La lingua della vita
La vita è originaria, è secondo la particolarità e attua il progetto e il programma di vita con il loro dispositivo. Nulla di naturalistico, di naturale, di scontato, di predestinato. Impossibile abituarsi alla vita. Pensare di abituarsi alla vita è abituarsi alla morte lenta, indica ritenere la vita un percorso verso l’estinzione. La vita, nell’accezione indicata, non è la vita biologica, che è intesa per lo più come durata, come fine, presa e misurata per la sua fine e che consente di pensare alla vita come a un’abitudine, come se fosse possibile abituarsi alla vita, di potere stabilire se viverla o non viverla, di pensare come viverla, in una sorta di sufficienza e di padronanza rispetto a un’idealità che viene chiamata vita.
La vita ricorre spesso nelle fantasie degli umani come abitudine, come la ripetizione del solito, e accade spesso di sentire parlare delle “solite cose”, dei “soliti pensieri”, del solito tran tran, della vita come monotonia. Tutto ciò è un’idealità della vita senza la parola, senza l’originario, è la vita come qualcosa che sarebbe possibile pensare, immaginare, conoscere, di cui sarebbe possibile sapere già l’andamento. È la vita senza l’ipotesi di qualità, la vita senza la memoria, senza il disturbo, senza la parola, senza la scrittura.
Nella parola la vita è impensabile, e questo perché è impossibile togliere il sembiante, togliere la provocazione singolare e triale, togliere l’operazione singolare e triale perché le cose si dicano e si facciano per la riuscita. È impossibile togliere la dimensione singolare e triale per la semovenza, l’alterità, l’acustica, l’intendimento. È impossibile togliere la funzione singolare e triale e la relazione diadica con l’apertura. È impossibile togliere il tempo. Tutto ciò indica l’impossibilità di padroneggiare la vita, di sapere cosa la vita sia, indica l’impossibilità di ridurre la vita a una cosa, di cosificare la vita, l’impossibilità stessa di nominarla, di etichettarla, di parlarne. Per quanto possa sembrare assurdo, è impossibile parlare sulla vita e della vita. Sarebbe a dire che è già vissuta, già saputa, già conosciuta, che è già finita. È impossibile la padronanza sulla vita, che non può essere ridotta a una fantasia soggettiva, a una rappresentazione dell’umano.
La vita è la parola, con la sua tolleranza, le sue virtù, le sue proprietà, le sue particolarità, la sua struttura, il suo gerundio. Avvenendo, in quanto non già avvenuta e in quanto non può ripetersi nell’identico, la vita è irrappresentabile. Come averne paura? La vita procede dalla provocazione del sembiante, provocazione all’impresa, alla ricerca e si avvale delle proprietà e delle virtù della parola. Si avvale dell’amicizia e della generosità. La generosità è una proprietà dell’intervento non rivolto al bene, ma che indica la strada della qualificazione. La provocazione è una proprietà del sembiante. Chi osa occuparne la posizione nel dispositivo di parola?
Dall’amicizia procedono tanto l’ammissione quanto il messaggio, che sono negati, per esempio, dal motto “Ognuno per sé e dio per tutti”, motto ecumenico, motto che sembrerebbe sancire l’amicizia con dio, l’amicizia con il daimon, ma in realtà è il motto che tenta di applicare il principio unificante, è il motto del menefreghismo e dell’esaltazione del principio di unità, che propugna il soggetto nel suo isolamento e la sua esaltazione nella soggettività sociale.
Come rappresentarsi come soggetto nell’idea di sé e nella rappresentazione sociale dell’Altro? Nell’idea ritenuta comune e plurale? L’idea di comune e di plurale sono una forma di negazione dell’Altro e di assimilazione alla realtà così detta sociale. È la forma più eminente e comune di abolizione dell’Altro, quando il principio di padronanza e di possessione rendono apparentemente possibile dire che “ognuno ha la sua logica”, “ognuno ha la sua vita”, “ognuno ha la sua priorità”, “ognuno ha le sue intenzioni”, “ognuno ha le sue capacità”, “ognuno ha le sue possibilità, le sue capacità, le sue opinioni, le sue pulsioni”.
L’idea di ognuno procede dal principio di unità e dal principio unificante e rende possibile l’idea di uguale e, ognuno, avvalendosi del principio di unità e del principio di uguale, rivendica la sua possibilità, le sue modalità, le sue intenzioni, le sue idee, i suoi modi, la sua logica, come un titolo di merito, rivendicando cioè un’identità. Credere nella propria logica è credere nella propria identità, un modo semplice, per quanto paradossale, di abolire la particolarità della parola.
L’idea di attribuirsi la particolarità, le proprietà, le virtù della parola è un modo di farne la caricatura, è un modo di espungerla, di propugnare la soggettività come merito e di perseguire un ideale di vita soggettivo, senza provocazione, senza la ricerca e senza l’impresa, una vita governata dal principio della padronanza, dal principio della gnosi. Ognuno sa bene come gestire la propria vita secondo la gnosi, secondo la padronanza, secondo l’idea di sufficienza che toglie il rischio, la generosità, l’amicizia, il messaggio, toglie l’azzardo a favore di un ideale di comodità, un ideale di calma, di padronanza.
Ma, la padronanza, l’idea di padronanza, di controllo, di gestione, di autonomia, è un modo per togliere la questione intellettuale e, autonomamente, ognuno sa quando e come fare, se fare o non fare, come vivere, come adattarsi, come adeguarsi perseguendo il canone del buon soggetto e, soprattutto, espungendo dalla vita la questione intellettuale. Espungere la questione intellettuale vuole dire togliere la questione ebraica come questione del nome, la questione cattolica come questione dell’intero e dell’integrazione, la questione donna come questione dell’anonimato del nome e della parola, la questione giapponese come questione del rinascimento della parola e dell’assenza di sistema.
La vita ridotta all’osso è la vita senza le questioni, senza il questionamento, senza la questione intellettuale. Una vita tranquilla, senza scosse, senza rischi, senza pericoli, senza il pericolo di fare il passo più lungo della gamba, senza il rischio di brutte figure, senza il rischio di non sapere cosa dire, senza il rischio di non sapere cosa fare. È la vita che segue il canone, che segue le indicazioni dello standard. È la vita zoologica. E, allora, tolta la questione intellettuale, tolta la questione ebraica, tolta la questione cattolica, tolta la questione donna, tolta la questione giapponese, è chiaro che ognuno accampa e introduce le proprie questioni, che giustificano e argomentano la propria soggettività. Argomentazioni e giustificazioni che esaltano i problemi personali.
Ognuno che ha le proprie questioni, ha spesso molti problemi personali, problemi che si inscrivono in una o più patologie. La patologia è quello che resta una volta tolta la parola. Il personale, la questione personale, il modo personale, l’idea personale, l’idea di sé, l’ideale personale è la negazione della questione intellettuale, ne prende il posto e propone, invece della parola, l’identità di sé a sé, la propria identità basata sull’idea di origine, sull’idea di destino, sull’idea di gruppo e sull’idea di appartenenza.
Tutto ciò segue applicando alla parola l’idea di colpa e l’idea di pena e, posta questa alternativa e alternanza tra la colpa e la pena, sorgono le cose che non si possono dire e non si possono fare, o che non si possono nemmeno pensare, in quanto contraddicono la morale sociale vigente, la morale personale vigente, la morale familiare vigente, cioè il canone perbenista e benpensante. Chi si trova ingabbiato in queste formule, in queste fantasie che sono fantasie di alternativa rispetto alla domanda, all’istanza, è legato alle prescrizioni canoniche e crede di dovere compiacere il presunto desiderio dell’Altro, di dovere favorire il presunto godimento dell’Altro, e vive nella presa e nella reciprocità presunta con gli altri. È tolto lo scambio e l’apertura, e resta il convenevole, resta la perenne contabilità della bilancia tra quel che si dà e quel che si riceve.
I problemi personali, con cui ognuno si giustifica e mantiene le riserve, le remore, i rimandi rispetto all’urgenza, sono i resti non analizzati della genealogia. I problemi personali sono il mimetismo che segue a questi resti non analizzati, mimetismo che segue alla negazione dell’integrità e dell’intero, negazione della procedura per integrazione, da cui l’adesione all’origine, alla così detta familiarità, all’appartenenza. I problemi personali risultano dalla negazione della sessualità come politica del tempo e dalla negazione del pubblico, per cui ognuno si rappresenta isolato e, si rapporta a quello standard che dovrebbe rappresentare l’appartenenza all’origine, l’appartenenza all’ambiente, al clan, alla cerchia, al gruppo di provenienza, di appartenenza, di origine. Tutto ciò nega la sessualità.
Parricidio e sessualità costituiscono il rinascimento della parola. In assenza di analisi e di rinascimento della parola, vige il realismo soggettivo e sociale e, allora, ognuno si affida al commento di sé e al commento degli altri, all’opinione che ha di sé, all’opinione che ha degli altri e all’opinione che gli altri possono avere di sé. E il rinascimento è tolto, l’industria è tolta, la struttura della parola è tolta; resta l’idea di sé come idea soggettiva, come rappresentazione soggettiva. Al posto della narrazione e del racconto vige il commento e l’etichetta, vige la preoccupazione su cosa diranno gli altri di sé. “Cosa dirà di me la gente?”, “Cosa diranno di me gli altri?”, “Cosa penseranno di me?”. Questo è l’alibi rispetto all’azzardo e al rischio, rispetto all’istanza dell’occorrenza.
Il sorgere e l’affermarsi di questa preoccupazione è indicativo della soggettività, dell’omertà, dell’incagliamento analitico. Se la preoccupazione della propria presunta immagine sociale prevarica sulla questione intellettuale, cioè se prevale il conformismo e l’adattamento al canone, se prevale il pregiudizio rispetto a ciò che si dice parlando, a ciò che si fa parlando, allora la vita diventa zoologica e ognuno sta nella sua gabbia, allo zoo, nella gabbia che lo espone al commento altrui e al commento proprio; all’idea di sé e all’idea dell’Altro senza assoluzione, auspicando invece che la soluzione possa comportare l’uscita dalla gabbia. Perché questa sarebbe la soluzione: l’uscita dalla gabbia! Senza tenere conto che la gabbia è la gabbia del pregiudizio, della soggettività, della negazione della parola, del conformismo. Vivere in gabbia, ossia vivere di pregiudizi.
E allora la questione, la domanda che può sorgere è: perché avere paura di dissipare l’ombra del conformismo, l’ombra del pregiudizio, l’ombra del canone? Perché? Per quale idea di gruppo, di aggregazione, di appartenenza, di gregarismo, di autonomia, di isolamento? A prescrivere l’intruppamento nel canone come destino è l’idea di origine e di fine, è l’idea di genealogia che chiude la domanda e rende sordi rispetto alla domanda, praticamente toglie la domanda e instaura la paura, la paura della fine, dell’apertura, del tempo e della particolarità.
La paura nega il capitale della vita, nega la qualificazione della vita, nega la chance della vita. Come può accadere che accogliere l’arte e la cultura nel dispositivo della vita possa essere considerato un pericolo o una minaccia? Questa è la presa del materiale genealogico non analizzato, che costituisce il fantasma materno come fantasma di fine e fantasma di appartenenza all’origine, che istituisce una sorta di prescrizione e di vincolo al mantenimento dell’appartenenza.
Fantasma materno, fantasma di genealogia. Come analizzare il fantasma di genealogia? Tenendo conto che non tutto il fantasmatico che concerne la famiglia volta in genealogia riguarda quel teatrino psicologistico descritto da Freud e subito entusiasticamente condiviso da psicologi, psicopompi, incestagoghi che si rappresentano la famiglia come sede della mitologia dell’incesto. La questione dell’incesto non riguarda solamente la famiglia, ma l’applicazione della genealogia alle cose che si dicono e si fanno. Tutto ciò riguarda l’applicazione del fantasma a ogni attività considerata riproduttiva, cioè a ogni attività considerata abolire l’originario. È questa la questione dell’incesto, che è stato banalizzato e semplificato in una questione di possesso e di reciprocità nell’ambito della famiglia. Dunque, che cosa è usurpato e che cosa è legittimo? Come conciliare usurpazione e legittimità? Questa è la questione in cui si dibatte il fantasma materno. Come può accadere che la lingua della vita possa essere tolta, negata, abolita, a favore della lingua comune, della lingua condivisa? La lingua della comunità è ideale, non procede dalla ricerca e l’impresa, ma le nega, mentre il gergo, la così detta lingua facile e condivisa, si presta per favorire l’idealità di appartenenza e di gruppo, l’idealità di origine comune.
A cosa appartenere se le cose si dicono e si fanno nel gerundio? Con la parola, è impossibile appartenere alla specie umana. Nel gerundio è assurda ogni idea d’iniziazione, ogni idea di graduazione, di gradualità, di padronanza del tempo per garantirsi un viaggio tranquillo, calmo, gestito senza inconvenienti, senza disturbo, un viaggio programmato, organizzato. Appartenenza e origine sono fantasie che sfociano nella funzione di uguale, funzione da cui è stato tolto il “non”, il non dell’avere e il non dell’essere, che così si biforca nell’essere e nell’avere ideali. Tolto il non dell’avere, cioè lo zero funzionale, e il non dell’essere, cioè l’uno funzionale, avere e essere diventano rappresentabili, contabili, diventano attributi soggettivi, sociali, psicologici, economici, diventano imperativi legali e morali: “devi avere”, “devi essere”, “devi avere per essere”, “devi essere per avere”, secondo algoritmi sistemici.
Ecco la programmazione della vita zoologica, ecco com’è favorita l’incultura e la povertà intellettuale, ecco come sempre più numerosa è l’adesione allo spiritualismo che dovrebbe consolare, vicariare la povertà intellettuale e che ha come contraltare il realismo. Ognuno, secondo la funzione dell’uguale, oscilla tra spiritualismo e realismo inseguendo una vita normale come vita ideale, una normalità ideale, canonica. E la normalità diventa la forma del bilanciamento tra legalità e illegalità, legittimità e illegittimità, moralità e immoralità, approvazione e riprovazione. In questo modo, ognuno misura lo sforzo sull’elogio, sull’idea di contentezza, di pienezza, di riconoscimento e si assegna l’imperativo e il giudizio, e lo rimemora: “Sii bravo”, “Sono bravo?”. “Sii brava”, “Sono brava?”, e ognuno si adegua a questa idealità del riconoscimento, dell’approvazione, del giudizio dell’Altro secondo il canone e non già secondo la riuscita, secondo il canone del riconoscimento sociale e non secondo la riuscita della domanda.
La domanda tende alla cifra, non al riconoscimento, non al canone. Esige il dispositivo cifratico, e la testimonianza avviene nel dispositivo cifratico come testimonianza di cifra, che non riguarda le lodi delle buone intenzioni, o la realizzazione dell’ottativo soggettivo, nonché del condizionale soggettivo. Ognuno si distingue nella soggettività, per sperare che le sue intenzioni si realizzino, sperando in modo condizionale, non già tenendo conto della condizione che è data dal sembiante, della provocazione, ma avvalendosi del condizionale soggettivo: vorrei, potrei, farei, riuscirei se. Se potessi, se sapessi, se avessi, se fossi. Modalità soggettive, di compromesso con la domanda, con l’occorrenza e con la tensione.
L’approdo non è la fine del viaggio e la qualità non è mai ultima. La vivenza si alimenta di qualità, la vivenza è nella vita e gli statuti della vita non sono mai quelli canonici, non sono mai quelli pensati. Gli statuti della vita sono statuti nuovi, sempre nuovi e impensabili come i modi della vivenza e della vita. Impossibile mantenere uno statuto intellettuale, si tratta di acquisirlo man mano e di acquisirne sempre di nuovi. È impossibile il mantenimento della vivenza, è impossibile fare il catalogo degli statuti, e non c’è conformazione a nessun statuto della vita. Lo statuto intellettuale è statuto che esige l’invenzione perenne, la trasformazione perenne, la tensione perenne, non il mantenimento dello status quo ante.
Vivendo, ciascuno è statuto nella parola: parlando, facendo, scrivendo, vivendo. Non una volta per tutte, ma ciascuna volta, in ciascun atto. Questa è la chance che la vita offre, ma per questo occorre inventare la lingua della vita e, dunque, per ciascuno lo statuto va dalla lingua della parola alla lingua della vita.
Quindicesima conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola