma un tempo, il tempo della skholé. Com’è che da “tempo”, questa scuola, nell’accezione comune, è diventata solamente uno spazio? Uno spazio, per di più, che sembrerebbe debba essere senza tempo, oppure dove il tempo è il tempo misurato dalle ore di servizio, dalle ore di lavoro, dalle ore di lezione, il tempo cronologico. Il tempo non è cronologico, il tempo è senza misurabilità, è quel taglio che interviene a sancire la differenza di qualcosa rispetto a un’altra cosa. Questo è il tempo. È ciò per cui avviene l’intendimento, ciò per cui qualcosa si qualifica. Nulla quindi che indichi la cronologia, la successione, la misurazione, la fine del tempo. La mentalità della fine del tempo è rovinosa. Ognuno, pensando alla fine del tempo, si toglie l’intellettualità, acquisisce una mentalità, acquisisce una credenza, si costituisce come soggetto, si inscrive in un comportamento. Si tratta di capire, oggi, qual è lo statuto della scuola. Molti si pongono la questione di quale sia il fine della scuola, a quale fine dovrà rispondere. La scuola deve essere finalizzata all’apprendimento o all’istruzione o all’educazione o alla formazione o alla visione del mondo conforme e condivisibile, all’accettazione di un’impostazione generalmente condivisa, o deve preparare all’ingresso nel mondo del lavoro? Già dire “mondo del lavoro” offre una visione, uno standard, un pregiudizio! Qual è il fine della scuola? Deve avere un fine la scuola? C’è da scegliere quale sia il fine della scuola? E qual è il modo della scuola? Chi si interroga intorno al modo della scuola? Il termine modo dissipa l’ontologia. Il modo, la moda, introducono il tempo nell’atto; il modo è il modo del tempo, il modo che già volge verso la questione intellettuale, verso la variazione, verso la differenza. Dove si instaura la questione del modo, è chiaro che non si tratta più di trasmettere qualcosa in quanto tale, ma si tratta di fare. La scuola come tempo del fare. Dove può darsi per acquisita questa accezione di scuola, dove si tratta non tanto di stare a sentire, a vedere, a imparare per sapere, ma si tratta di fare, del modo del fare?
È fuori di dubbio che una certa ontologia imperante rivendica anche l’ontologia dell’insegnamento, l’ontologia dell’educazione, l’ontologia della formazione. Perché ognuno deve diventare “qualcuno”. Cosa vuoi diventare da grande? Cosa vuoi essere da grande? Questa è la formula corrente, e uno capisce che deve diventare, che deve essere, che deve inscriversi, sottoporsi a un’ontologia per essere, per diventare qualcuno; che deve inscriversi in un apparato stabile, uniformemente. Questo è il messaggio che nessuno impartisce apertis verbis ma che, tuttavia, le formulazioni in uso rilasciano. Questa ontologia, poi, dove sfocia? Nel purismo e nel naturalismo, nell’evoluzionismo, nell’idea di evoluzione e di progresso: progresso della specie, evoluzione della durata. È chiaro che questo purismo si esercita sempre in nome del bene e, soprattutto in questo settore, in nome del bene dei giovani. I giovani diventano il nome e questo soggetto ideale collettivo realizza la prescrizione all’ontologia. Noi non entreremo qui nel merito di questa o altre riforme della scuola, perché è perfettamente inutile. Ogni riforma non entra nel merito della questione radicale, ossia se la scuola sia scuola della parola oppure no, se sia la scuola dove si esercita il primato del discorso di padronanza, il primato dell’ontologia, il primato del soggetto sul tempo e sulle cose. Ogni riforma non potrà incidere se non sugli aspetti marginali, amministrativi, organizzativi, forse ideologici, certo, ma non strutturali, non in merito alla questione autentica della scuola, cioè della scuola come tempo della scholé, quindi come scuola di vita, non per apprendere un metodo o un sapere. Il metodo non si apprende, si incontra, si attua lungo il cammino. Senza cammino, quale metodo? Metodo è un termine bellissimo che indica, appunto, l’esigenza di andare. Senza andare, senza fare, non c’è metodo, ma metodologie, discipline applicate; nessuna istanza intellettuale, ma solamente l’applicazione di un sapere e questo non è il metodo.
Abbiamo intitolato, ancora nel 1981, un numero della rivista “Vel” Il metodo della psicanalisi, non già per dare delle istruzioni sull’applicazione della psicanalisi come strumento per Tizio, Caio e Sempronio, ma a indicare l’esigenza di un cammino, di un percorso, di un itinerario, di una ricerca per ciascuno, onde imbattersi nel metodo del proprio itinerario, nel metodo che s’instaura secondo la logica della parola. Questo è il metodo per ciascuno, un metodo che non si può imparare per poi applicarlo, ma che si attua cammin facendo. Camminando: il gerundio, non l’infinito potenziale! Per ciascuno, importa il gerundio.
A proposito del titolo della serie di incontri di questo laboratorio, inteso come laboratorio intellettuale, La scuola del disagio e dell’ascolto, non si pone un’alternativa tra il disagio e l’ascolto. Non c’è da scegliere, non c’è nulla da escludere, non c’è la scuola dell’ascolto senza il disagio. È un titolo che viene da una constatazione: la scuola procede dal disagio e va in direzione dell’ascolto, lo esige, perché ciò che i dispositivi della scuola propongono possano concludersi in direzione del valore, della qualità, della cifra. Come, dunque, intendere questo disagio? Quale accezione ha questo termine disagio? È un termine che viene molto usato, ultimamente. Chi non può vantare qualcuno nei paraggi che è, “purtroppo”, nel disagio? “Eh, sì, sta attraversando un periodo di disagio. Tizio ha un periodo di disagio, Caio è appena uscito dal disagio, Sempronio non vede l’ora di uscirne”. Insomma, disagio è un termine che sta vivendo la sua stagione di successo in un’accezione meramente psichiatrica, in un’accezione macabra che, attraverso un rivestimento buonista, vorrebbe indicare, più che alludere, una malattia mentale. Il disagio, oggi, è l’altro nome, nel gergo comune, della malattia mentale, però addolcita, resa cosmeticamente accettabile. Perché dire a uno che è pazzo è una brutta cosa, perbacco! Il mondo dei manicomi, il mondo della malattia mentale ha qualcosa di squallido; il mondo del disagio è una cosa umana, è una cosa che quasi merita il “premio bontà notte di Natale” a occuparsene. Ma del buonismo bisogna diffidare sempre! Diffidare, perché il disagio proposto in questa accezione esige il suo rappresentante, che è il disagiato, il debole, il debole mentale, il pazzo che non è pazzo ma è il disagiato che bisogna curare, preservare. E come? Prescrivendogli la morte bianca, che va dall’etichettatura psicopatologica, alla condanna alla somministrazione di psicofarmaci a vita. Questa bella denominazione, molto umana, mostra, in questa accezione, tutto il suo squallore. Se noi, invece, esploriamo il disagio in termini di secondo rinascimento, di industria della parola, nei termini di statuto originario, troviamo che questo termine indica una virtù del principio della parola, indica, cioè, qualcosa che nulla ha a che vedere con il marchio dell’infamia che è la malattia mentale, ma è qualcosa di essenziale, è qualcosa che indica da dove viene la pulsione, da dove viene la domanda, da dove viene la curiosità. Viene dal disagio originario. Dis-ágio, dis-agěre, dys–àghein: qualcosa va in due direzioni, qualcosa spinge in due direzioni. Quindi intanto c’è la spinta e c’è il due. Impossibile scegliere quale delle due direzioni! Impossibile tagliare questa diade, questo due, se non facendo immediatamente cessare la spinta. Questa spinta esige che qualcosa si qualifichi, che il qualcosa attorno a cui sorge la domanda entri nel processo di qualificazione. Disagio: virtù del principio della parola. Nessuna cosa, nessun elemento ha già un valore prestabilito. Nessuna cosa si contrappone a un’altra cosa; il due è originario, ciascuna cosa procede dal due. Disagio: modo dell’apertura, modo della contraddizione originaria che è impossibile risolvere con la dicotomia.
Essenziale il disagio, ma che non si contrappone a nulla perché non ha la sua altra faccia nell’agio, agio e disagio non sono una coppia oppositiva. Disagio viene dal dys–àghein, dall’andare in due direzioni. Agio è invece un termine che indica l’adiacenza di ciascuna cosa, dove ciascuna cosa sta accanto a un’altra cosa senza contrastarla, senza contrapporsi, senza negarla, come virtù della scholé. Disagio, nessuna parola è positiva o negativa ante litteram, nessuna cosa; nessuna parola ha un segno algebrico posto dinanzi. Nulla significa. Non c’è cosa che sia significata da un’altra cosa o che significhi a sua volta qualcosa con un segno positivo o negativo davanti. Per via del disagio ciascuna cosa esige di qualificarsi e quindi si rivolge alla qualificazione, si rivolge alla sua cifra. Questo rivolgimento è la pulsione, è la domanda stessa. Ciascuna cosa tende a qualificarsi: questa tensione è la domanda. Dunque, la questione intellettuale non esige certo la calma, che è la virtù dei morti, ma esige la tensione verso il valore. Pulsione, tensione, domanda, senza bisogno di nessun tranquillante. Ben altra cosa dall’impostazione psichiatrica che prescrive la calma, senza capire nulla, senza proporre nessun processo di qualificazione, nessun dispositivo di formazione e di insegnamento, solamente calmarsi! La scuola in cui dovesse uscire questo messaggio sarebbe la negazione dell’istanza della scuola, la negazione dell’intellettualità; tuttavia, come funziona la faccenda nelle varie scuole? Lasciamo che ognuno si informi!
La questione del disagio indica la scuola originaria, la scuola che si instaura quando le cose procedono dal due e si rivolgono alla cifra. Procedendo le cose dal due, quale classificazione è possibile? Quale catalogazione, quale trasmissione di un sapere sulle cose se, anziché un’ordinalità delle cose dovuta a una localizzazione dell’origine, abbiamo che ciascuna cosa procede dal due?
Procedendo dal due ciascuna cosa si trova in uno statuto di ambiguità, nello statuto dell’ironia, nello statuto della domanda. Quale statistica, procedendo le cose dal due? Impossibile una statistica, impossibile una previsione. Essenziale è il ragionamento, il calcolo del caso specifico, non la statistica sui casi ipotetici generali.
Chi, dunque, può accogliere la proposta della scuola originaria, se mina alla base alcuni capisaldi del discorso di padronanza? La statistica è il discorso di padronanza, poter dire: “C’è, nel suo caso, un trenta, un quaranta, un cinquanta, un sessanta, un ottanta per cento di probabilità positive”. Probabilità! Che cosa sono le probabilità? Vuol dire che c’è un ottanta, novanta, cento per cento di constatazione che non ne so dire nulla, che non so valutare nulla, che non capisco nulla e mi affido alla statistica; come dire agli aruspici, ai lettori del volo degli uccelli, delle viscere degli animali, dei fondi di caffè! La statistica ha valore scientifico zero, perché il caso in questione è abolito. “Il caso statistico dice…”, “Nel mio caso la letteratura dice che…”. La letteratura! Quale letteratura? Chi si arrischia a valutare, cioè a considerare il caso come caso che va in direzione del valore e non in direzione della fine e della morte, quindi in cui si tratta di approntare un dispositivo per la vita? Chi assicura questa formazione? Quale istituzione, quale scuola, quale corso di studi, che non si affidi dunque alla media, allo standard, quindi alla mediocrità?
Leonardo diceva, in una sua notazione nel Codice atlantico: “Non insegnare e sarai eccellente”. Come dire: in nessun caso tu puoi insegnare. L’insegnamento è l’effetto di un dispositivo in cui maestro e allievo sono statuti della ricerca, ma non c’è chi possa insegnare il suo sapere se non facendo un torto all’insegnamento stesso.
Non insegnare e sarai eccellente. Questo messaggio di Leonardo oggi non è che sia molto seguito. È la scuola come scuola d’artista, come bottega dove, appunto, si tratta già di fare, non d’imparare a fare. Non si tratta d’imparare per poi fare, si tratta di fare e, facendo, s’impara e, imparando, si sbaglia per poter fare un’altra cosa. Chi sarà mai pronto a fare se è convinto che prima deve sapere come fare? “Devo prima sapere come fare, e poi, piano piano, magari un giorno farò qualcosa”. Un giorno! Ma quando, fino a che c’è questa idea del soggetto preparato? Quando possiamo dire di essere preparati all’esigenza di ciò che si para dinanzi? Disposti, questo sì. Disposti a ragionare, mai preparati! Già saputi, già preparati!
La scuola, prima di porsi la questione della formazione e dell’insegnamento degli allievi, occorre che si ponga la questione della formazione e dell’insegnamento per i docenti, nel senso che occorre che ciascuno, in quanto interviene nella scuola, nell’istanza della scuola, si trovi non già in una fantasmatica di padronanza, ma nella parola originaria e dunque nel dispositivo intellettuale.
Abbiamo posto alcuni argomenti per gli incontri che daranno il modo di svolgersi in questo laboratorio: La forza, La memoria, I talenti, Il merito, Il valore, Il voto: premio o pena? L’autorità, La disciplina, La direzione, L’abitudine e l’affaticamento, Il folle e il pazzo, La clinica, L’istituzione e l’odio, Financialbrain, Schoolbrain.
Ci siamo posti un panorama, giusto per cominciare, ma vediamo di ampliare man mano.
Prima conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto