La lingua dell’annunciazione
Buonasera. State comodi? Siete comodi? Lei si è portato il cuscino per stare più comodo. Forse prevedeva qualche scomodità e non aveva torto, ma non è detto che col cuscino la cosa diventi comoda, né la sedia né la cosa.
La comodità. Comodo, scomodo. Un’idea di alternativa, un’idea di padronanza. La cosa è scomoda e la facciamo diventare comoda, ci accomodiamo sulla cosa, padroneggiamo la cosa perché diventi comoda. La comodità è idea di sostanza, l’accomodamento è idea di sostanza, di padronanza, di gestione della cosa. Al pazzo proponevano l’accomodamento, ma il pazzo non sopportava l’idea di accomodamento. L’accomodamento toglie la forza, così dice il pazzo a chi lo vuole salvare dalla pazzia, dall’anomalia, dalla morte certa, dalla malattia certa, salvare dalla certezza.
Ognuno ha una certezza e che se ne fa? Ognuno ripone nella sua certezza la sua salvezza perché ognuno punta a salvarsi, a salvarsi dalla sorte avversa, dalle dicerie, dalle etichette, dal rio destino. L’idea di salvezza è idea di sostanza, è accomodamento. L’accomodamento, ossia l’ipotesi della comodità. Come trovare la comodità? Con l’accomodamento! Occorre trovare un compromesso, una mediazione, una sostanzializzazione che renda le cose stabili e, quindi, accomodabili, accomodanti, accomodate. Le cose stabili sono quelle su cui ci si può accomodare.
Come accomodarsi sulle cose instabili? Come accomodarsi sulla parola? La parola non si presta a nessun accomodamento e a nessuna sostanzializzazione, eppure ognuno si rappresenta la parola per cercare di controllarla, dirigerla dove possa risultare meno scomoda. Il soggetto sostanzialista, ossia ognuno che tenti di negare la parola si accomoda sulla sostanza, cioè su ciò che potrebbe costituire il fondamento e rendere la parola stabile, ferma, immutabile e questo diventa l’alibi alla parola, l’alibi alla vita: l’alibi della sostanza.
Posta la sostanza come fondamento, la domanda si volge in domanda di essere, di cosa essere, di cosa diventare per non contraddire il mandato dell’origine, il legame con l’origine, per restare fedeli e consoni all’origine, al popolo, alla cerchia, coerenti, collegati, consustanziali con il proprio popolo, con la propria origine. Ma la domanda, ciascuna domanda, rispetto a questa consustanzialità, è disturbo, disturbo che non tollera rimedio!
Prendiamo il caso della domanda tanto temuta da alcuni: “Che cos’è la cifrematica?”. Domanda che certamente assilla il soggetto sostanzialista, il soggetto che si ritiene preposto a dare la risposta esaustiva e, siccome la risposta sostanzialista alla domanda sostanzialista deve essere definitiva, esaustiva, allora nessuna risposta può essere azzardata, perché risulterebbe imprecisa, imperfetta, insufficiente rispetto all’ideale di completezza che la risposta deve avere per giungere a qualificare l’essere finalmente localizzato, controllato nella sostanza. La rappresentazione della risposta esaustiva toglie l’audacia di affrontare la prova, di azzardare l’ipotesi. La risposta ideale, la risposta già data, la risposta sostanziale non può essere certamente contraddetta da una risposta qualunque, imprecisa, balbettante: la risposta autentica, la risposta indicativa di ciò di cui si tratta!
La parola, la sua logica, la sua esperienza. Come volgere la parola e l’esperienza in definizione? Come sostanzializzare la cosa? Come descrivere la parola che diviene cifra? Come dare la fotografia della cosa, l’essenza della cosa, il valore della cosa? Come dare la cifra della cosa? Come dare la sostanza della cifra? Come spiegare la parola, la sua esperienza, la procedura, la logica? Come spiegare? Come spiegare l’inspiegabile? Come togliere la piega, come abolire il racconto? Come restituire l’esperienza, volendo descriverla, spiegarla? Spiegare a chi? Spiegare perché? Descrivere, parlare, raccontare, narrare possono togliere il sogno della parola? Possono togliere la metafora, la metonimia, la catacresi? Sì, in nome della purezza del senso, della purezza del sapere, della completezza della spiegazione, della totalità dell’etichettatura, in nome della verità confessata.
Come dire la verità? La verità della cosa, la verità dell’esperienza, la verità di sé, la verità dell’Altro? Dire la verità, confessare la verità in nome del nulla, della purezza del nulla, perché l’Altro, l’Altro che sa, potrebbe sanzionare l’incompletezza, l’impurezza, l’imprecisione, la fabula, la metafora, la metonimia, la catacresi in nome della corretta versione dei fatti. Ecco come il giudiziario si impone alla parola: in nome del racconto ideale, in nome del racconto dei fatti! Il racconto ideale, la descrizione ideale in nome dell’oggettività garantita dal garante universale, cioè il nulla. Come rispondere alla domanda inquisitoria? Ma la domanda non è inquisitoria, la domanda va in direzione della cifra, la domanda instaura l’interlocuzione non l’interrogatorio, procede dall’apertura e va in direzione della qualificazione, non della chiusura, non dell’oggettività, non della rendicontazione.
Glossario e dizionario si instaurano con la domanda, non con la lingua unica. La domanda instaura l’annunciazione, la lingua dell’annunciazione, il dispositivo dell’annunciazione che è la conversazione. Togliere l’Altro dalla conversazione? Fare dell’Altro l’inquisitore? È la soggettività inquisitoria, sociale, è la soggettività tout court, è l’idea di sé imperante, è il canone di sé. L’idea di essere è la negazione dell’idea come operatore, come connessione, in direzione non dell’essere o dell’ontologia, ma in direzione della scrittura delle cose, di come le cose si scrivono, dove si scrivono e come, scrivendosi, si qualificano, si valorizzano. E valorizzandosi non c’è nulla da temere, non c’è da assumere nessun personaggio, non c’è da mantenere nessun riferimento al passato, all’origine, all’essere, all’idea di sé, all’idea dell’Altro.
L’idea dell’atto è la negazione dell’atto, l’idea dell’avvenire è la negazione dell’avvenire. Pensarsi, credersi, vedersi: “Eh, ma io mi vedo già come sarò, come farò, come non sarò, come non sarò in grado, mi vedo, mi vedo finito”. Pensarsi, vedersi, credersi sono ipotesi di fine del tempo, consacrazioni dell’idea di fine del tempo, cedimenti all’idea che il tempo sia finito o che possa finire non riuscendo a spiaccicare parola, non riuscendo a dire, perché dire dovrebbe soddisfare la domanda inquisitoria dell’Altro inquisitore.
Ognuno si pensa in un tribunale, si rappresenta in un tribunale oppure in un ospedale se non addirittura già in un cimitero, e ognuno può credere di credersi, può pensare di pensarsi e ritenere che questa sia la realtà, la realtà oggettiva. No! Questo è il cedimento all’idea di fine del tempo, all’idea di appartenenza all’origine che fa pendant con l’idea di fine. Togliere l’Altro, togliere il tempo, negare la parola, negare l’Altro, negare il tempo. L’idea negativa non è un’idea, è la negazione dell’idea. L’idea opera per la scrittura e non c’è idea negativa. Ogni idea negativa è la negazione dell’idea e esige di essere analizzata, non creduta, accettata, subita. Ogni idea negativa è la negativa del tempo, è l’applicazione alle cose dell’idea di fine del tempo e, allora, le cose finiscono, sono già finite. L’idea negativa interviene perché qualcosa non avvenga, non perché la cosa è negativa, ma perché non avvenga qualcosa che metta in discussione l’idea di sé, la rappresentazione di sé.
Come negare il corso della domanda, lo svolgimento della domanda, l’attuazione della domanda? Pensando alla soluzione! La soluzione di chi sembra non accontentarsi di qualcosa perché vuole qualcosa di risolutivo, subito! Senza il tempo, senza lo svolgimento, subito! Senza il corso, subito! Senza la direzione, subito! E così è negato l’atto e l’attitudine. Negando l’atto è negata l’eventualità dell’incontro e, quindi, l’incontro è tolto, abolito, non ci sarà più nessun incontro.
L’idea di sé, la certezza di sé, la rappresentazione di sé, la padronanza di sé sono gli alibi contrapposti alla memoria, alla scrittura e strutturazione della memoria. La memoria esige il tempo ma, togliendo il tempo, è tolta la memoria e affiorano i ricordi, i ricordi di “Quando, una volta…”, di quando non c’era l’idea di sé. Si cercano i ricordi per salvarsi dall’idea di sé e, negando la memoria, ognuno si affida volentieri alle memorie, alle sue memorie, ai suoi ricordi, a com’era un tempo, alle proprie certezze e convinzioni per non correre il rischio della domanda, per non correre il rischio di verità, il rischio della risposta. Per non correre il rischio ognuno si affida alla visione ideale, all’idealità, a “Come sarebbe bello se le cose fossero così”.
Vedendosi nell’ideale, pensandosi nell’ideale, ognuno si rappresenta, in realtà, nell’aldilà, in un mondo migliore, in una vita migliore, non nell’oltre, proprio per non correre il rischio della prova di verità, la prova dell’oltre: oltre il fantasma materno, oltre l’idea di fine, oltre l’idea di sé, oltre la certezza di sé, oltre lo sbarramento, oltre la cerchia, oltre la definizione. Oltre la lingua del vocabolario, quindi nella lingua del glossario e del dizionario, nella lingua dell’invenzione, dell’arte, della valorizzazione delle cose che si scrivono, non delle cose che sono già scritte, già pensate, non come possono essere pensate da qualcuno, non come sono, ma come si scrivono e come divengono. Le cose non sono, non sono mai, avvengono, divengono, accadono, ma non sono.
La negazione dell’atto procede dall’idea di gravità; le cose gravi, che pesano, che segnano. Ma l’atto è originario e la gravità degli atti, delle cose, del giudizio, la gravità è la negazione dell’originario. La gravità sarebbe ciò che segue al taglio della relazione, come se l’apertura, che è data da legame-slegame, tagliata, diventasse o tutto legame o tutto slegame. La gravità è intesa come rottura, rottura del due, rottura della relazione, come taglio del due.
La lingua dell’annunciazione è la lingua dell’attitudine, esige la linguistica dell’atto. Ci sono due modi in cui l’attitudine viene intesa banalmente, cioè esigendo il soggetto, la soggettività. Una è l’attitudine come inclinazione naturale, adattamento, propensione; sarebbe una forma di soggettività che si manifesta come indice dell’idoneità, dell’abilità naturale, innata, attitudine a fare questo, a fare quello, attitudine a un certo tipo di studi, a un certo tipo di attività, a un certo lavoro e non a un altro, inclinazione, sarebbe la deportazione naturale, chi è portato per qualcosa. L’altro modo sarebbe l’attitudine come atteggiamento, che è parente della personalità, anche qui in un’accezione psicologica, banalizzante. Mentre la prima attitudine sarebbe quella per cui qualcuno è adatto a fare qualcosa, l’altra attitudine sarebbe quella per cui qualcosa è stato fatto e perciò c’è attitudine a quella cosa. L’atteggiamento indica che c’è attitudine, ma, sia in un caso sia nell’altro, è tolto l’atto, l’attuazione, il modo in cui le cose entrano nell’atto e non sono già attuate, perché non c’è attitudine senza l’annunciazione, senza il dispositivo dell’annunciazione, che esige la conversazione, la narrazione, il racconto. Dispositivo in cui il programma e il progetto dispongono le cose all’attuazione che, quindi, non è né naturale né personale né soggettiva: non c’è il soggetto dell’attuazione, ma il dispositivo dell’attuazione! Non c’è il soggetto dell’attitudine ma il dispositivo dell’attitudine!
Nessuno è adatto, abile, idoneo per natura, senza il dispositivo dell’annunciazione, senza l’annuncio. Senza che le cose entrino nell’arca, nella struttura, come possono disporsi all’attuazione? Questo esige la disposizione, la generosità, l’umiltà, perché l’atto è originario, non è imparabile, non è assumibile. Non è questione di soddisfazione se le cose avvengono. Che la domanda si rivolga alla cifra non è questione di soddisfazione, non è questione di volontà né di volere. “Io so cosa voglio e quindi questa cosa non la faccio perché non rientra nelle mie previsioni, nelle mie esigenze, nelle mie certezze, nell’idea che ho di me. Potrò farla, ma in un altro momento, quando saprò farla, quando potrò farla, quando la mia idea di me e la mia idea delle cose corrisponderanno, saranno un tutt’uno, quando questa sarà un’esigenza di soddisfazione”. Le cose non procedono dalla soddisfazione. L’istinto, il desiderio, il bisogno non si definiscono in base alla soddisfazione né traggono soddisfazione dagli atti o dai fatti. Il sogno non è mai soddisfatto e, già lo notava Freud, per via del suo ombelico, non giunge mai alla sua soddisfazione completa, alla verità che ne rappresenterebbe la significazione. Nessuna significazione del sogno, nessuna significazione della domanda, nessuna significazione dell’istinto, del desiderio, del bisogno. Nessuno ha bisogno, nessuno ha desiderio, nessuno ha istinto di qualcosa.
L’umanizzazione – o, meglio, l’animalizzazione, la banalizzazione, la psicologizzazione, il toglimento della parola riducendo la domanda alla coscienza – ha potuto lasciare credere che il desiderio sia indice di una mancanza di qualcosa, e quindi è desiderio di quella cosa, e così l’istinto e il bisogno. Questa è la rappresentazione della modalità delle cose che finiscono per soddisfacimento. Ma l’atto non finisce, le cose non finiscono, la domanda non finisce, la soddisfazione non finisce, non tura una falla, non c’è questo positivismo della domanda e della soddisfazione, non vige pulsionalmente il principio del piacere per cui il piacere sarebbe noto e si tratta di fare ciò che dà piacere. Desiderio e istinto sono paradossi, paradosso dell’equivoco l’istinto, paradosso della menzogna il desiderio. Paradossi che mai si risolvono, che mai finiscono, che mai possono essere controllati, padroneggiati, soddisfatti sostanzialmente. L’idea del soddisfacimento, come soddisfacimento del desiderio, dell’istinto, del bisogno, è un’idea drogologica, psicologica, è un’idea demonistica che parte dall’idea della possessione. Il desiderio non è mai soddisfatto, l’istinto non è mai soddisfatto, il bisogno non è mai soddisfatto.
Il lancio e il rilancio della domanda indicano proprio questo, che la domanda non finisce, che il sogno non finisce e non è mai finito. L’ombelico del sogno, quello che Freud chiamava l’ombelico del sogno, è il suo incubo, l’indice dell’infinito, l’indice dell’odio, l’indice della mens. Il desiderio non è gestibile in nome della mancanza nota, in nome della desiderabilità, non è una proprietà del soggetto, non è coniugabile, ma è l’indice del paradosso della menzogna, quindi del funzionamento. Qualcosa funziona nella domanda e in questo funzionamento si instaura il desiderio e così l’istinto. Non c’è sostanza che possa dare la fine delle istanze della parola. Non c’è pericolo di fine! Questa è la questione, questo dice la lingua dell’annunciazione, ma occorre che non sia negata, che non prevalga la paura come rappresentante dell’idea di sé, della finitezza di sé, del cedimento alla finitezza di sé. Occorre interrogare gli indici della parola quando si pongono, occorre interrogare le questioni che si pongono, occorre azzardare ipotesi, risposte, illazioni, proposte, in direzione della qualificazione. Come avviene la qualificazione senza la molteplicità, senza che la molteplicità si scriva, senza che la memoria si scriva, senza che il disturbo si scriva e non si rappresenti nell’idea di sé?
Quarta conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola