La lingua dell’esperienza della parola
L’esperienza della parola originaria è esperienza civile e si rivolge, con la sua cifratica, alla civiltà. Con l’esperienza della parola, con l’esperienza di ciascuno, con l’esperienza dello statuto intellettuale in atto si instaura la civiltà della parola, di granello in granello, di contributo in contributo. Non per volontà, speranza, finalità o intenzione di bene, ma pragmaticamente; è il contributo di ciascuno, restituendo in qualità ciò che ha ricevuto, che fa sì che la civiltà si instauri, prosegua, non costituisca un’utopia, o un miraggio, o qualcosa per cui si instauri il lamento constatando che non corrisponde all’idealità.
La civiltà della parola non è ideale, segue a ciò che avviene, per ciascuno, nel dispositivo della parola, nel dispositivo dell’esperienza, dispositivo civile. L’esperienza non è qualcosa di intimo, di intimista, di segreto, di personale, di spirituale, di religioso; non ha finalità di bene, né finalità sociale, né finalità di redenzione. L’esperienza, per ciascuno, non si rivolge all’inserimento o al reinserimento sociale, presumendo di essere usciti dall’apparato sociale, né ha come fine l’adeguamento sociale per la condivisione di norme, regole, motivi che debbano costituire il modello di comportamento sociale.
Norme, regole, motivi sono esche per l’instaurazione del dispositivo della parola. Norme, regole, motivi che tengono conto della domanda e non già di un’idealità, di un fine, di un’utopia, di un modello comune, collettivo, generale cui conformarsi. Norme, regole, motivi per l’instaurazione di dispositivi, perché qualcosa avvenga in direzione della qualità, qualcosa che si scriva perché entri nella memoria scrivendosi, non per rimanere confinato in un’idea di avvenire migliore.
Come vedere l’avvenire? L’avvenire è invisibile, inimmaginabile e non può essere né migliore né peggiore, se non diventando una fantasia conseguente alla fiaba che ognuno si racconta di sé. Ecco l’avvenire migliore: partendo dalla fiaba che ognuno si racconta di sé, la speranza è di un avvenire migliore rispetto alla fiaba, che trae materia dall’idea di origine, di destino prescritto, dall’idea di Ananke! Importa, dunque, il dispositivo per la ricerca, per l’impresa perché qualcosa si scriva della ricerca e dell’impresa, non per il bene, o per la redenzione, o per la salvezza, idealità che presumono la conversione, la catarsi dal male al bene.
Ogni idea catartica, di redenzione, di espiazione è idea che parte dal postulato del negativo che deve essere convertito, trasformato in fine positivo. Questo è il viaggio iniziatico che dal male giungerà al bene. Non è il viaggio intellettuale, non è la questione dell’esperienza della parola in cui conta come la domanda si rivolge alla cifra, come la domanda si qualifica e si rivolge alla qualità, come con la domanda procede il progetto di vita e instaura il programma di vita.
Ognuno può pensare che la sua missione impossibile è vivere bene per morire bene. Ognuno può pensarlo e si dispone a vivere bene, comodamente, evitando le scomodità, le difficoltà, evitando il male e tutto ciò che si rappresenta come negativo. Ognuno ritiene che vivere bene sia vivere evitando i pericoli, tutto ciò che non è conforme all’idea vigente, corrente, comune e generale, non tenendo conto che la rotta procede dal progetto di vita. Il timone sta lì, la rotta si rivolge al compimento del programma, alla qualità, alla restituzione in qualità di ciò che si incontra nel programma, non all’accumulo di ciò che si può capitalizzare.
Il capitale non è accumulabile. Questa è la questione del viaggio e della restituzione. Il capitale, come capitale intellettuale, come qualità, non si accumula, non fa cumulo, non si capitalizza: “Questo me lo tengo per l’avvenire, questo lo capitalizzo, lo metto da parte, me ne avvalgo per sempre”. Ma, il capitale non è sostanziale, non è qualcosa di cui fare tesoro. Nulla accade senza dispositivo, nulla avviene e diviene senza il dispositivo.
Il progetto e il programma non sono stabiliti una volta per tutte, il viaggio non è rettilineo, non è né una linea geometrica né un segmento. Non è il viaggio spaziale di cui misurare la lunghezza e la distanza. Lo specifico del viaggio di cui si fa l’esperienza civile, l’esperienza della parola è che non va dall’inizio alla fine, dalla partenza al traguardo, non è finito, non è un viaggio che finisce, che finirà, che è finito o che si tratta di stabilire quando e come finirà. Ciò è l’idea comune di mortalità che, applicata al viaggio, comporterà vari incagliamenti, varie geometrizzazioni, varie segmentazioni, per cui è un viaggio con il singhiozzo in cui bisogna partire e arrivare, ripartire e riarrivare, un viaggio contrassegnato dall’incidenza della partenza e dell’arrivo, senza lo svolgimento, senza il percorso, dove conta solo partire e arrivare. Partire e arrivare senza lo svolgimento. Questo è l’andamento geometrico del viaggio: partire e arrivare. “Ma quanto è lungo? Quanto dura? Quando finisce?”. È l’applicazione dell’idea di mortalità alla parola. Quindi, la dissipazione dell’idea di fine, dell’idea di mortalità è essenziale all’esperienza civile.
Nessuna esperienza civile può fondarsi sull’idea di mortalità, né d’immortalità che ne è il corollario. Il transumanesimo è un esempio dell’applicazione del fantasma di morte e di mortalità alla tecnologia e all’idea di avvenire, ossia, nessun contributo dal transumanesimo all’instaurazione dell’esperienza civile, della civiltà della parola, all’instaurazione di un altro modo di fare, di vivere, d’intervenire, perché è il mantenimento del modo comune con il proposito di andare oltre il limite rappresentato dalla morte; la lotta contro la morte, la vittoria sulla morte. Non è questo il fine del viaggio intellettuale, non è vincere la morte, sgominare, sconfiggere la morte, ma è dissipare il fantasma di morte, quel fantasma che, se applicato in ciascun istante alle cose che si fanno, impedisce di farle. La questione non è porre l’oltre alla mortalità, la finalità di giungere un giorno a sconfiggere la mortalità. No, la questione è, ciascun giorno, vivere senza l’oppressione, la cappa, l’incidenza dell’idea di mortalità che opprime, che impedisce l’audacia e il rischio, la riuscita delle cose che si intraprendono. Addirittura, impedisce persino d’intraprenderle, perché risultano già finite, negate, precluse, già impedite. La rassegnazione all’idea di mortalità è la rassegnazione alla vita mediocre, a considerarsi finiti, negati, ammalati, esseri da catalogare nella gerarchia di serie a, b, c, z, nella gerarchia tra il bene e il male, esseri senza audacia, rischio e eccellenza, senza la sfida e la scommessa.
La questione del dispositivo introduce nella domanda la sfida, l’azzardo, la scommessa, l’audacia in direzione delle cose da fare, senza la necessità dell’adeguamento al canone, al canonico, al possibile o al probabile, quel canone iniziatico che dovrebbe rassicurare sull’itinerario protocollandolo, attribuendogli un protocollo per garantire sull’arrivo adottando determinati accorgimenti: iniziazione e protocollo. È il viaggio algoritmico, viaggio che, così, potrebbe risultare facilitato, garantito se uniformato alla prevedibilità degli avvenimenti. Perché rischiare cose nuove quando il canone prescrive un certo protocollo per essere sicuri di arrivare lì, al traguardo? Ma, quale traguardo? Al traguardo conforme al protocollo!
Arte e cultura della parola possono avvenire nell’ambito di un protocollo? La scienza della parola può avvenire nell’ambito di un protocollo? L’accadimento di un lapsus, di una svista, di una cantonata può essere prevedibile? Può essere prevista? Può rientrare tra ciò che costituisce un elemento di variazione, un elemento imprevisto e dare un contributo imprevisto?
Quindi, nessun protocollo, nessuna probabilità e nessuna possibilità rispetto all’itinerario e al suo rischio, a ciò che può avvenire, al contributo che giunge da ciascuna cosa se non è respinta, per pregiudizio, per il pregiudizio dell’importanza del valore pregiudiziale di una cosa rispetto a un’altra: questa cosa è importante, questa no; questa vale il caso di farla e questa no; questa so che mi piace e questa no e, allora, questa la faccio e questa no. Questo è il viaggio sulla rappresentazione di sé, sulla rappresentazione del piacere di sé senza l’incognita degli effetti, viaggio senza la tentazione intellettuale, senza la sfida, la scommessa.
La tentazione, la sfida, la scommessa sono proprietà dell’annunciazione: le cose procedono dal due e si rivolgono alla cifra. Il modo è da trovare, non è già dato, è da inventare, esige l’articolazione, lo svolgimento. Nulla avviene per inerzia, per consequenzialità diretta o indiretta, nulla avviene senza dispositivo e senza domanda. Questo si può presumere negando la domanda, ritenendo che le cose avvengano per via dell’Ananke, per una necessità del destino, per il fato e la sua necessità scritta negli astri. Ma non è così. Nulla avviene senza sforzo, comodamente, per predestinazione, nulla avviene per inerzia. Ciascun atto esige lo sforzo, la forza, la domanda, la tensione. Astenersi rispetto allo sforzo è astenersi rispetto alla domanda. Minimizzare lo sforzo, minimizzare l’investimento sono modi dell’astensionismo. Il soggetto che segue i principi termodinamici mira a contenere lo sforzo e mira all’astensionismo economico. Il soggetto mira “a evitare”, per raggiungere il migliore risultato possibile con il minimo sforzo, con il minimo investimento, con il minimo. La regolazione è sul minimo, la normalizzazione è sul minimo, sulla rappresentazione del minimo; minimo bene, minimo male. Come accontentarsi? Bisogna pure accontentarsi! Questo è il precetto. Chi si accontenta, cosa fa?
Daniela Sturaro Gode.
R.C. Ah, ecco, lei è informata! Questo dice la fiaba. Nessuna fiaba, però, va in direzione dell’accontentarsi. Anzi, la fiaba indica che non c’è modo di accontentarsi. La domanda non si accontenta, va oltre il contenimento e ogni tentativo di contenimento sfocia in contropiedi, contrappassi e contraccolpi, cioè in quelli che genericamente si chiamano problemi di varia natura, problemi di salute per lo più.
Da cosa astenersi? L’astensionismo è rispetto all’analisi, alla qualificazione, alla novità. Ognuno si accontenta di ciò che sa di sé e dell’Altro e si astiene rispetto alla produzione di novità che non si sa dove può portare. Dove può portare? Ecco le varie forme di astensionismo rispetto all’approdo, al piacere, al nuovo, rispetto alla constatazione che procede dalla teorematica e dall’assiomatica dell’atto, del tempo, del dettaglio, del caso. Astenersi è astenersi dall’assoluzione, dall’assoluto per rimanere vincolati al canone, in relazione a sé o all’Altro, per mantenersi vincolati all’idealità di una relazione possibile con il simile, con il diverso, con l’Altro, con sé: la “relazione con”.
Nessuna relazione con le cose, con sé, con l’Altro, con chissà chi. La relazione è originaria, è il due. Il due è la relazione e il suo modo è l’apertura. Impossibile relazionarsi, che vorrebbe dire togliere la relazione e istituire accoppiamenti, coppie. Questo è il modo canonico di pensare il sociale, la socialità, la comunità anziché il civile. È l’abolizione dell’assoluto per mantenere il relativismo, la relazione con se stessi, con gli altri, con il modello, con l’idea, per stabilire come stare in relazione con le proprie idee, cioè come fare in modo che il viaggio divenga circolare.
Nella circolarità ogni evitamento diviene possibile e, sull’accettazione del principio dell’Ananke, lo sforzo è contabilizzato. Lo sforzo dell’impresa, della ricerca, è contabilizzato, risparmiato, conteggiato per verificare se è maggiore o minore di quello di un altro. “Ah, ma io mi sforzo di più. Io ho fatto di più. Io ho fatto di meno”. Di più, di meno. Ma lo sforzo è inquantificabile e la qualità non è misurabile, e ciò è la dissipazione dei criteri di misurazione e di conteggio. Non è nel risparmio né nella quantità del dispendio che si fonda il valore del viaggio. Ogni tentativo di fare la contabilità del tempo sfocia nella fine del tempo, impedendo gli effetti temporali. L’idea del “troppo” indica che c’è una contabilità di quello che avviene, di come avviene, di quanto avviene rispetto all’idealità, quindi rispetto al limite.
Il principio del sociale è anche il principio dell’espunzione della lingua, il principio delle cose come sono, come stanno e, dunque, l’astensionismo in questa direzione è astensionismo linguistico, astensionismo dalla lingua, dalla narrazione, dal racconto. È astensionismo dalla cifratura, dalla particolarità e dalla specificità. Astensionismo linguistico per non incorrere nell’incomprensione dell’Altro che potrebbe non capire, non comprendere. L’Altro, che non comprende, si fa nemico. Ecco l’Altro oscillante fra amico e nemico, l’Altro negato. Ma l’Altro non è né amico né nemico, non è preso nell’alternativa, è Altro rispetto a ogni possibile rappresentazione. La rappresentazione dell’Altro indica che l’Altro è negato e che il passo, come passo del tempo, è sbarrato dalla rappresentazione dell’alternativa.
L’idea della comprensione, così come dell’incomprensione, è idea di pena. L’incomprensione sarebbe la pena che contravviene alla prescrizione di dovere comprendersi facilmente. L’esperienza della parola è incomprensibile, non è spiegabile. Gli effetti della parola che si incontrano, che si riscontrano nell’esperienza, non sono spiegabili, percepibili, non rientrano nella percezione, nella coscienza, ma si scrivono e attuano la trasformazione. I risultati non si spiegano, non sono spiegabili, non stanno dove sono attesi. Certo, negandoli a ogni piè sospinto non stanno da nessuna parte, volendo a ogni costo negare l’audacia, il rischio, la sfida, la scommessa, il movimento, il processo, il fare, negando e continuando a negare, quali risultati? Risultati di che? Quali effetti se il tempo è negato, se prevale la paura come indice della padronanza e della soggettività?
Nella parola, nulla è spiegabile. Nemmeno il sogno e la dimenticanza. Nemmeno i sogni possono essere spiegati. Perciò è sorta la simbologia, per spiegare l’inspiegabile, per evitare lo sforzo della cifratura. Nulla si spiega. Ciascuna cosa esige la cifratura. La combinatoria è cifratica, non inerziale, non è frutto del destino, frutto dell’inerzia per cui basterebbe attendere perché cada dall’albero bello maturo. No, il frutto esige lo sforzo, il dispositivo, l’attuazione. Esige la cifratura. L’arte, l’invenzione stanno nel processo di cifratura, nel funzionamento secondo cui, con lo sforzo, avviene la cifratura.
La lingua non è esplicativa, non è innata! Non è una dotazione encefalica, non è natìa, non è materna. La lingua è lingua della parola, non è la lingua del vocabolario, non è la lingua canonica, parlata. La lingua della parola è lingua mai parlata, che si inaugura ciascuna volta in ciascun atto, lingua inventiva, lingua per la scrittura, per la lettura. È lingua che non si spiega, è lingua enigmatica. La lingua rilascia l’enigma per ciascuna cosa, non la definizione.
La simbologia è sorta per togliere l’enigma sessuale, della sessualità, della combinatoria, l’enigma politico, della politica del tempo. Togliete l’enigma e avrete il canone, la lingua comune, il discorso comune, il vocabolario comune, il luogo comune. Il bello della lingua sta qui, nella sua novità, nella produzione linguistica e poetica. Contro l’enigma linguistico, ogni sistema, ogni sistematica prescrive la spiegabilità, prescrive a ognuno di spiegarsi bene: “Ma spiegati bene. Perché non ti spieghi bene? Spiega bene cosa vuoi dire. Spiega bene le tue intenzioni. Spiega bene la tua essenza”. Perché, è ritenuto troppo scomodo dovere cogliere le sfumature, ascoltando. “Spiegati bene!”, così non ci sarà bisogno di ascoltare. Così dire e detto coincideranno! “Spiegati bene, spiega le tue intenzioni, sii normale, sii chiaro, sii semplice, sii facile, sii comprensibile. Lascia stare la lingua”. E con la spiegabilità sorge la normalità, la ripartizione fra normale e anormale fondata sulla statistica dei detti e dei fatti, la statistica che misura l’idealità dell’uguaglianza, dell’atto nella sua ripetibilità, nella sua ripetitività, identità, nella sua uguaglianza. Allora, potremo stabilire la percentuale degli uguali.
Qual è la percentuale degli uguali? Qual è la percentuale degli atti uguali? Qual è la percentuale in cui, nella pluralità dell’uno, non si verificano variazioni? Così, misuriamo la percentuale delle anomalie per sancire la percentuale delle omologie che saranno normali, mentre le altre saranno anormali. Misuriamo con la statistica l’identità e la stessità dell’uno per sancire la sua immutabilità. Sul principio della statistica si regge la prescrizione all’unità, all’unificazione, all’economia dell’uno identico a sé. Non già differente da sé, non produttore del sapere, di effetti di sapere nella sua divisione da sé. No, produttore di detti comuni. Unicità dell’uno. La statistica, pertanto, è possibile solo postulando l’identità dei soggetti, l’identità degli uni. L’identità.
Abolito il tempo, si instaura la statistica e si contabilizza, si valuta, si enumera l’identità delle intenzioni, degli appetiti, dei bisogni, dei consumi, dei mali e dei beni, si stabiliscono le percentuali e si distribuiscono i beni e i mali secondo la statistica della salute, la statistica delle morti. La statistica si avvale dell’abolizione e della fine del tempo.
Può definirsi scienza ciò che si avvale dell’apparato di contenimento, d’immobilità? È scientifico ciò che si ripete? È scientifico ciò che è statisticamente rilevabile? Questo è il punto: può la parola ingabbiarsi nell’apparato contabile e statistico? Può la psicanalisi, come esperienza della parola, seguire il canone statistico, adeguarsi al canone statistico che vuole dire canone psicopatologico, diagnostico, definitorio? Può la parola aderire e rimanere ingabbiata in questo? La questione intellettuale può ridursi a questione statistica? Qual è la necessità della base statistica per definire scienza ciò che è statisticamente più probabile? Da quando il probabile coincide con la scienza? Da quando il probabile è scientifico? Da quando?
Probabile, più probabile, possibile, più possibile, maggioritario, minoritario. Quello che è più probabile e maggioritario è scientifico, è scientificamente provato. È scientificamente provato? No, è statisticamente provato! Che c’entra la scienza? Che qualcosa si ripeta può essere statisticamente provato, chi lo nega? Ma, perché ciò dovrebbe essere scientifico? Questa è la scienza fondata sulla democrazia statistica. Chi ha detto che la scienza deve essere democratica? È scienza ciò che è della maggioranza? No. Chi l’ha detto? L’invenzione della penicillina non è avvenuta per statistica, ma per l’unicità inventiva la volta che si è prodotta quella combinazione.
La statistica è contro il caso, contro la specificità e l’unicità del caso, che deve essere evitato. Deve essere evitata la specificità e deve essere evitato il caso in nome dell’evitamento, dell’abuso inteso come possibile, il pericolo di abuso. Questa idea di pericolo è per limitare la scienza, per contenerla, delimitarla, perché non sia imprevista e imprevedibile. Per gli assertori della statistica, invece, ha da essere prevista, conclamata, approvata, ripetuta, codificata, protocollata.
Il rischio della scienza non si può evitare. La scienza è scienza della parola, scienza temporale, produzione di novità che interviene per via della divisione temporale che non si può evitare, trattenere, contenere. La scienza è scienza temporale, non è scienza statistica. La cura è scientifica, cioè è cura temporale, non statistica. La statistica della cura è la cura protocollare, cioè è la cura generica, senza che sia tenuto conto dello specifico del caso, della particolarità, della specificità, dell’unicità del caso.
Su cosa si basa l’applicazione statistica della cura? Sull’efficacia? No, quella non si può sapere prima. Sui buoni risultati? Quelli non si possono sapere prima. L’efficacia statistica della cura si basa sulla contabilità delle morti. È buona la cura che non fa morire, non che sia efficace, ma che non è mortale in base alla contabilità delle morti: se non è mortale è efficace. Questo è il criterio dell’efficacia della cura: la contabilità delle morti. Fa guarire? Beh, nessuno può guarire, però non muore. Da ciò la garanzia protocollare che la cura non sia mortale, per cui si può fare.
È il principio medico fondato sul giuramento d’Ippocrate. Qual è la prima regola? Per prima cosa, occorre che la cura non sia nociva, e perché non lo sia non deve essere mortale. Principio ispirato al criterio di mortalità che deve guidare la mano, senza rischio. Per evitare il rischio, qual è il principio valido? Il principio statistico. Ecco la conversione da scienza a statistica, mantenendo però la dicitura scientifico, nell’equivoco di ciò che è valido statisticamente.
Perché la necessità di confondere scienza e statistica? Si può dire che ci si avvale del principio statistico. Chi potrebbe dire che ciò non va bene? Ma, perché dire che il principio statistico è scientifico? Perché è adottato dalla maggioranza, quindi è principio democratico. Bene, è statistico e democratico, ma perché dire che è scientifico? Questo resta da chiarire. Perché questa sovrapposizione tra scienza e statistica? Perché è abolita la lingua: una parola vale un’altra! Il senso deve essere comune, perché l’importante è essere comprensibili, essere compresi, che non ci siano equivoci.
La medicina abolisce ciò che l’ha istituita, cioè la parola. Mezzi e strumenti della parola: questa è la medicina. Non statistica dell’operazione o di quant’altro, ma mezzi e strumenti della parola. Il rischio è rischio di parola, rischio di verità. La verità, come la scienza, non si può prescrivere, non si può sapere prima, non si può prevedere, non si può stabilire. La verità non è democratica, non è sociale. La verità si effettua dalla cifra, la verità è, piuttosto, processuale, è cifratica, procede dall’esperienza, dalla cifra dell’esperienza e non è condivisibile. Sulla verità non può sorgere nessuna comunità se non quella religiosa, ideologica, alinguistica, cioè senza la lingua e senza la parola, che sorga su postulati; una comunità che nega la ricerca e il tempo.
L’epoca persegue l’utopia di fare a meno del tempo e della parola, per inseguire la verità unica, stabile, condivisa, la verità canonica, per condividere il principio della colpa e della penitenza. Constatiamo che l’epoca è il luogo comune, è l’idea di uno spazio comune, dell’utopia comune, del credo comune, della vita comune, di idee comuni cui partecipare tutti insieme all’insegna della normatività e della normalità, senza la follia, l’arte, l’invenzione, senza la cultura, all’insegna della spazialità, della sostanzialità, della stabilità, dell’essenza, della soggettività. Ma, l’epoca non è la fine del tempo, non la caratterizza, non riesce a abolire il tempo. Ne è la fantasia, questo sì! È la fantasia che il tempo possa finire, che il tempo sia finito, che “le cose stanno così”. Ma ciò è una fantasia, è la fantasia che si regge sul principio economico dell’instaurazione di un sistema, per consentire la calcolabilità e la ripetitività degli atti.
È proprio qui che incomincia la missione civile, la missione della parola, la questione della civiltà, la questione intellettuale, della lingua civile, della scrittura civile. La missione civile è non credere al fantasma materno della fine del tempo, dell’origine comune e della fine del tempo grazie cui sarebbe possibile la padronanza sugli atti e sul tempo. È fantasma dilagante, diffuso, ma non è perenne, non è inattaccabile dalla parola. Perché ciò avvenga, occorre l’attuazione, l’instaurazione, l’invenzione di dispositivi civili in cui qualcosa possa dirsi e possa essere ascoltato. Udito e ascoltato. Questa è la missione civile. E, certamente, occorre ci sia chi non la trascuri. Anzi, chi si faccia promotore della missione civile. Missione di civiltà, missione di parola.
Ottava conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola