La lingua della volontà e il giro della morte
Il momento è propizio perché il mare non sia più la metafora del naufragio e non sia più rappresentante del mondo nascosto popolato dai cadaveri, ma avvii piuttosto la fabula dell’approdo. Il mare, la navigazione, l’approdo. L’approdo, navigando. Navigando, viaggiando, facendo. La navigazione esige lo sforzo. La navigazione, all’insegna della ricerca, dell’esplorazione, all’insegna del rischio. Navigando, il rischio. Rischiando, l’approdo.
Oggi, la navigazione ha svilito i termini che l’hanno caratterizzata, anche storicamente, come modo del viaggio, della ricerca, della trovata, dell’invenzione. L’invenzione dell’America avviene navigando. Colombo inventa l’America navigando. Oggi, la navigazione è all’insegna dell’algoritmo, cioè della metafora della volontà dell’Altro nascosto, contrapposto all’Altro manifesto, all’Altro evidente che non esige la ricerca ma la manifestazione di sé, la conferma dell’idea di sé, la realizzazione dell’idea che passa per la testa, della testa con ciò che ci sta dentro. Ma, il viaggio, la navigazione esigono lo sforzo, esigono il rischio, esigono la conversazione, la narrazione, il racconto. Esigono il dispositivo del viaggio che si fa della parola e dei suoi modi, nel gerundio: conversando, narrando, raccontando. Allora, le cose si scrivono.
Il viaggio non si fa per confermare l’idea di sé o l’idea dell’Altro, per dimostrare l’idea di sé con tutte le negatività, le pecche, le impronte, le stigmate dell’origine, della famiglia intesa come la famiglia di origine. L’idea di sé si conferma nel giro della morte, il giro dall’origine alla fine. Il giro della morte: il giro dei pensieri, delle pensate senza attraversamento, senza viaggio. Il giro dei pensieri applicati, dei pensieri che diventano automaticamente sapere e verità. Il giro della morte, il giro dall’origine alla fine, dimostrando la predestinazione in cui ognuno si crede votato: predestinazione dell’origine, predestinazione della fine, predestinazione al negativo. Nel giro della morte nulla si scrive perché regna l’attesa che si compia l’idea negativa, la negatività su cui ognuno si fonda come soggetto. La negatività diventa prescrizione dell’attesa e il soggetto si distingue per attendere, per evitare tutto ciò che può mettere in questione e in discussione la negatività, che è il suo fondamento. Evitamento della parola, del dire, del fare. Evitamento del testo.
Il testo che si dice, il testo di ciò che si dice è enigmatico. Il testo che si scrive, il testo di ciò che si scrive è enigmatico. L’onirico è enigmatico, la struttura è enigmatica. Nulla di misterico o di misterioso. Nulla di arcano o di nascosto. Enigmatico! Ciascun elemento è enigmatico. Il misterico, il misterioso, l’arcano possono appellarsi a un sapere che il daimon, o l’Altro inteso come daimon, o la divinità intesa come daimon può custodire, celare. E quindi rivelare. È vano formulare quiz per sciogliere l’enigma che resta inevitabile e indecifrabile. Il testo esige l’ascolto, la lettura e la scrittura. Esige la cifratura verso un altro testo. Non certo la decifrazione.
Perché la “lettura” del testo? Perché la lettura rilascia l’enigma della differenza sessuale, non rileva la spiegazione della differenza sessuale. Rilascia l’enigma, l’enigma della questione intellettuale, del vivere, della sessualità. L’enigma che giova all’intendimento lungo le vie del fare. L’evitamento del pragma, del fare, del dispositivo pragmatico vanifica la parola e l’esperienza, abolisce la ricerca e l’impresa. Nega la ricerca e l’impresa perché realizza il pregiudizio di sé togliendo l’Altro, togliendo la struttura che si scrive e ciò che nella struttura si scrive. Abolizione della memoria e esaltazione dei ricordi. I ricordi di sé, i ricordi dell’origine, i ricordi che realizzano ogni idea di sé. I ricordi tolgono la forza. Perseguendo i ricordi, abbiamo la stanchezza, l’inerzia. Abbiamo l’idea del nulla che deve rappresentare il modo di vivere.
La parola, il suo testo, la sua scrittura non sono sottomessi al principio dell’utilità e della finalità. A che scopo, a quale fine io dovrei fare questo e quell’altro? Rischiare questo e quell’altro intendendo l’utilità e la finalità come il lasciapassare del testo? Il testo avrebbe senso in quanto utile e finalizzato all’utilità prevista e approvata.
Il giro della morte, il giro della predestinazione, il giro del sapere sull’utilità e sul fine. Sapere ciò che si è: negazione del tempo e del divenire, negazione della parola e dell’effettualità. Stabilità emotiva, ideale, inerziale. Fissità, immobilità, soggettività. La soggettività è immobile.
Il futile e il frivolo del testo sono fiori, frutti della fluenza del testo, della superfluenza che é il modo del tempo. Il futile, il frivolo giovano alla scrittura del testo con la scrittura dell’esperienza, scrittura del viaggio, cioè scrittura non soggetta alla prescrizione di ciò che deve accadere. Il soggetto presume di sapere ciò che deve accadere, di come devono andare le cose e sottopone le cose alla prescrizione del giro della morte, alla negazione pragmatica. È la celebrazione di sé e dell’idea di sé. Celebrazione dei limiti, delle pecche, dei deficit e delle deficienze soggettive. Il soggetto è deficiente per antonomasia, per definizione. Manca sempre di qualcosa. Manca di ciò che idealmente dovrebbe essere, o raggiungere, per sapere e potere fare in modo conforme, per rispondere alla conformità.
Ma il testo non finisce. Il testo non è mai finito. Il dispositivo non è mai finito nonostante ogni rappresentazione soggettiva, nonostante ogni idea di finitezza che il soggetto getta dinnanzi a sé per indursi a accettare la morte bianca, la morte della parola. Il testo prosegue con la cifratura di quel che si dice e si scrive. Prosegue con l’altro testo. Il processo è infinito, senza stanchezza e senza idea di fine. Il processo intellettuale è il processo senza idea di fine. La qualificazione non è mai finita. Sta qui il disturbo della parola. Processo infinito, strutturazione infinita. Produzione infinita, acquisizione infinita. Ma non per il soggetto che deve imporre la sua legge della sufficienza. La sufficienza di sé, contrapposta al rischio della parola.
Il testo si cifra, la parola si cifra. La questione intellettuale procede per cifratura, non per decifrazione. La tentazione sostanzialista invoca la decifrazione del messaggio, dei segni per capire qual è la verità dei segni. L’idea di decifrazione è sorretta dall’idea di svelamento. È l’idea di rivelazione, idea apocalittica. Cosa può essere svelato? Forse la verità come verità ultima? La verità che costituisce il destino nascosto? Nascosto, ineluttabile e comune per gli appartenenti al ghenos? Agli appartenenti all’origine comune? Al popolo dell’origine comune? Come è giunta a affermarsi l’idea che la verità debba essere svelata o rivelata? E chi può fare la rivelazione? Chi può attuare lo svelamento?
La decifrazione è atto divinatorio, è mantica, arte della previsione. Prevedere le cose, prevedere la fine è lo sport preferito dei comuni mortali. Prevedere quando sarà, come sarà la fine. Premunirsi per la fine, per gestire la fine. Gestire la vita con l’idea di fine. La decifrazione poggia sull’idea del tempo che finisce. C’è un tempo finito, per cui la decifrazione comporta la verità del testo, la fine del testo, il codice del testo, la verità nascosta nelle cose. La verità nascosta, ideale, ultima, la verità della fine che può essere solo rivelata. Quindi, la credenza nella decifrazione è credenza nel fondamento che possa essere rivelato, è credenza nel fatto determinante, è credenza che indica il privilegio di potere sapere e capire i segni della volontà del daimon. Il daimon ha accordato a qualcuno il privilegio di svelare i segni, di svelare la verità, di sapere la verità sui segni; il disegno del daimon, il disegno dell’ente superiore.
Capire la lingua del daimon. Svelare la volontà del daimon. Svelare, capire per svelamento, per rivelazione. E ognuno mira a essere un rappresentante di tale privilegio, che assicura senza sforzo la rivelazione. Basta aspettare, e l’ente, la divinità, il daimon, il buon padrone manifesterà la sua predilezione, la sua bontà. Basta aspettare e si saprà come fare, si saprà il da farsi, ciò che si deve fare. Si saprà ciò che si può fare d’accordo con il daimon, d’accordo con il nulla in assenza di programma, di progetto e di domanda. Tutte complicazioni che esigono lo sforzo, la questione intellettuale, il dispositivo, la navigazione. Che esigono di andare oltre l’alto mare per giungere all’approdo.
Ognuno che si ispira alla decifrazione – cioè al codice ante litteram, preesistente, cui il testo sarebbe conforme – insegue la superstizione della sostanza, del controllo sulla sostanza, della padronanza sulla sostanza. La decifrazione sarebbe all’insegna della padronanza finalmente riuscita sulla sostanza, che svela la sua natura, la sua essenza, la sua verità, la sua sostanzialità grazie al daimon e alla sua benevolenza. Dunque, la decifrazione è nella costellazione dell’idea di bene e della finalità di bene, dell’idea di fine e della finalità del tempo che finisce. Per conseguire la decifrazione è chiaro che occorre partecipare al disegno divino, alla finalità del disegno divino, alla finalità del bene del daimon, essere inscritti nella schiera dei sudditi del daimon, i sudditi del nulla.
Decifrazione e analisi sono incompatibili. La decifrazione nega l’analitico. L’idea di decifrazione nega la questione intellettuale, nega la parola, la logica e la struttura, nega la scrittura, nega ciò che avviene. Per la decifrazione le cose sono già avvenute, la verità è già scritta, il testo è finito. Quindi, la decifrazione nega l’analisi e le virtù del principio della parola; nega la parola se non come parola del daimon, la parola detta dal daimon, la parola che indica la volontà di bene del daimon, parola che significa la volontà superiore. Ogni suddito aspira alla volontà superiore e si realizza nel seguire la propria volontà come volontà superiore, la volontà del giro della morte.
Così si può capire, forse, la delega che è attribuita alla volontà, alla propria volontà, alla volontà di sé, alla volontà soggettiva: la volontà di vivere, di morire, di capire, la volontà come misura del possibile potere sulle cose. Infatti, è noto il detto “volere è potere”. La volontà di potere, diceva qualcuno, il potere della volontà, diceva qualcun altro.
In un mondo senza la parola, popolato da soggetti rappresentanti del daimon, rappresentanti dell’entità ideale superiore che nega la parola, è resa funzionale la volontà di bene, la finalità di bene. Idea di bene che è sempre bene ideale. Un ottimo pretesto per giustificare i propri limiti.
Dove si dirige la volontà? A cosa si rivolge la volontà? Da chi è diretta la volontà? Chi è padrone della volontà? La volontà rappresentata come entità, presuppone il padrone della volontà, il soggetto della volontà: voglio-non voglio, cui segue posso-non posso, so-non so, debbo-non debbo. La libertà del soggetto oscilla fra le due contrapposizioni che indicherebbero la libertà di fare o non fare, di volere o non volere, di sapere o non sapere, di dovere o non dovere.
Con il soggetto, la volontà si sdoppia tra la volontà di bene e la volontà di male, tra il soggetto buono e il soggetto cattivo, tra il soggetto da premiare e il soggetto da punire. E, allora, per il mondo dei soggetti si pone la questione di come gestire il male e il bene, e come gestire la volontà di bene e la volontà di male. Ma, per ognuno, il fine superiore è il fine di bene: chi sbaglia può redimersi, chi fa il male può redimersi. E come? Espiando e penitenziando.
Lo sdoppiamento della volontà, secondo il principio di non contraddizione, istituisce la volontà penale e la volontà penitenziaria. E il destino sdoppiato è l’Ananke: punizione e costrizione, necessità del fato o del destino, organizzato o rivelato da un dio nascosto o rivelato. Inutilità della ricerca e attesa della rivelazione. Ricerca della punizione e della penitenza per l’espiazione, per la redenzione. Perché la colpa è l’origine comune.
Nessun soggetto può ipotizzare il conseguimento della finalità di bene senza espiazione, punizione, redenzione, penitenza. E ognuno, conforme all’idea di sé, come soggetto, si dispone alla successione di queste modalità. Ognuno può interrogarsi sulla misura in cui accetta la predestinazione dettata dalla volontà penale e dalla volontà penitenziale. Pena e penitenza. L’Ananke esige l’applicazione della pena e della penitenza.
Nessuno ammette di accettare la predestinazione, di credere nella predestinazione. Nessuno ammette di accettare l’algoritmo algebrico o geometrico che lo guida nella scelta secondo la volontà di bene, ma l’algoritmo sta lì. Nessuno ammette di accettare la categorizzazione, l’idea di predestinazione al bene. E, tuttavia, ognuno tenta di attuare la misurazione e la ripartizione fra ciò che è bene e fra ciò che è male. La valutazione comune è su questo: quanto bene e quale bene, quanto male e quale male. E sulla quantificazione del bene e del male, ecco la volontà penale e la volontà penitenziaria.
Ognuno si rivolge al bene. Come? Evitando il male e la relativa condanna. E persegue la così detta socialità, il perseguimento del bene comune, evitando il male, l’idea di male, il male di sé, il male dell’Altro, il male comune. Ma, il proprio bene è il bene comune? Perseguire il proprio bene è perseguire il bene comune? Per ognuno vige l’automatismo della superstizione. Automatismo della condanna, del giudizio morale, del giudizio universale. Automatismo del giudizio come se il giudizio fosse la definizione del bene e del male. Di quanto di bene e di quanto di male è insito nell’atto, nell’azione.
Secondo la predestinazione, secondo questa visione delle cose, ognuno si fa supporto della volontà penale e della volontà penitenziaria. E giudica in conformità alla volontà, tolto l’Altro, tolta la parola. Tolta la parola perché nella parola il giudizio è il giudizio dell’Altro. Perché il giudizio non verte sull’alternativa fra il male e il bene, non è il giudizio sulla relazione originaria. Il giudizio viene dalla molteplicità, viene dalla struttura del sogno e della dimenticanza. È il giudizio della combinatoria senza superstizione, senza l’applicazione dell’idea di sé cui conformarsi e dell’idea dell’Altro.
Ognuno si assegna la pena e la relativa penitenza secondo il rispettivo algoritmo, e trova che sia l’una sia l’altra sia meritata e giusta. Giustizia della pena, giustizia della penitenza. Giustizia penale e giustizia penitenziaria. Non già giustizia secondo provocazione, secondo identificazione, secondo la profezia, secondo la promozione, secondo la causa. No, quella è abolita. Ognuno abolisce l’oggetto. Facendosi soggetto, esponendosi alla predestinazione, ognuno abolisce l’oggetto, abolisce la causa. La vuole controllare, giudicare, espellere, espellendo l’arcobaleno della giustizia che è il modo con cui l’oggetto interviene. Ognuno, così, si fa vittima della giustizia penale o penitenziaria e si definisce, si degrada, si deprime, si euforizza, si fa padrone e artefice del proprio destino. Così recita il famoso detto della soggettività, l’esaltazione della soggettività: ognuno è artefice del proprio destino, sceglie il suo destino. Certo, abolendo la parola!
Confiscandosi la parola ognuno accetta il suo destino predestinato. E si chiama ora fortunato ora sfortunato. Ognuno si fa reo confesso, o penitente, o entrambi. E si ammala per giustificare la predestinazione, che non sa da dove arrivi, ma che non può non accettare, perché altrimenti non potrebbe situarsi socialmente. Non potrebbe sopportare la solitudine se si vota alla socialità, al principio unitario, al principio algoritmico. Ognuno, allora, preferisce farsi malato mentale, esponente della malattia mentale. Ogni malattia è malattia mentale su questi presupposti. Ognuno confessa i segni e i sintomi che sarebbero indicativi e indicatori della malattia. Ognuno deve pur giustificare il negativo in cui crede. E i sintomi lo aiutano, così si fa malato e si inscrive nella socialità, nella società, nella comunità, nella sua origine. Entra nel giro della morte, è contento, non avrà più pensieri, se non quelli per cui definirsi.
Come definirsi? In modo positivo o in modo negativo? Pensieri di bene, pensieri di male, pensieri di fine. I pensieri di bene e di male sono pensieri di fine. Ognuno si dà malato, malato per non fare e malato per fare, per fare quello che può, per non fare quello che deve, per fare quello che sa, per non fare quello che non sa, per fare senza rischiare, per non fare ciò che lo esporrebbe al rischio. E così si penitenzializza. Ognuno si fa penitente, si fustiga col suo cilicio, rispettando il regime penitenziario delle visite fiscali. Ognuno elegge il suo custode, il suo controllore in nome della socialità: chi deve firmare il lasciapassare, chi deve vidimare il lasciapassare. E sul modello della visita fiscale che può sempre arrivare, ognuno si limita, si ausculta, si valuta, si assolve o si condanna, si trova pronto o più facilmente non pronto, non idoneo, non fatto, non formato. Il giudizio di conformità non è ancora sicuro. Deve aspettare, espiare e purificarsi ancora. La purezza è l’idea per garantire la conformità a livello dell’idealità.
E così, ognuno cede all’algoritmo, alla volontà dell’Altro nascosto, alla volontà di bene, quindi, non alla volontà di chiunque, ma alla volontà di bene dell’Altro nascosto, in attesa che divenga l’Altro rivelato. E si giustifica rispetto alle valutazioni, all’idea di sé, chiedendosi, con mente algoritmica, se è conforme alla volontà dell’Altro nascosto. E così ognuno cede alla volontà dell’Altro nascosto. Cede alla volontà comune, alla volontà algoritmica. Cede all’idea normativa o purgativa per entrare nella accettabilità del pensiero dell’Altro o del pensiero altrui, per entrare nella conformità, per conseguire il sigillo di conformità sociale.
E così, per questa via facile-facile, semplice-semplice, banale-banale, conforme-conforme, ognuno per definirsi accetta la terminologia assurda del pregiudizio psichiatrico. Ognuno parla di sé, parla dell’Altro, parla delle cose con la lingua del pregiudizio psichiatrico, negando la questione intellettuale, negando le virtù e l’esperienza della parola e attenendosi al pregiudizio psichiatrico come indicativo del pregiudizio di sé, del pregiudizio su di sé, del pregiudizio dell’Altro, del pregiudizio sull’Altro.
Qual è la massima aspirazione di chi aderisce al pregiudizio psichiatrico? È l’etichetta. È la depressione come etichetta del male dell’Altro che giustifica ogni cedimento. L’etichetta di depressione assolve a ogni cedimento. Il soggetto incapace, debole e malato è assolto da ogni cedimento perché è sempre depresso. È soggetto senza la parola, è soggetto algoritmico governato dalla volontà dell’Altro nascosto. È il soggetto posseduto dall’Altro che aspira a essere posseduto dal bene. Soggetto posseduto dall’idea di bene e dall’idea di male. È posseduto. Nulla può fare. È il soggetto pensante, posseduto dall’idea, posseduto dai pensieri resi azione. Pensieri che diventano sapere su di sé. Ogni idea è idea agente, è la verità su di sé e sulle cose.
L’analisi deve ancora entrare nella socialità. Il principio sociale è espunzione dell’analisi. Il principio comunitario è principio di espunzione dell’analisi, del rigetto, del rifiuto dell’analisi. È accettazione del criterio algoritmico. La depressione è il passaporto per annoverarsi fra gli abitanti dell’epoca, per stare a proprio agio tra gli abitanti dell’epoca, tra i veri figli dell’epoca, figli del daimon, figli segnati dall’epoca.
Ogni figlio, ogni vero figlio, ogni bravo figlio porta il segno della vittima. Così agisce la modalità algoritmica, la modalità delle cose condivise e condivisibili, le cose medie, la medietà, la mediocrità diffusa indice della volontà dell’Altro nascosto, la volontà media. Sono queste le caratteristiche della società algoritmica, governata dal giudizio dell’Altro, da ciò che è ritenuto l’Altro, la volontà dell’Altro, l’Altro inteso come macchina telepatica.
Questa è la psicotizzazione sociale. È la società dei social, la civiltà sociale, del giudizio sociale, della lingua sociale senza la parola, senza la parola intellettuale che è la questione della parola, dove la qualità è l’alimento di ciascuno e non dove l’alimentazione deve essere di qualità ma, bensì, dove la qualità è l’alimento! Il modello sociale è il modello animale dove vige la macchina telepatica senza lingua e senza parola, dove il pensiero realizza la cosa comune, dove l’idea è già comunicazione, l’idea di sé è già comunicazione, è già statuto di sé perché la macchina telepatica sostituisce il dispositivo.
L’algoritmo sociale è l’algoritmo del cedimento. Di quale cedimento ognuno può e deve cedere? Questa è la questione. Qual è la malattia più diffusa? Di quale malattia ognuno deve fregiarsi? Di quale malattia deve segnarsi? Di quale malattia deve farsi segno? Così la statistica modula la salute ideale come salute dell’algoritmo. Ma questo abolita la parola! Abolita la salute! E, abolito ciò, si tratta di stare bene: volontà di bene e finalità di bene fino all’eutanasia! Occorre che anche la morte si conformi alla finalità di bene e sia, dunque, eutanasia. Questo giro della morte occorre che non sia disturbato dalla parola, dalla domanda, dal processo intellettuale che è disturbo rispetto alla mantica, alla previsione di bene e di salvezza cui ognuno si sottopone.
La domanda non è tollerata dal soggetto che mira alla stabilità. La domanda è destabilizzante: produce idee! Nulla di peggio delle idee che contrastano l’idea di sé acquisita, che contrastano l’idea dell’Altro stabilita. Per carità! Idee che necessitano di cifratura? Assurdo! Rischio della dissipazione del soggetto. Rischio della dissipazione dell’idea di sé. Rischio di verità. Rischio di un altro statuto. Assurdo! Espulsione dal sociale! Statuto intellettuale: il rischio è l’espulsione sociale, dal comunitario, dal comune.
Che qualcosa non vada da sé, che qualcosa non funzioni, anziché essere inteso come indice del funzionamento, come indice della vitalità della domanda, viene inteso come problema, come disturbo, destabilizzazione. Vitalità: turbamento della predestinazione, della categoria sociale, psichiatrica in cui ci si è inscritti! Il frutto artistico e il frutto culturale sono respinti, e il modello intellettuale vigente è il modello mentale, dove le idee e i pensieri sono disturbi che devono essere sedati e controllati psicofarmacologicamente. Dunque, abolizione del pensiero come anomalia.
A questo punto è chiaro che il modo analitico è il modo della civiltà della parola. Mentre il modo algoritmico è il modo della socialità comune, è il modo della tomba della parola. Tra queste due cose, tra queste due eventualità, tra questi due modi, tra queste due civiltà è impossibile scegliere. Non c’è scelta!
Sesta conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola