La scommessa dell’avvenire
Occorre qualificare e analizzare la nozione di uomo e del limite che questa nozione trae con sé per non correre il rischio di comprenderci, o meglio, più che rischiare di comprenderci, corriamo il pericolo di comprenderci. Ossia, io posso parlare qui per secoli e voi non mi udite, perché credete di comprendermi. Anzi, perché siete convinti di comprendermi, perché voi siete certi di comprendermi, perché voi praticate la comprensione sulle mie parole. Ma io non sono qui per parlare invano. Proviamo, provate a ascoltare.
Se noi diciamo contraddizione, ebbene alludiamo alla contraddizione originaria, a quella contraddizione che, intoglibile, costituisce una logica da cui la parola procede. Ma se questa contraddizione, che quindi è logica della parola, è modo della parola, è virtù della parola, viene convertita nella contraddizione umana, allora non si tratta più della contraddizione, non si tratta più della parola, ma dell’idea che ognuno ha di un fondamento che dovrebbe risultare comune. Nemmeno l’uomo è un fondamento, nemmeno la nozione di uomo è comune. Di questo si era accorto anche Aristotele che ha dovuto, su questo, istituire e fondare un sillogismo per creare una comunità fondata sulla comune origine animale, sul comune destino mortale. La contraddizione non investe né la comune origine animale né il comune destino mortale. È contraddizione originaria. Contraddizione intoglibile, senza mediazione. Il modo della contraddizione, quindi, è l’inconciliabile: chi può scegliere e cosa può scegliere? L’idea di scelta è l’idea stessa di abolizione della contraddizione. Mentre la contraddizione comporta che mai c’è alternativa, la scelta introduce immediatamente l’alternativa, introduce anzi l’ipotesi che possa esserci l’esercizio sulla contraddizione, scegliendo. E questa sarebbe la facoltà umana, la facoltà di scelta, cioè la facoltà di ricondursi alla comune origine e al comune destino. Tutto ciò toglie la parola. La parola, per suo statuto, è incomprensibile, non vuole dire nulla. In ciascun caso occorre capire, intendere, qualificare ciascuna cosa, che di per sé non vuole dire nulla, ma senza questo processo di qualificazione della parola voi “vi comprendete”. Cioè senza ascoltare, senza capire, senza intendere, comprendete il luogo comune che sembra collegare l’uomo all’uomo, ogni uomo all’uomo ideale rappresentato dall’entità uomo. E questo vale per l’uomo, per ciascuna cosa. Questa entità uomo è un’entità ideale. L’esperienza della parola è l’esperienza anche del processo di qualificazione che è necessario per cogliere il valore di ciascuna cosa, che non è un valore standard, non è un valore comune, non è un valore condivisibile. Il valore, in quanto valore assoluto, non è condivisibile. Il valore s’instaura per via di divisione, il tempo è divisione, il tempo, intervenendo, man mano attua un processo di differenza e di variazione, per cui le cose procedendo si qualificano e giungono al valore, ma non al valore standard, al valore generale, ma al valore in quel caso, potremmo dire in quell’istante. È valore assoluto, cioè senza relazione con il generale, è un valore specifico, non è un valore per sempre, non è un valore per tutti, non è un valore condivisibile. Non è un valore che si possa spendere, non è capitalizzabile; è il capitale, non è capitalizzabile. Non lo posso accumulare, non lo posso trasmettere, non lo posso dare, non lo posso ricevere. È un valore cui si può giungere per via di acquisizione intellettuale, ricerca, impresa, non è un valore che si possa acquisire per studio, studiando. Già questa nozione di valore mette in questione la nozione stessa di scuola, perché questa nozione di valore non procede dal sapere. Non conta un sapere da cui possa attingere il valore, attingere quindi la parola dalla sua cifra. Dunque è un’altra scuola che si annuncia con la parola. La scuola che è in atto nel pianeta, quella che viene chiamata l’istituzione della scuola, a indicare questo luogo in cui viene impartito un insegnamento e un sapere, è una scuola sul modello della scolastica, ossia una scuola in cui viene impartito un sapere, ossia una scuola che si fonda su una nozione di sapere come qualcosa di trasmissibile e dunque insegnabile. Su questa idea di sapere trasmissibile sorgono i cosiddetti tecnici che sanno, hanno appreso e sanno, e quindi a loro volta possono trasmettere questo sapere. Allora ecco i corsi, i corsi per insegnare questo, quello, quell’altro, come fare questo, come fare quello: una tecnologia del sapere. E in questo modo il sapere diventa una sostanza, come una pozione, qualcosa che possa essere somministrato, ma la trasmissione è una proprietà della parola, non del sapere, perché il sapere è un effetto della parola nel registro frastico. È un effetto temporale: qualcosa, enunciandosi nella funzione di resistenza, incontra la lettera e questa lettera produce come effetto il sapere, un effetto di sapere, ma non un effetto stabile, è un effetto temporale.
Questo è il sapere che si produce parlando, un sapere che non vale di imparare perché, parlando, ciascuno non fa riferimento a ciò che è stato, ma parla nell’attuale e occorre dunque intendere l’atto di parola nella sua attualità, non con il riferimento a qualcosa che è stato. La questione della psicanalisi ha aperto un varco in questa credenza che parlare fosse la riproduzione di un sapere e dunque che nulla di nuovo potesse avvenire parlando, ma che quel che si dice andava tradotto sulla base del sapere saputo. Su questa base nessun ascolto. Come capire quel che si sta dicendo se quel che dico è convertito in un codice, in un sapere già stato, perché non tiene conto dell’attuale? La questione della parola è la questione dell’attuale, non del passato. Se noi facciamo riferimento al sapere come sapere disciplinare, allora quello che udiamo non è da intendere, ma ha da inscriversi in ciò che dobbiamo condividere e in ciò che non dobbiamo condividere, presumendo di poterlo fare. Questo si chiama conformismo. Se noi applichiamo il conformismo, cioè la conformazione di ciò che udiamo a quello che già sappiamo e che deve essere mantenuto, noi siamo già nell’alternativa, ma soprattutto siamo già nella sordità. La psicanalisi è sorta non come nuovo codice, non per la comprensione, non come nuova disciplina da applicare, non come nuova visione del mondo, come nuova ideologia con cui sostituire qualcosa di precedente, ma la sua portata sovversiva, già con Freud, è stata quella di introdurre l’ascolto e, se vogliamo, proprio anche la sola ipotesi, l’ipotesi dell’ascolto lì dove non c’era, lì dove non era praticato, lì dove non doveva esserci. Questa è la portata sovversiva che con Freud ha avuto questa proposta, che all’inizio non si chiamava nemmeno psicanalisi, ma talking cure, cura di parola. Apparentemente quanto di più aspecifico, quasi banale, ma proprio il banale dice della originarietà della parola. Ciascuna cosa è banale, ossia esige di qualificarsi, non è già dato il suo valore. Quindi niente è banale nel senso gergale, ciascuna cosa è banale nel senso che, dicendosi, incontra l’interdizione, e dunque esige di qualificarsi. Il banale è questo: è quel che si dice in quanto procede dalla contraddizione e dunque non è già noto. L’abitudine al sapere impedisce di ascoltare, perché ogni cosa deve inscriversi in quel sapere senza alterarlo. In questo senso ciò che odo viene convertito, deve essere convertito nella lingua comune, nel sapere comune. Questo sapere comune è la negazione della scienza. Perché ciò che oggi, nonostante Leonardo, è inteso come scienza, non è ciò che incorre nell’invenzione, ma ciò che la comunità scientifica ha approvato come tale; il sapere come fondamento toglie anche la verità come verità effettuale, e fonda una verità fondamentale cui tutti debbono attenersi. Questa è la negazione della scienza. La scienza trova che la verità è la sua punta, cioè il suo effetto conclusivo, non il suo punto di partenza.
Occorre distinguere quindi tra scienza come scienza della parola, scienza dunque che va in direzione della verità, dal cosiddetto discorso scientifico e discorso scientistico che pone la verità come fondamento e quindi in questo modo toglie anche la ricerca, o meglio, ammette solo quella ricerca come conclusione della ricerca al fondamento da cui era partito, perché se incontra un’altra verità contraddice al discorso su cui questa presunta scienza si sostiene, e dunque non vale. Se contraddice non vale. Allora noi abbiamo un’ipotesi in cui la contraddizione in quanto intoglibile è ciò che instaura il parlare, come qualcosa di nuovo in cui il dire è ignoto e questo dire esige l’ascolto, esige l’intendimento, esige l’analisi e la qualificazione, e quindi anche l’elaborazione, perché ciò che si dice non si riferisce a un sapere, è una produzione nuova. Oppure abbiamo invece l’altra impostazione in cui il fondamento è già dato e ciò che contraddice a questo fondamento è da escludere, perché contraddice all’umano, a ciò che nella comunità degli umani deve valere per tutti. Allora un conto è lo statuto intellettuale per ciascuno in cui è il ciascuno che vale, oppure il sapere comune per tutti, tutti in quanto tutti uguali. In questa idea di comunità, in questa idea di totalità la parola è tolta. Anche il processo intellettuale è tolto. Abbiamo lo standard, abbiamo il gergo, abbiamo la lingua comune che ci impedisce di parlare, e soprattutto ci impedisce di ascoltare, e dunque ci impedisce la comunicazione. Consente solamente di comprenderci. Cosa vuol dire comprenderci? Stare insieme? Prenderci insieme? Credersi insieme? Appartenere a un insieme, a condizione di accettare le condizioni di questo insieme. Quali sono? L’origine comune e il destino comune. In questo discorso che ha questo fondamento l’arte stessa non è accolta. L’arte come ciò che si produce nella variazione è inaccettabile. La differenza come ciò che è imprevedibile, irrappresentabile è inaccettabile. Sorge allora la classificazione per poter stabilire ciò che accettabile e cosa non lo è. Ma qui siamo fuori dalla parola. In questo discorso non c’è parola, non c’è parola libera, non c’è la parola che giungendo al valore produca anche effetti di soddisfazione, effetti di piacere, effetti di verità, che sono gli effetti cui concludono la ricerca e l’impresa. Il discorso invece, il discorso comune, il discorso che esige lo standard è il discorso che esige la piattezza. È un discorso che si regge sull’ipotesi e sulla probabilità statistica. L’ascolto è senza statistica. La parola è senza statistica. La combinatoria che si produce parlando, nel racconto, non è statisticamente prevedibile, ma non per questo è meno importante, anzi, è proprio lì che si gioca la partita: capire cosa si sta dicendo, capire qual è l’istanza per cui qualcosa si sta dicendo, perché non è già noto, nessuno lo sa già.
Allora la questione della scuola è la questione della parola. L’educazione, l’insegnamento, la formazione, l’istruzione stessa, come procede? Procede per applicazione di un sapere comune? O procede attraverso dispositivi, in cui attraverso lo scambio, la parola, la qualificazione si producono effetti di insegnamento, effetti di formazione, effetti di lettura, acquisizioni che hanno la caratteristica di risultare perenni e di dare la direzione verso la qualità? O si tratta di istruire e formare soggetti, cioè cloni? La riforma della scuola non ha nessun interesse. Quale può essere l’interesse di una riforma che è di natura ora ideologica, ora sindacale, ora economica in cui comunque la base è quella della scolastica in cui la parola è negata, in cui viene invece fomentata la credenza che si tratta di diventare soggetti, di acquisire la coscienza, ossia un sapere comune condivisibile, dove non viene praticato il parlare, ma il gergale, dove nessuno è protagonista di un itinerario, ma si tratta per tutti di finire gli studi? Di finire. L’educazione è a finire. Ogni cosa deve finire. Deve finire la lezione, deve finire la giornata, deve finire l’anno, deve finire il biennio, il triennio, c’è sempre da finire, per conseguire il certificato che certifica che hai finito. Ma questo in che direzione va? In termini intellettuali, in che direzione va? Quale formazione rispetto all’istanza intellettuale, cioè alla vita, che noi diciamo intellettuale, ma si tratta della vita, del modo della vita. Il modo della vita è il modo della parola. Una scuola che si regga quindi sull’ontologia del sapere è qualcosa che nega la stessa denominazione scuola. Noi abbiamo esplorato la settimana scorsa alcuni aspetti della scholè, cosa gli antichi chiamavano la scholè, ossia il tempo dell’ozio, inteso come il tempo dedicato agli effetti intellettuali della ricerca della vita, e cioè non al lavoro quotidiano, ma qualcosa che interveniva fuori dal lavoro, dalla necessità del lavoro, in un altro statuto della necessità, necessità non ontologica, necessità temporale, un’istanza di curiosità, un’istanza di soddisfazione, un’istanza di ricerca. La scholè, nel rinascimento, si è volta nella bottega, dove non veniva impartito un sapere, quel sapere che Leonardo attribuisce ai trombetti, agli umanisti, agli insegnanti, ai dottori; nella bottega ciascuno andava e nel dispositivo che si instaurava con il titolare della bottega, ma anche con gli altri allievi, chiamiamoli così, in quel dispositivo avvenivano effetti di formazione, di insegnamento. Avveniva l’acquisizione di tante cose, per cui si avviava un itinerario che poi andava nella sua direzione, imprevedibile. Che ne sarebbe stato di Leonardo senza il Verrocchio? Sicuramente non sarebbe stato Leonardo, ma non è che ha imparato dal Verrocchio, il quale gli ha spiegato come doveva fare. Certamente, in quel dispositivo c’è stato insegnamento, c’è stata formazione, ma chi era l’insegnante e chi l’allievo? Tra Leonardo e il Verrocchio chi era il maestro e chi era l’allievo? Sicuramente c’era uno scambio. Allora, se togliamo lo scambio, togliamo anche il dispositivo, creiamo apparati, ma lo scambio non è “io do a te questo e tu dai a me quello”. Lo scambio è nella parola, è nello statuto intellettuale. Io non so che cosa ci scambiamo questa sera, procedendo, qualificando. Proseguendo, qualcosa di questo scambio può scriversi, può andare nella direzione della qualità, ma non per inerzia, non per predestinazione, perché un dispositivo sorge e prosegue. Non finisce, prosegue. L’importanza del proseguimento, quindi non dell’idea di fine, ma del proseguimento. Invece la fantasia più comune che c’è modo di ascoltare è che ognuno deve finire, ha da finire qualcosa, ha cominciato e deve finire. Già nel modo di enunciare le cose si avverte la logica, qual è la fantasia, qual è il fantasma e quindi anche qual è la direzione. Se io credo che qualcosa debba finire, va a finire che finisce, cioè la parola non scherza. Allora l’importanza della contraddizione come intoglibile, contraddizione originaria, contraddizione il cui modo è l’inconciliabile, è che acquisendo i termini di questa logica risulta impossibile porsi nell’alternativa, stabilire un progetto e porre questo progetto nell’alternativa. Il modo più comune di pensare, per esempio, ciò che nella scuola è posta come prova, l’interrogazione, l’esame, il modo più comune di pensare è che questa prova è nell’alternativa, può andare bene e può andare male. Allora sorge la paura. Il futuro, l’avvenire posto nell’alternativa è avvolto dalla paura. E il paradosso diventa che ognuno ha paura dell’avvenire. Come aver paura di qualcosa che non c’è? Questo è il paradosso umano per eccellenza. Ma in realtà è paura non dell’avvenire, ma è paura della rappresentazione dell’avvenire che ognuno fa, per lo più della rappresentazione della fine negativa o della possibilità negativa. Il possibile, il probabile tolgono l’avvenire. L’avvenire non è né possibile, né probabile. L’avvenire è sicuro se non viene praticata l’alternativa, cioè se non viene tolta la contraddizione. L’alternativa si stabilisce togliendo la contraddizione, cioè dove la contraddizione comporta l’ossimoro. Dentro-fuori, per riprendere un termine che è stato posto prima, sotto-sopra, bene-male non sono alternative, sono ossimori. Non c’è da scegliere tra dentro e fuori, sopra e sotto, bene e male. Non c’è da creare l’alternativa scindendo questo ossimoro nella sua coppia oppositiva, che allora diventa o dentro o fuori; allora abbiamo la minaccia, o sei con me o sei contro di me, o sei dentro o sei fuori, o andrà bene o andrà male. Abbiamo la minaccia, non più l’ipotesi dell’avvenire, ma la minaccia dell’avvenire. Quanto di più comune, lì dove ci sia la dicotomia dell’apertura, la dicotomia della contraddizione. Invece, con la contraddizione, la questione è aperta, è senza minaccia, è questione è aperta. E dalla questione aperta allora può instaurarsi la direzione verso la qualità, verso il valore, la valorizzazione di quel che si fa. Con la minaccia nessuna valorizzazione. Ognuno tenta, spera di evitare ciò che sta nella minaccia. Ma cosa accade in questo tentativo di evitamento? Che il negativo della minaccia fa da timone e uno ci va a sbattere contro, tranquillo tranquillo; tranquillo magari non tanto, però volendo evitare, volendo, assumendo mille precauzioni per evitare… Boom, lì va, perché ha questo timone, ha questa meta, ha questa idealità dinanzi a sé e a quella si dirigerà, perché l’idea opera, non è che è nulla, e con l’idea del negativo dinanzi, verso il negativo mi rivolgo. Questa è la questione che spesso non viene intesa. Anzi, raramente viene intesa, occorre dire. “Farò il possibile. Farò il meglio per quanto mi è possibile.” Beh, poca cosa, perché questo possibile è già il marchio del limite. “Cercherò di fare il mio meglio.”. E già qui non è il meglio assoluto, è il mio meglio. E che idea hai di te? “Beh insomma, ho i miei limiti.”. Ecco, appunto. In quanti modi quindi il discorso comune, il discorso di padronanza, la soggettività tolgono l’avvenire, impediscono l’avvenire introducendo questo possibilismo, questo probabilismo. “Probabilmente accadrà che…”, probabilmente, perché la possibilità, il probabilismo, il possibilismo cercano di attuare una sistematica. Non c’è più la libera combinatoria, ma una sistematica. In questa sistematica ognuno tenta di adeguarsi al sistema o di adeguare il sistema a sé. Ma se non c’è sistema? Può l’infinito diventare un sistema? O c’è l’infinito, l’infinito della parola, o c’è il sistema, questo è il punto. Allora può darsi scuola nella condivisione dell’idea di limite, della coscienza di limite, della coscienza di sé, della coerenza con se stessi? Sono tutte formule queste che contrastano l’ipotesi del divenire e mirano invece a una stabilità, a un essere, a un’ontologia, a un’accettazione della stasi. La scuola non può procedere da queste risposte. Questa è intanto una questione. Allora occorre fare uno sforzo e non convertire ogni cosa in cosa umana, in rappresentazione dell’umano, in rappresentazione di sé, in rappresentazione dello standard, in rappresentazione del bene comune. Occorre fare lo sforzo di andare nella direzione della qualità, che è per ciascuno, non è la stessa per ognuno, non è per tutti, non c’è più totalità. Questo dovrebbe essere il motto della scuola, non c’è più totalità, ma statuto intellettuale per ciascuno. Allora come questo motto può divenire dispositivo, può dar luogo a dispositivi, questo è quanto noi possiamo discutere.
Seconda conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto