La lingua dell’autorità
Questo è il terzo incontro che dedichiamo alla lingua nuova, ossia alla “lingua della parola”. Sembra una ridondanza, una cosa che si possa dare per scontata che la lingua sia la lingua della parola, ma abbiamo più di qualche indizio per dire che la lingua comune, quella che viene considerata la lingua comune, la lingua parlata, la lingua che serve per comprendersi, non è la lingua della parola. È la lingua comune, parlata per comprendersi, ma non è la lingua della parola. La lingua nuova, la lingua della parola esige la linguistica dell’attuale e non già la linguistica della semantica, o della diacronia e della sincronia, o della fonetica e della morfologia, né del lessico della neuro o della psicolinguistica. Tanto meno la linguistica cognitiva, che sono forme di descrizione e di contenimento di una lingua che in realtà non c’è, la lingua ideale, che deve corrispondere a determinati canoni per essere comune, per essere la lingua del comprendersi, la lingua che consentirebbe l’empatia, la simpatia, il capirsi al volo, il capirsi sentimentale, il capirsi anche senza parlare. A tutto ciò serve questa linguistica che, in realtà, è la linguistica della lingua morta, la lingua riscontrabile nel vocabolario, che risponde al canone, la lingua prescritta per sancire e determinare l’appartenenza e la comunanza: l’appartenenza di genere, l’appartenenza sociale, la comunanza sociale. È la lingua che deve prescindere dallo sforzo intellettuale per qualificare ciò che si dice, la lingua cui ognuno è abituato, che ognuno crede di parlare per comprendersi con gli altri. È la lingua che non c’è, perché la lingua con cui ciascuno parla è, invece, la lingua che esige lo sforzo per qualificare ciò che si dice, in quanto ciò che si dice va oltre le intenzioni, oltre ciò che si voleva dire, oltre il significato che si voleva dare alle parole. È la lingua che esige l’analisi.
La lingua della parola è lingua analitica. Non è lingua sintetica, non è lingua che si fa di significati, non è lingua semantica, delle cose che si volevano dire o che si crede di dire. È la lingua che si fa delle cose che si dicono e che non si sa quali siano. È lingua che esige la qualificazione perché non è già qualificata.
Quale può essere l’incidenza nell’educazione, nella formazione, nell’istruzione della lingua della parola è ancora sconosciuto, perché la lingua adottata nelle varie istituzioni, nei vari apparati sociali e istituzionali è la lingua parlata, la lingua delle cose dette, la lingua del vocabolario. Se, però, consultate i vocabolari o i dizionari della lingua italiana, per ciascun lessema che potete cercare, il riferimento è alla credenza, all’ideologia, alla disciplina, alla mitologia cui l’estensore del vocabolario si riferisce per dare un significato a quel lessema. Il riferimento non è alla proprietà linguistica che risulta dalla combinatoria, ma il tentativo è di fare del lessema il veicolo della visione del mondo. Ognuno che usa quel lessema deve partecipare della visione del mondo, deve partecipare del sapere cui quel lessema si riferisce. Non è un lessema libero, che lascia libera l’interpretazione, ma è un lessema da cui l’interpretazione è praticamente bandita perché il significato è assegnato. E la lingua che ne deriva è la lingua che tende a uniformare e a essere uniformata al senso comune.
Ciò non è interessante, perché non lascia vagare quel che si dice nella combinatoria, ma la restringe al significato che quel lessema deve avere, al significato che quella frase deve avere per rientrare nel sentimento, nella sensazione, nella visione, nel sapere che deve essere partecipato dalla comunità. È la lingua i cui riferimenti sono già dati. I riferimenti culturali, artistici, scientifici, ideologici sono già assegnati e devono rientrare nello standard comunicativo. La lingua è lingua da cui la comunicazione è tolta a favore della comunicatività, cioè la trasmissione delle parole che abbiano un senso, un significato, un sapere già assegnato che deve garantire la trasmissione del sapere. Non l’invenzione di sapere nuovo, di senso nuovo, non favorire l’invenzione e la produzione, elaborazioni nuove e differenti, ma il mantenimento della visione del mondo, della concezione sociale, dell’appartenenza e della condivisione. E queste caratteristiche prescindono dalla parola.
La parola non è padroneggiabile. Esige la qualificazione. Il valore di ciascun lessema è da trovare e risalta dal processo di qualificazione che procede dall’analisi. Ciò che invece viene impartito dagli apparati della linguistica e della comunicativa è che la comunicazione non deve esserci, perché potrebbe sovvertire la visione del mondo. Cioè, è chiamata comunicazione la trasmissione del sapere. È preso per modalità comunicativa lo schema del secolo scorso che riguarda la teoria dell’informazione, dove c’è un emittente, un ricevente e un messaggio che deve andare inalterato dall’emittente al ricevente.
Sarebbe comunicazione questa dove non ha da intervenire alterazione nel messaggio? Ma non c’è una parola che possa essere identica a sé! Non c’è una parola che nel suo corso non sia in viaggio, quindi nell’alterazione, nella differenza e nella variazione! L’uso della parola si fa per metafore, metonimie e catacresi: nulla di stabile! La comunicazione si fa dell’intervento della metafora, della metonimia e della catacresi, quindi della retorica della parola che riguarda l’oralità.
Nulla di meno stabile dell’oralità, dove il senso, il sapere, la verità sono effetti, e non cause di ciò che si dice. Pensare che il senso sia causa, il sapere sia causa, la verità sia causa vuole dire parlare la lingua del vocabolario, la lingua dei luoghi comuni, lingua senz’arte, senza cultura, senza invenzione, senza libertà, senza leggerezza, senza quelle virtù del principio per cui la parola vaga libera, leggera, integra e non già saputa. L’idea della lingua parlata è la lingua che nega se stessa, nega i suoi valori, cioè l’arte, la cultura, l’invenzione, la produzione di sapere nuovo, la poesia, la musica, la scrittura. Tutto ciò è dato come già fatto, implicito, scontato e ciò è la lingua automatica, la lingua per gli automi, robotica, la lingua della programmazione delle macchine. Quest’idea di lingua viene dall’informatica e, prima ancora, dalla cibernetica. È la versione moderna della lingua cibernetica, cioè della lingua della programmazione delle macchine, la lingua per essere obbediti, che deve prescindere da ciò che viene chiamato in cibernetica il “rumore” della lingua, cioè da tutto ciò che potrebbe fare deragliare la macchina dall’ordine che le viene impartito. Ma, il rumore è proprio ciò che nella “lingua di ciò che si dice”, dà la ricchezza rispetto al senso, al sapere, alla verità!
Che ne sarebbe di una parola senza lapsus, sbaglio di conto, errore di calcolo, cantonate, senza sviste? Sarebbe la lingua robotica, cibernetica, degli automi, dell’obbedienza. Sarebbe la lingua del controllo, senza arte e cultura, senza differenza e variazione, la lingua dello standard, la lingua che presuppone di avere una causa finale, la lingua che deve finire nell’esecuzione dell’ordine che viene dato, la lingua finalizzata. Non è la lingua della parola, della poesia, del racconto, non è la lingua nel suo modo narrativo, dell’oralità!
La lingua della parola, dell’oralità, lingua che non ha riscontro nel vocabolario, ma rispetto a cui parlando, s’istituisce il glossario e il dizionario che viene dall’analisi e dalla qualificazione di ciascun termine nella direzione del valore è secondo il parlare. Ciascun termine si situa nella domanda e tende al valore, tende a qualificarsi e non a dire ciò che è già stato detto, non a ripetere le cose già dette per mantenere la stabilità rispetto al senso, all’origine, al fine, all’essere. No! La tensione della parola è rivolta alla qualificazione, alla qualità, al valore. E il valore è sconosciuto, non si sa prima! Esige la ricerca, l’impresa. Esige la lingua della ricerca, dell’impresa, della parola, la lingua senza sostanza, senza soggetti perché, parlando, gli effetti si producono, si producono “poi”, non ci sono “prima”!
Gli effetti non sono ciò da cui si comincia a parlare, ma sono ciò che avviene parlando. Il senso, il sapere e la verità sono effetti della parola. E gli effetti favoriscono la formazione, l’insegnamento, la trasformazione se non vengono negati; perché non è automatico che ci sia parola e la sua lingua. La lingua non entra automaticamente in vigore. No! Abbiamo le prove che negli apparati, nelle istituzioni, la lingua della parola non c’è, la lingua è negata. Perché? Perché è scomoda. Non consente la parità linguistica, il gruppo linguistico, non consente l’applicazione di algoritmi. E tutto ciò che invece serve all’apparato è potere essere usato per algoritmi.
Non c’è algoritmo in grado di governare la parola. Questa è la questione intellettuale effettiva. Mentre, se verificate qual è l’orientamento della ricerca tecnologica, disciplinare, di ogni tipo, la ricerca va in direzione di trovare la chiave per scoprire il segreto presunto, per capire senza sforzo. Qual è la chiave per decodificare la parola come sistema? Questa è l’aspirazione massima tecnologica e disciplinare; ma questa chiave non c’è. Non c’è perché la parola non è sistema, non fa parte del sistema, non è sistematica e non è sistematizzabile, e quindi non è assoggettabile alla codifica per renderla governabile dall’algoritmo. Questo è il problema per cui la parola è per lo più negata, perché non si presta all’uso sistematico, alla ripetitività. Non si presta all’accezione di scienza dell’epoca. Che cosa è chiamata scienza? La possibilità di ripetere il fenomeno. È scientifico ciò che è ripetibile. È la scienza su base statistica. La parola non è applicabile a quest’accezione di scienza. Impossibile fare la statistica del parlare perché la parola non è discorso, non entra nel discorso come possibilità di venire semiotizzato. Non c’è semiotica della parola perché non c’è sostanza che possa significare la parola, non c’è fondamento.
Ecco le basi della lingua della parola, della questione intellettuale che la parola pone. La parola è senza origine, senza fine, senza riferimento ideologico, sociologico, mitologico, psicologico e quant’altro. La parola non può entrare in una psicologia, non c’è psicologia della parola. Se consultate un vocabolario alla voce mente, psiche, lingua, parola e altro, troverete delle definizioni che c’entrano poco o nulla con la questione del parlare, con “ciò che si dice”, con la questione intellettuale, con la libertà della parola.
L’idea di una psiche comune, umana, l’idea di mente comune, umana, l’idea di lingua comune, umana, sono idee ridicole. Infatti, sono idee che vengono dalla filosofia di duemila anni fa, sono la versione moderna delle sfere aristoteliche. E il riferimento odierno è ancora quello, con tutta la sua incidenza. Provate a ascoltare anche i così detti scienziati che scrivono nei loro libri, negli articoli o quando vengono intervistati, quante volte citano il termine sfera per indicare un contesto: la sfera sessuale, la sfera intellettuale, la sfera intima, la sfera familiare. La sfera, le sfere. Ma quali sfere? Non ci sono sfere, non c’è sistema! Non c’è né geocentrismo né eliocentrismo. Non c’è un sistema di sfere che possa contenere gli effetti imprevedibili della parola e della lingua della parola, contro cui costantemente avviene la reazione per una sorta di risparmio energetico che ognuno pensa di potere attuare parlando per significati, invece che parlando e ascoltando ciò che, parlando, si dice.
Parlando, si dicono cose che per lo più non vengono ascoltate, e quindi non vengono capite, intese. E così ognuno va avanti dritto senza ascoltare ciò che si pone nella domanda che lo dirige, perché ciascuno è mosso dalla domanda. Ma, se la domanda non viene ascoltata, analizzata, capita, non viene intesa è come se non ci fosse! E così ognuno diventa un robot, una macchina, una macchina orientata da che cosa? Dai luoghi comuni! E i luoghi comuni dicono che sarebbe orientata dai sentimenti e dalle emozioni, che sono termini per indicare il comportamento. Ognuno sarebbe orientato dal comportamento. E cos’è il comportamento? È la risposta allo stimolo. La risposta più comune che lo stimolo applicato riceve. Così trovate scritto. Ecco il comportamento, l’idea di comportamento come modello di legame della comunità. Il buon comportamento, cioè il comportamento conforme, l’omologazione agli stimoli. Che vengono da cosa? Dalle emozioni. E cosa sono le emozioni? Sono le “cose” innate in ognuno e che esigono la stessa risposta! Bello! Ma questo è drammatico, se ci pensate e ci ragionate. È una cosa drammatica! E su ciò, su quest’impostazione poggiano le istituzioni più importanti: scuola, sanità, ricerca, tribunale. Qual è la grande aspirazione dei giudici? Che le sentenze possano venire comminate per algoritmo, senza neanche più bisogno del dibattimento, indizi, indagini, prove. Algoritmo-sentenza.
Questa sarebbe la questione intellettuale dell’era moderna? No, questa è la negazione della questione intellettuale dell’epoca, che si caratterizza come epoca che contrasta la parola, che reagisce alla parola, che si oppone alla parola a favore del discorso comune omologante perché, come già notava il buon Sigmund Freud, la questione della lingua, e quindi anche la questione della parola, è la questione dell’afasia. Afasia non come disturbo patologico che impedisce di parlare, ma come proprietà originaria della parola che non consente di comprendersi, proprietà che esige lo sforzo, che riguarda il modo, il tono, la qualità delle cose che si dicono.
Nulla di scontato! La lingua procede dall’afasia e non ha un codice comune attraverso cui si svolge. Esige la ricerca, l’indagine, l’analisi. E le risposte non giungono per sintesi, ma per ipotesi, illazioni, tentativi, interpretazioni, per via degli equivoci, delle menzogne, dei malintesi che il funzionamento della parola produce nel suo corso. Equivoci, menzogne, malintesi, non comunicativa diretta, non rivelazione, ma ricerca, annunciazione.
Annunciazione! Il dispositivo dell’annunciazione procede dall’afasia, cioè le cose si dicono; dicendosi, si dividono; dividendosi, si piegano e, così la molteplicità di quel che si dice. Molte pieghe, non una versione unica. Qual è la piega che interviene in quel dettaglio e lo valorizza? Qual è? Bisogna cercarla! Non sta scritta da qualche parte, non è già data, non è quella che penso io. È da capire.
Che qualcosa sia da capire, che cosa vuole dire? Che non ci sono concetti, nessun riferimento possibile alla concettualizzazione. Il concetto non vuole dire niente. La comunicazione non è concettuale, ma avviene per pieghe, dalla molteplicità alla semplicità. La comunicazione è semplice, tende al semplice, però passa attraverso il molteplice, non per concetti. Il concetto è la negazione dello specifico. Ci possiamo capire per concetti? No, concettualmente ognuno resta della sua idea e tutti gli altri hanno torto. Concettualmente io ho ragione e voi avete torto. Il concetto è chiaro. Concetto, cosa vuole dire? Il concetto favorisce la presa, cum capio, per prendere; per prendere qualcosa, ne faccio un concetto, vago, indistinto, generico. La qualificazione dissipa la concettualità. È un’altra lingua, non c’è più visione del mondo. Ci sono particolari, che sono le cose che danno valore. I dettagli, le minuzie, le quisquilie, perché è lì che interviene il tempo. Il concetto è senza tempo, il dettaglio è, invece, l’effetto del tempo.
Come interviene il tempo nella conversazione, nella narrazione, nel racconto? Con i dettagli! Evitare i dettagli vuole dire evitare il tempo, vuole dire mantenere una soggettività e una visione delle cose che altrimenti non avrebbe più modo di sostenersi. Evitare i dettagli vuole dire mantenere i ricordi per evitare un’altra scena, che qualcosa che giunga nuovo. L’afasia, quindi, come assenza di origine, di base, di codice, di significato comune, del detto. Per via dei dettagli, delle quisquilie, dei particolari nulla è mai detto, nulla è mai stato, nulla è. La realtà non è reale, la realtà è narrativa e, parlando, nessuno si trova mai nella stessa scena. Questa è la chance della trovata, dell’invenzione, il bello della parola, la sua ricchezza.
Ciò accade perché, parlando, la parola non è un tutto unico. La parola come segno, parlando, entra nella tripartizione: nome, significante, Altro. Tre segni in un solo segno, tre funzioni in un solo funzionamento. La parola funziona, ma funzionando ci sono tre funzioni: il nome, il significante e l’Altro. Da questi tre funzionamenti il sapere, il senso e la verità. E ciò è incontenibile e imprevedibile. La chance è nella disposizione a accogliere la comunicazione della parola, quello che già non sappiamo, ma che si può ascoltare e si può intendere. La tripartizione del segno è costitutiva della parola e è inimmaginabile, è ciò per cui la parola non può essere sistematizzata, ciò per cui ciò che si produce non può essere previsto.
Un aspetto importante che procede proprio dal funzionamento è la questione dell’autorità della parola, la lingua dell’autorità. Come interviene l’autorità parlando? Dell’autorità c’è una fiaba, una fiaba che dice che l’autorità è la capacità o la facoltà di farsi obbedire, ascoltare, di prevaricare, di farsi rispettare. Questa non è l’autorità che procede dalla parola, ma è la concezione dell’autorità come principio di autorità che viene dall’ipotesi ontologica, cioè l’essere, in quanto non manca di nulla, ha insita l’autorità per essere obbedito. E in questa concezione dell’essere c’è la questione della gerarchia: chi, per gerarchia, sta al più alto livello avrebbe l’autorità per comandare, per imporre, per essere obbedito, seguito, riconosciuto. Questa è la fiaba dell’autorità scambiata per il potere, il così detto potere dell’uomo sull’uomo, il potere sull’Altro, sulle cose, l’esercizio del potere per dimostrare la padronanza.
Non è questa l’autorità nella parola. L’autorità non è la facoltà di qualcuno, ma è una proprietà della parola: parlando, interviene l’autorità. Addirittura, l’autorità è ciò che consente di non avere paura di parlare, di non avere paura dell’infinito. La questione che passa come la paura di parlare in pubblico è, in realtà, la paura dell’infinito, è la paura dei risvolti imprevisti che può prendere un intervento, esponendo a chissà quali pericoli. La negazione, la reazione all’infinito della parola, comporta allora la paura di parlare, comporta la presunta esigenza o facoltà di tacere, proprio per controllare, per controllarsi, per rispettarsi, non osando.
La questione è lo zero, che a un certo punto è entrato nella matematica per opera, chi dice degli indiani, chi degli arabi, chi degli egizi e che ha consentito alla numerazione di volgersi all’infinito e non più al finito, come era prima della sua introduzione – per esempio, per i latini la numerazione comincia dall’uno e va avanti, perciò, iniziando dall’uno, da un’origine certa, la numerazione è finita e, infatti, il latino è la lingua della certezza – ebbene, lo zero che nella matematica interviene a un certo punto e apre all’incontabile, cioè alla matematica dell’infinito, mentre prima c’era la matematica del finito, quello zero, nella lingua c’era già, nella parola c’era già. Lo testimoniano i Sumeri con la prima lingua di cui c’è testimonianza, la scrittura cuneiforme, dove c’era già la rappresentazione grafica dello zero: zero, uno, intervallo. Nome, significante, Altro. Lo zero nella parola, lo zero da cui qualcosa comincia.
Senza lo zero nulla comincia. Senza lo zero le cose sono. Senza lo zero c’è la lingua dell’ontologia, la lingua dell’essere, la lingua morta. Ma, con lo zero, qualcosa comincia e lì c’è l’autorità. Già lì c’è l’autorità, in qualcosa che incomincia. L’autorità non è ciò che impone la sua governance. L’autorità è esattamente l’indice che qualcosa incomincia e incomincia nell’infinito e, con ciò che incomincia, incomincia anche la forza, la domanda, la tensione, incomincia lo sforzo intellettuale per la qualificazione.
Auctoritas, l’aumento. Ciò che incomincia tende all’aumento, tende, proseguendo, a aumentare. Perché aumenta? Perché ciò che incomincia si dispone ai vari indici della parola, a entrare in una struttura, nella combinatoria, si dispone a scriversi. Questa è l’autorità della parola, e la lingua dell’autorità è la lingua dello zero, la lingua analitica, la lingua senza l’idea di fine, di finalità, la lingua la cui tensione è libera e non è rivolta a qualcosa che deve finire. L’idea di fine toglie l’autorità e favorisce la paura, nega il dispositivo della parola e l’instaurazione della legge, dell’etica e della clinica della parola, che sono i tre compimenti della parola che si rivolgono alla qualità. È una struttura complessa quella della parola.
Di solito, si parla della parola per negarla, pensando di averla in mano. Chi parla della parola non ha esperienza della parola. È vano parlare della parola, importa parlare e, parlando, lasciare che le cose si dicano. E mentre le cose si dicono, si attiva il dispositivo narrativo dell’ascolto, della scrittura, dell’intendimento. La questione intellettuale è questa, non quella psicologica per cui tutti avremmo uno schema cui rispondere e adeguarsi, per rientrare nel caso standard, altrimenti siamo schedabili per anomalia. No, l’anomalia è costitutiva della parola!
Lo zero, l’autorità e l’autore. Qual è l’autore di quel che si dice? Dove sta l’autore? La questione omerica. Chi è l’autore dei poemi omerici? La questione di Shakespeare. Chi è l’autore dei versi shakespeariani? Qual è l’autore, si chiede Pirandello nei sei personaggi che cercano l’autore? Dov’è l’autore, qual è l’autore? Non già l’idea di origine, non già l’idea di appartenenza, ma l’autore, cioè lo zero. Lo zero da cui procede la qualificazione, il senso, il godimento, il dispendio. L’autore è lo zero.
Dove vedere lo zero? È invisibile! Funziona e, se lo zero funziona – e funziona, se non è negato – abbiamo la processualità. Se lo zero è negato, è tolto, allora abbiamo la lingua morta perché è tolto il parlare stesso. Come togliere lo zero? Con l’idea di origine, di fine, con l’idea di sé, delle proprie idee, con l’idea di avere ragione contro un fantomatico avversario che avrebbe torto. Nella lingua dei litiganti, dove vigono le coppie oppositive, lo zero è tolto: uno contro l’Altro. Dove il due è tolto abbiamo la lingua degli opposti: bene contro male, alto contro basso, dentro contro fuori. Non già la lingua dell’ossimoro, da cui le cose procedono per qualificarsi, ma la lingua delle opposizioni, delle contrapposizioni, la lingua della guerra. E dove non c’è la guerra? Dove? La guerra c’è nelle coppie, nelle famiglie, nelle istituzioni, negli apparati… Dove non c’è guerra?
Nella lingua della parola non c’è guerra, ma non perché si trovi l’accomodamento o l’appianamento o il compromesso, ma proprio perché non ce n’è bisogno. Non c’è la necessità che uno vinca e l’Altro perda nella lingua dell’autorità. Certo, senza autorità avviene la rappresentazione di chi è più forte, più prestante, di chi deve stare sopra al più debole, contro chi è più sotto, contro chi deve perdere. Vincere o perdere. Chi sa dove sta la vittoria nel dispositivo della parola in cui si tratta del valore, in cui l’avvenire deve ancora scriversi?
Allora, la questione è come combattere, come fare, come vivere secondo la parola e le sue virtù, accogliendo la parola, le indicazioni della parola, l’augurio della parola che è variante dell’autorità e dell’autore. Impossibile negare l’augurio, si tratta di accogliere, lasciare che si scriva. Certo, occorre fare, occorre non opporsi allo sforzo costruttivo, allo sforzo della domanda che tende al valore. Occorre non opporsi alla tensione.
La lingua del vocabolario dice che lo sforzo è male, che la tensione è male. Lo chiamano stress, lo stress patologico! Nel vocabolario la tensione è addirittura male, patologia. Quale educazione senza stress, senza tensione? Quale formazione senza tensione, quale educazione senza il “non” dell’avere e il “non” dell’essere? Quale istruzione, educazione, quale formazione? Il toglimento della parola, dell’autorità, dell’abbondanza, il toglimento del funzionamento della parola con il suo “non”, porta all’appiattimento, all’eliminazione dell’educazione, della domanda, dove ognuno accampa il suo diritto a qualcosa. Ma, come? Senza combattere, lottare, chiedere? Paradossale, assurdo! E con la lingua algoritmica è constatabile che avviene così. Basta ascoltare il telegiornale, leggere i giornali e possiamo seguire, giorno per giorno, la vicenda della negazione della parola.
Noi combattiamo, invece, perché non ci sia la negazione della parola e proponiamo la lingua della parola come la lingua dell’autorità. Così e con altri modi che seguiremo a indicare e a testimoniare in altri prossimi appuntamenti.
Terza conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola