La necessità pragmatica.
Come e perché l’educazione dissipa il tabù della vendita.
Il titolo del dibattito di questa sera è La necessità pragmatica. Come e perché l’educazione dissipa il tabù della vendita. Non è immediatamente coglibile, forse, cosa c’entri l’educazione con la vendita, ma è per questo che siamo qui questa sera, per chiarire questa connessione.
In effetti, dall’accezione comune di educazione è bandita ogni nozione pragmatica, ma proprio questa è, invece, la questione, perché, togliendo l’implicazione pragmatica, cioè facendo dell’educazione la prescrizione, il vademecum di ciò che si deve o non si deve fare, facendo dell’educazione un formulario delle buone maniere, ciò che resta è idealità. Un’idealità senza il contingente, un’idealità generica, quasi un manierismo. E questo manierismo lascia spazio alla mediocrità rispetto a cui Orazio aveva torto. Nessuna aurea mediocritas, nessuna possibile mediazione con l’estremismo della parola. La mediocrità implicherebbe questa virtù dello stare nel mezzo, dello stare a metà fra un estremo e l’altro. A metà della salita, a metà del colle, a metà del cammino, a metà della qualificazione accontentandosi di una formula che possa soddisfare questi e quelli. Stare nel mezzo, stare nel mezzo tra papà e mamma, stare nel mezzo tra il bene e il male, stare nel mezzo. Ma come stare nel mezzo? Come riuscire a isolare, rappresentare, raffigurare l’intervallo delle cose? L’intervallo dove la funzione vuota è ciò che fa sì che le cose si qualifichino, giungano al loro estremismo, dunque al valore, al valore estremo, al valore assoluto? Senza questo estremismo abbiamo il discorso comune, abbiamo il luogo comune, abbiamo lo standard, l’idea dello standard, ciò che può pensarsi comune, generale, qualunque, perché noi sentiamo che comunque, questa cosa sì, ma comunque. Comunque: il modo della mediocrità, con cui viene tentata la mediazione rispetto all’estremismo. Tolto l’estremismo è tolta la tensione della parola verso l’efficacia, tolto l’estremismo è tolta anche la tensione pragmatica. Ciascuno può accontentarsi di pensare come farebbe, come potrebbe fare, come saprebbe fare, come dovrebbe fare senza fare! Rappresentare la mediazione, rappresentare la mediocrità è rappresentarsi come soggetti in assenza di parola, soggetti del discorso comune. Come stare nel mezzo. Chi può dire di stare nel mezzo se non presumendo di conoscere dove finisce il cammino, dove finisce il percorso e dove ha avuto origine? Stare nel mezzo comporta questa geometrizzazione, questa spazializzazione del cammino, del percorso, dell’itinerario, anche della vita. Quando inizia, quando finisce, quanto dura? Stare nel mezzo. Dove sta la verità? Stare nel mezzo, a metà tra la vetta e le pendici del monte, pensando che la vetta sia la fine del cammino, la fine del percorso. Stare nel mezzo, indifferente alle vicissitudini, alle vicende del cammino e del percorso. Stare nel mezzo, stare nello standard, stare nell’indifferenza. Stare. La mediocrità ha questa idea di potere stare. Non già di andare e venire, non già un’ipotesi di movimento, di modulazione, di ritmo, ma un’ipotesi di stabilità, di “potere stare”. Questa idea di mediocrità, questa nozione di mediocrità, questo statuto della mediocrità segue all’indifferenza in materia di qualità, in materia di pulsione, in materia di domanda, indifferenza in materia di intellettualità, senza ipotesi di eccellenza, di eccezione. Lo standard, la medietà, la mediazione, la mediocrità che presuppone l’idea del conoscibile, della conoscenza. Della conoscenza dell’origine e sulla meta, la conoscenza sul valore.
Stare nel mezzo nella “giusta accezione”, senza estremismo, senza cifra, nell’accezione comune, nel senso comune, nel luogo comune. Come accettarsi mediocre? Chi può accettarsi mediocre? Chi può tendere alla mediocrità? Accettarsi mediocre è la mortificazione. Accettarsi mediocre è accettarsi morto. Soggetto senza spinta, senza tensione al valore. Mediocre, ossia senza educazione. Intendendo l’educazione come il dispositivo nell’itinerario che si rivolge alla cifra, alla qualità. Educazione che partecipa del rivolgimento di ciascuna cosa verso la sua cifra. È un’altra accezione di educazione rispetto a quella pedagogica, in cui si tratta della riproposta della coppia maestro-allievo, servo-padrone, medico-paziente. Coppia che ripropone in qualche modo l’allegoria del vaso da riempire. Molto spesso è stata posta l’equazione educare-inculcare, educare per inculcazione che, detto fra noi, vuol dire inculcare “a calci in culo”, facendo entrare nella testa le cose seguendo la via del culo. Inculcare: educazione per inculcazione. Da questa idea di poter inculcare le idee, le nozioni, i modi, poi abbiamo come conseguenza l’idea del plagio, del vittimismo, dell’irresponsabilità, dell’incapacità. Il soggetto inculcato è un soggetto incapace, irresponsabile, praticamente senza cervello. Dispone di ciò che dispone per inculcazione. Senza cervello e quindi senza bussola. Inculcato sarebbe il soggetto passivo, il soggetto della pedagogia, che intende l’educazione in maniera transitiva. Tizio educa Caio. Soggetto attivo l’educatore, soggetto passivo l’educato, secondo la nota formula conoscente-conosciuto, docente-allievo, secondo questa idea di transitività, di comunicatività per cui le cose passano da una cosa all’altra, da un soggetto all’altro. In questa coppia maestro-allievo l’idealità del maestro è quella di forgiare l’allievo; si tratta dunque di un rifacimento. Si tratta sempre di un rifacimento. L’educazione come rifacimento. Ognuno deve essere fatto conforme al modello che risponde ai requisiti ideali in questa sorta di modellatura della materia, che dunque è inerte. Non si tratta più della materia intellettuale, ma della materia inerte. Si tratta dell’artigiano che forgia il suo prodotto.
Noi diamo all’educazione un’altra accezione. È l’educazione all’intellettualità. È l’educazione al valore, educazione alla parola. La pedagogia è senza parola. La pedagogia è una prescrizione alla relazione sociale come modello comune e accettabile di comportamento: parte dalla mitologia, parte dal comportamento, da ciò che è visibile, dall’osservazione. È un criterio animale. Dunque educazione intellettuale. Educazione come dispositivo intellettuale nell’itinerario di ciascuno in direzione della qualità. Né buona né cattiva educazione, senza nessuna visione morale, ma con il criterio della qualità, che non è la qualità per tutti, non è la qualità media, non è lo standard, non è l’aurea mediocritas, è la qualità assoluta. Come ciascun caso approda alla qualità? Come ciascun caso approda al valore? Questa è la questione dell’educazione: come! Questione di modo, questione di dispositivo. Non: “Fai così, fai cosà. Devi fare così.” – ognuno deve fare questo, deve fare quello, deve comportarsi – ma come? Cosa fare per. Cosa fare per assolvere al compito, al compito che è necessario per ciascuno, al compito attuale per ciascuno, al compito dettato dalla necessità pragmatica. E questa accezione di educazione esige la ricerca e i suoi modi, e l’impresa e i suoi modi. Ricerca e impresa! Come le cose cominciano, come le cose si concludono, esige l’attuale, non l’ontologia, non la prescrizione ontologica senza il caso in questione. Esige il caso in questione, di volta in volta! Non tutte le volte che. Come fare questa volta? E quest’altra? E adesso? E ora? Senza alcun riferimento alla prescrizione ontologica che dovrebbe indicare la media, la mediocrità. L’educazione esige la valutazione. Non la valutazione di uno per tutti, ma la valutazione di ciascuno. Da cosa procede questo dispositivo dell’educazione? In particolare da due elementi: l’ostacolo e il tempo. L’appuntamento e la divisione. L’ostacolo e la piega. Impossibile ogni prescrizione, impossibile ogni modalità se la questione è aperta e si pone per via di ostacolo e di tempo. Impossibile generalizzare. Si tratta di ciascuna occorrenza, ciascuna esigenza, ciascuna volta. Non tutte le volte, non tutti i casi, non per tutti.
Il discorso, ogni discorso, il discorso filosofico, il discorso sociologico, il discorso psicologico, il discorso economico, il discorso finanziario, il discorso comune procede dall’idea di “tutte le volte che si fa questo”, senza il carattere particolare e lo specifico che caratterizza ciascuna volta. Già l’ipotesi di ogni volta, di tutte le volte nega l’educazione, nega l’occorrenza, nega l’esigenza intellettuale a favore di una possibile gnosi o gnoseologia mediocrizzante, annichilente. Dunque l’ostacolo. Di cosa si tratta nell’ostacolo? L’ostacolo è il modo con cui ciascuno s’imbatte nell’oggetto, in ciò che causa e questiona, in ciò che promuove, in ciò che sta innanzi e non è eludibile. La domanda per ciascuno è causata da questo oggetto non visibile, non rappresentabile che sta dinnanzi e non può essere tolto: l’ostacolo. L’ostacolo è ciò che sta dinanzi e non impedisce nulla, anzi, provocando la domanda, provoca il modo con cui la domanda si rivolge alla sua qualità: promuovendo, provocando, causando. Promozione intellettuale, promozione dell’ingegno, causa di desiderio, causa di godimento, causa di verità. Senza questo ostacolo il soggetto può solo accontentarsi, può accettarsi nella mediocrità. La mediocrità ha tolto l’oggetto, ha abolito l’oggetto, ha mediato con l’oggetto a favore della via facile, a favore della risposta già data, senza bisogno di cercarla. È la risposta senza la ricerca, senza il labirinto a favore di una concezione rettilinea del cammino e del percorso. Qual è la via più breve per andare da… a…? La via retta, la linea retta. Ma, dice un vecchio saggio, che talvolta la via più breve fra due punti è la più lunga! La via da seguire occorre che tenga conto dell’ostacolo, grazie a cui può giungere al compimento dove la via retta non arriverebbe mai. Questa idea della via retta, questa idea dell’abolizione dell’ostacolo sorge convertendo l’ostacolo nell’impedimento, convertendo l’ostacolo in un inghippo, in un guaio. Ma come si fa? Ma come faccio? Come si fa? Già qualcuno che chieda come si fa, come si fa questa cosa, è disarmante, è veramente un indizio della disintellettualità in cui questa domanda può formularsi: come si fa? Come se ci fosse un modo per tutti! Come si fanno queste cose? Come se fossero una procedura standard! Come si fa? Già “come faccio” comporta quantomeno una singolarità, una solitudine, ma, “come si fa? Dimmi tu come si fa. Dimmelo. Aiutami. Se non me lo dici non lo faccio”! Tolta l’arte, tolta la cultura, tolta la ricerca resta il canone, la rivendicazione, la vendetta, l’attribuzione della colpa e della pena. La vita non come ricerca, ma come ricettacolo. Il vaso da riempire e da svuotare, il vaso da notte. “Sono nei guai, sono pieno di buone cose. Sono pieno di buone idee. Non ho nessuna idea.” Il vaso. La testa come vaso. Il cervello come vaso. “Non ho nessuna idea. Non ho niente da dire. Non so cosa fare”. Il vaso, il vasetto, il vasino. Il vaso vuoto o il vaso pieno. Non c’è posto neanche per una piccola idea, non ci sta più niente. La testa come vaso! E ognuno si paragona a un vaso. Sono pieno di raffreddore. Sono pieno, sono vuoto. Sono! Ognuno è un vaso da riempire, da svuotare, da purificare.
L’ostacolo come impedimento sarebbe l’ostacolo da togliere. Da togliere o da fare togliere. Questo sarebbe l’aiuto: togliere l’ostacolo! “Toglimi questo ostacolo davanti. Rendimi facile la vita. Allontana da me questo calice. Questo mi rende difficile compiere il progetto e il programma. Dimmi come devo fare”. Ma se l’ostacolo è la condizione del progetto e del programma, come pensare di giovarsi togliendolo, togliendo l’ostacolo, togliendo la causa del progetto e del programma? Come porre l’educazione senza il compito. “Io non so quale sia il mio compito. Non lo so. Io non ho nessun compito. Non so cosa fare, non so cosa dire”. Quindi: “Fai. Decidi tu. Poverino, mica possiamo dargli il compito più difficile delle sue capacità! È ancora piccolo! È ancora giovane! È ancora debole! È ancora incapace! Non sa! Quando saprà potrà, se dovrà! Voglia Dio che non debba! Saprà? Potrà? Dovrà?”. E uno è bello che a posto! Si apre l’armadio, si mette dentro e speriamo che non debba. “Intanto mi metto in cantina, mi scavo un buco. Mi isolo. Mi proteggo. Mi riparo. Non so. Nessuno me l’ha spiegato. Nessuno me l’ha detto”. Protezionismo: la fabbrica degli idioti. Quale educazione a vivere nell’omertà dove la fiaba e la fabula non trovano il racconto, grazie a cui l’ostacolo risulta narrativo e non reale. Mai reale! Narrativo, intellettuale, condizione del viaggio con la ricerca e con l’impresa. E dunque il viaggio è intellettuale, è narrativo, è per acquisizione senza nessun innatismo, senza nessuna ontologia. Per acquisizione. Con l’ostacolo come condizione. La condizione, cioè il dove. Da dove viene questa cosa e dove va? Da dove? Dove non spazializzabile, non collocabile in una cartografia già costituita. Da dove viene e dove va? Il va e vieni delle cose. Questa è la condizione della domanda, la condizione del viaggio, la condizione del racconto, la condizione della ricerca, la condizione dell’analisi. Dove. Il dove non rappresentabile per cui non può mai essere plurale, mai può diventare ogni dove, il solito dove, il dove noto. Da dove e dove. Punto e contrappunto.
L’ostacolo, condizione della ricerca, condizione dell’educazione, condizione dell’itinerario, condizione dell’analisi, condizione della qualificazione con la sua singolarità, con la sua solitudine. E l’idea dell’ostacolo, non realizzata, non rappresentata, non codificata, opera perché la ricerca si compia, perché il viaggio si compia, perché la qualificazione si compia. È perché questa condizione in qualche modo è stata tolta, è stata negata, è stata abolita, che lo sforzo intellettuale è negato, che la superficie è considerata piatta. E su questa piattezza è possibile codificare il comune. La condizione impedisce la mediocrità. È condizione per cui l’itinerario si rivolge al valore, senza ovvietà, senza discorso comune, senza padronanza. L’ostacolo è anche condizione dell’arte, condizione della cultura, condizione dell’insegnamento e della formazione. Condizione della memoria e della sua valorizzazione.
L’altro elemento, diciamo così, costituente il dispositivo dell’educazione è il tempo, che non passa e che non scorre perché non finisce. Il tempo che, intervenendo, comporta che ciascun elemento è nuovo, mai conosciuto, mai noto. E questa novità esige la qualificazione, la valorizzazione, la scrittura, perché ciascun elemento interviene in una combinatoria imprevedibile, incalcolabile. E questa combinatoria rilascia la sua scrittura non automaticamente, ma nel corso della domanda, nel corso dell’itinerario, nei dispositivi opportuni. Per valorizzarsi ciascuna cosa tende al valore, ma non per inerzia, non per predestinazione, ma per la tensione della domanda, per la tensione intellettuale, procedendo dalla questione aperta e dall’ostacolo per intervento del tempo. Non di per sé, non fatalisticamente. Di cosa si tratta nella valorizzazione? È ciò che comunemente viene chiamata vendita. La vendita, ossia il dispositivo della valorizzazione. Come ciascuna cosa giunge al valore. La vendita. Senza la vendita nessun valore. Vendita. Come ciascuna cosa che s’incontra nell’itinerario è elemento di valore? Con la vendita! Con la valorizzazione! Con la vendita che si scrive, non con la vendita ideale, con la vendita che rilascia il suo messaggio. Il messaggio segue alla vendita, non la precede, segue al valore, alla valorizzazione. Il valore non è standard, esige il processo di valorizzazione e il dispositivo di valorizzazione, che è il dispositivo della vendita. Nessuna impresa senza la vendita, nessun commercio, nessuna ricerca. La vendita si avvale sia della ricerca, sia dell’impresa. Valore della ricerca, valore dell’impresa. Valore economico, valore finanziario. Come la legge, l’etica e la clinica si rivolgono al valore. Nessuna intellettualità senza la vendita. Com’è, allora, che attorno alla vendita è sorto uno dei più importanti tabù? Provate a interpellare un giovane laureato e chiedete se la sua ipotesi di lavoro ammetta la vendita. Dice no. “Qualunque cosa, ma non la vendita. La vendita no. Sono disposto a fare anche un lavoro sottopagato, ma non la vendita. Io non vado a vendere! Io non mi vendo!”, facendo di questo termine un’accezione demonizzata, antintellettuale, anticulturale, antiartistica, tabuica, in cui si riassume il tabù dell’incesto, il tabù genealogico, il tabù, cioè, della circolarità, il tabù della conoscenza della propria origine e del proprio destino. È questo il tabù dell’incesto: il tabù di una sessualità che possa rivolgersi su se stessa, anziché rivolgersi come politica del tempo alle conclusioni delle cose, alla conclusione del programma, alla strategia. Certo, questa strategia, questa politica, questo dispositivo esigono l’intellettualità, esigono l’analisi, esigono la teorematica, esigono l’assiomatica, il processo di qualificazione, esigono la vita secondo la parola originaria, la sua logica, la sua struttura. Esigono la vivenza e non la mortificazione di sé. Esigono, cioè, di non scriversi addosso la condanna alla mediocrità, perché la necessità pragmatica è che le cose si facciano e si valorizzino per ciascuno. Bene. Questa è, diciamo così, la proposta di questa sera.
Quattordicesima conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto