La lingua della parola
La negazione della psicanalisi avviene proclamando la sua possibile conversione in psicoterapia, conversione impossibile, inimmaginabile ma, tuttavia, tentata e pubblicizzata. La conversione in psicoterapia è il modo con cui viene negata la parola, mediandola con la negazione della sua lingua.
Per negazione della parola intendo, per esempio, l’esaltazione, l’apoteosi di ciò che possiamo chiamare comportamentologia, cioè tutto ciò che si inscrive nel discorso del comportamento, della personalità, nel discorso delle scienze umane, ciò che viene ascritto al discorso dell’umano, come caratteristica di genere. Che questa negazione proceda dall’università non deve sorprendere, in quanto l’università e il centro di conservazione del sapere e di negazione della novità che procede dalla parola. Né deve sorprendere che dall’università il negazionismo si estenda a vari strati della società, alla scuola, all’ospedale, al tribunale, alle aziende e in numerosissimi altri settori.
Comportamento è il termine più di moda. Anche personalità. Comportamento con la sua grammatica, con la sua prescrittività e con la sua altra faccia, i disturbi! I disturbi del comportamento e della personalità sono ciò che deve incanalare ognuno per mantenerlo nell’appartenenza alla comunità, all’identità di genere. Comportamento, personalità, modalità, atteggiamenti, risposte all’applicazione di stimoli. Stimolo-risposta, stimolo-comportamento, cioè abolizione della parola, abolizione del suo dispositivo, abolizione del cervello come dispositivo della parola per l’instaurazione di meccanismi.
Il termine cervello ormai è, invece, sempre più usato per indicare una presunta sede di “meccanismi” emotivi e comportamentali, con l’abolizione del ragionamento, del calcolo, della ricerca, dell’istanza culturale e artistica cui ogni condotta espone, perché non è reattiva. Pensare che la risposta che ciascuno dà a una questione sia reattiva, istituisce l’umano e la sua presunta scienza, posta un gradino inferiore a quello animale, cui quanto meno è riconosciuto l’istinto, che non è un meccanismo.
L’“evoluzione” e il “progresso” scientifico approdano in quest’epoca alla negazione della parola, alla negazione del ragionamento e all’istituzione del meccanicismo comportamentale. La nozione di comportamento, con la sua ideologia, è la tomba della parola e dell’intelligenza, è la tomba dell’arte e della cultura. Per questa via, con l’istituzione del comportamento universaleggiante e della sua grammatica, avviene la negazione della parola, quanto meno, il tentativo di negarla e abolirla. E con l’abolizione della parola, il tentativo è di abolire anche l’istanza intellettuale, la questione intellettuale come questione della parola, del dispositivo di parola e del dispositivo pulsionale, per ridurre ognuno all’appartenenza all’ordine comune, la cui risposta deve essere conforme alla grammatica stimolo-risposta. Non si tratta più, in questi apparati, di parlare, ma di comportamentarsi, di comportarsi, cioè, secondo la grammatica riconosciuta normale e morale, cioè secondo la normalità.
Il prescrittivismo toglie ogni variazione e ogni differenza inscrivendole nel disturbo; ossia, ogni variazione e ogni differenza deve rientrare fra le penalità e le penitenze che l’apparato ascrive all’anomalia, che deve essere assente, abolita in nome della normatività, della normalità, della grammatica: la parola, con la sua logica, con la sua struttura e con il suo dispositivo deve essere assente.
È con la mitologia del comportamento, con l’esaltazione del comportamento, con l’esaltazione della guida encefalica di ogni essere umano, dell’“encefalo arcaico” cui ognuno deve sottomettersi e sottostare, che la psicoterapia trova la sua esaltazione. In particolare quando il comportamentismo tenta di accampare presunte adiacenze o orientamenti analitici o psicanalitici che nulla, in realtà, possono avere a che fare con l’analisi, con la psicanalisi e con la parola, che non segue metodologie. Infatti, un conto è il metodo della parola, un altro conto è una metodologia applicata alla parola per tentarne l’imbrigliamento, il contenimento, l’ingabbiamento, attingendo all’organicismo e al sostanzialismo.
Nulla di più contrario alla parola, dove non c’è sostanza. Riproporre, come già si era tentato nell’Ottocento e nel primo Novecento, il primato dell’organicismo è il tentativo di ripristinare, di rinverdire il mito della padronanza sulla materia. L’umano non sopporta di non avere il controllo e la padronanza sulla materia delle cose, sulla materia intellettuale e, quindi, lo sforzo maggiore di ogni apparato che si istituisce a tutela dell’umano, è quello di proporre ogni accorgimento come favorevole all’acquisizione della padronanza e del controllo sulla materia della parola.
Quando la psicanalisi è sorta, è cominciata come talking cure. Così la definì Anna O., una delle prime pazienti che si avventurarono con Freud nell’esperienza psicanalitica di allora, cioè “la cura parlando”. L’accezione precisa di “parola”, in Freud, è molto sfumata, in quanto usa altri termini, ma occorre precisare che Freud si trovava in un contesto dove la parola era bandita, e che già solo istituire un’ipotesi differente rispetto alla mitologia organicista dell’epoca era uno squarcio. Che idea avesse della parola è leggibile tra le righe dei suoi scritti. Il fatto che ponesse la questione dell’onirico come preliminare alla sua elaborazione è molto indicativo, perché lascia intendere come la questione fosse non già sulla normalità o sulla normatività, non già su quanto di consueto e comune ci fosse nel parlare, ma su quanto di Altro si produca parlando! Con la sua terminologia e seppure con il parziale adeguamento alla terminologia dell’epoca, Freud pone in primo piano la questione onirica, cioè la questione dell’Altro che procede dalla parola e di quanto di impadroneggiabile si produca dal parlare, fornendo un’altra accezione di cura, la talking cure, la cura cui è impossibile applicare un protocollo.
La questione del protocollo non si poneva nei termini odierni ma, certamente, si poneva la questione del convenzionalismo, dello schematismo, dell’imbrigliamento, della mitologia dell’ospedale psichiatrico, del malato di mente e del sapere che andava mantenuto, circoscritto e applicato. Invece dell’universalismo, Freud offre un’altra proposta, un altro modo: la cura senza protocollo, la talking cure, dove si tratta del parlare, dell’ascolto, del capire ciò che si dice parlando, di ciò che si dice fra le righe, d’intendere ciò che di Altro si dice. Altro rispetto all’intenzione, Altro rispetto al senso comune, Altro rispetto al sapere comune. Altro. Altro che fa sì che proceda e prosegua la ricerca, l’intendimento senza fine, perché l’ombelico dell’onirico non è mai raggiunto. Il punto oscuro che l’onirico presenta non è mai raggiunto e non è mai chiarito definitivamente.
Già allora Freud intende e propone questo: processo infinito, esperienza infinita, procedura infinita, ricerca infinita, vita infinita, esperienza particolare, unica nella differenza assoluta che la contraddistingue in ciascun caso, unica e assoluta nella sua differenza. Ciò non è tollerato oggi come non fu tollerato ai tempi di Freud, che ebbe e subì una reazione notevole da parte dell’apparato del sapere.
La questione della parola non è tollerata nemmeno oggi. Lo possiamo testimoniare noi, ben capendo verso cosa è rivolto l’attacco che è stato sferrato al movimento cifrematico da quando è sorto con la sua esperienza a tutt’oggi. L’attacco verso Armando Verdiglione, verso il movimento, verso i modi, le invenzioni, le esperienze, verso i valori che l’esperienza ha prodotto in vari settori, artistico, culturale, scientifico, editoriale, settori senza protocollo, senza la sottomissione all’apparato del sapere come sapere circolare da trasmettere e applicare senza variazione e senza differenza, è per mantenere l’idea di sistema.
Oggi, ciò che viene chiamata scienza è ben lontano dalla scienza, è la statistica che si avvale dell’esigenza del sistema. È impensabile tutto ciò che oggi viene chiamato scienza, se viene scardinata la nozione di sistema, perché vengono meno i parametri di riferimento, viene meno l’ipotesi della ripetibilità degli eventi, che è ciò che istituisce il discorso come scientifico. L’esperienza di parola, l’esperienza di psicanalisi, non comporta la ripetitività degli avvenimenti, di ciò che accade. L’atto è irripetibile, l’atto è ciascuna volta originario, gli effetti sono imprevedibili. Ciò che si produce è originario. Non si fonda su ciò che è stato prima, ma avviene imprevedibilmente, artisticamente, inventivamente, scientificamente in quanto si produce qualcosa di nuovo. Questa è la scienza: la produzione di qualcosa di nuovo! Senza possibile sottomissione alla statistica, senza possibile sottomissione al catalogo dei saperi, senza prevedibilità, senza conoscenza.
Ciò fa paura, perché rende inapplicabile la conoscenza, lo schema. Esige, pertanto, la formazione assoluta, particolare che riguarda la parola, il suo modo, la sua esperienza, il suo avvenire, il suo divenire. Non si apprende dai libri. Non si apprende. Si fa, si vive. Insegnamento e formazione procedono dalla parola nel dispositivo di ricerca, d’impresa, di attuazione delle istanze della parola. Impossibile altrimenti. L’apparato ha paura della parola, osteggia la parola come ciò che incrina il sistema, che è il terreno su cui l’apparato sorge. Togli il sistema e non c’è più l’apparato, non c’è più il potere dell’apparato, non c’è più la burocrazia. Allora è chiaro che per consentire il mantenimento della nozione di sistema, dell’idea e della parvenza di sistema, occorre abolire la parola, abolire la comunicazione a favore del surrogato chiamato comunicativa, e di cui ogni rappresentante umano deve essere dotato.
La comunicativa è la capacità di comprendere e farsi comprendere, la capacità di “parlare la stessa lingua”. Perché, abolita la parola, sarebbe possibile parlare tutti la stessa lingua come lingua della comunicativa, la lingua degli esseri senza la parola, senza l’equivoco, senza la menzogna, senza il malinteso. La lingua parlata è la lingua già parlata! Parlare la stessa lingua vuole dire parlare la lingua già parlata, già data come lingua, prima ancora di parlare. È la lingua ideale, la lingua che non c’è. In quanto ideale è la lingua morta, lingua che sta solo nel vocabolario: lingua dei vocaboli. Chi parla, parlando, non parla per vocaboli, ma dice cose che ignora di dire. La lingua della parola non è fatta di vocaboli, è lingua che non ha già la sua significazione, le cose che si dicono non sono già significate, dicendosi. È lingua che esige il dispositivo dell’ascolto, della ricerca, esige l’analisi e non il vocabolario come strumento della sintesi, ossia della ricomposizione del sapere comune che deve essere mantenuto inalterato dagli esseri parlanti, cioè dagli esseri senza parola, gli esseri dotati di comunicativa, ma senza parola, gli esseri che, in quanto si attengono alla comunicativa, possono annoverare come relazione unificante la partecipazione emotiva.
Tolta la parola, abbiamo le emozioni, l’emotività, la partecipazione emotiva, la possibilità empatica come colmo dell’unificazione. Senza parola, abbiamo l’unificazione ideale alla sofferenza comune, ideale, umana, senza sfumature, data per assodata per via di comunicativa, perché tutti dobbiamo sentire allo stesso modo e partecipare empaticamente alla stessità del pathos. Tutti dobbiamo partecipare della sofferenza, ognuno deve sottomettersi alla sofferenza. Lo diceva Buddha, lo diceva la teosofia, lo diceva Maometto, lo diceva Allah, ovviamente lo diceva anche san Paolo, tutti dobbiamo sottometterci, restare sottomessi alla sofferenza. E dalla sottomissione, sperare empaticamente nell’avvenire migliore, senza pulsione, senza domanda, senza soddisfazione, senza riuscita, ma oscillando tra la colpa e la pena, perché ognuno ha la sua colpa e deve scontare la sua pena. Questo trasmette la comunicativa, l’ideologia della colpa e della pena come lingua dello stato umano, come lingua dello stato delle cose, lingua ideale, lingua parlata, lingua cui ognuno ha diritto di avere l’accesso diretto. Bene, non c’è accesso diretto alla parola! L’uguaglianza naturale di accesso diretto alla parola non c’è!
L’accesso alla parola non è diretto perché la parola non è sostanziale e non è monolitica. Si fa della sua particolarità, della sua struttura, della sua scienza e, dunque, non c’è come possibile accesso diretto. La parola esige la ricerca, la qualificazione, la tensione verso il valore che nulla ha a che fare con la mitologia dei valori condivisi, che devono significare il genere nella sua appartenenza all’umano o alla comunità. La parola non è comune, non è comunitaria, non accomuna. La questione intellettuale non è la questione accomunante. La lingua della parola non è la lingua comune, non è la lingua parlata. Addirittura non è parlabile. Occorre dire che con la cifrematica la lingua della parola risorge, si libera, in un certo qual modo, dall’imbrigliamento, dall’isolamento cui è costretta dall’ideologia del sistema, che è reazione alla parola. Il sistema è l’invenzione che tenta di imbrigliare la parola. Il sistema non è originario, è invenzione dei filosofi e dei sacerdoti, da quegli egizi a quelli cinesi, a quelli indiani, a quelli islamici.
La parola è originaria, non il sistema. Questa è la questione effettiva. Ogni disciplina sorge come reazione contro la parola. Ogni grammatica insegue il mito della lingua parlabile, unica, comune, canonica, ma è un mito che si sgretola parlando, già parlando, solamente parlando. Parlando, l’idea della lingua comune si dissipa, ma ciò complica le cose a chi deve trasmettere il sapere, a chi deve mantenere il discorso come discorso di riferimento, come discorso della storia, del potere. Discorso che si fonda sulle categorie istituite, per esempio, dai filosofi, che sono stati tra i primi avversari della parola che rendeva ingovernabile la città, la polis, la ragione e che, quindi, occorreva imbrigliare, contenere con la grammatica, cioè con la spiritualizzazione.
La grammatica della parola è spiritualizzante in quanto persegue l’ideale unificante. A fronte di questo tentativo di grammaticalizzare la parola, cioè di darle un canone, constatiamo invece che ciò che si dice entra nella struttura, e ciò che si struttura, si struttura differentemente. Differentemente! Questo lo constatiamo, per esempio, con il senso, il sapere, l’intendimento, la verità. Impossibile sostenere la verità come causa. Parlando, abbiamo effetti di verità, non il mantenimento della verità ipostatizzata, né del senso ipostatizzato, né del sapere ipostatizzato.
Il motto di spirito, l’umorismo sono esempi dell’impossibile imbrigliamento della combinatoria linguistica. Metafora, metonimia e catacresi sono esempi dell’impossibile imbrigliamento della parola, della linguistica differente da quanto proposto da ogni apparato disciplinare. La lingua parlata, la presunta lingua comune si riscontra, in realtà, come lingua del litigio, dove ognuno vuole avere ragione per non avere torto; è la lingua dell’alternativa, della binarietà, del contrasto, è la lingua dove la contraddizione non è ammessa, è la lingua delle coppie oppositive. Ma la contraddizione non è la contrapposizione. La contraddizione come modo del due è costitutiva della parola, modo negato dai principi aristotelici. E la contraddizione è negata anche dalla filosofia indiana, iraniana, islamica, cristiana, dallo yin o yang, dal sopra o sotto, dal sì o no. Tutti esempi di contrapposizioni costanti che hanno orientato nell’unica direzione la così detta civiltà, come civiltà contro la parola, contro la tolleranza. Civiltà dell’alternativa, della guerra, della contrapposizione, civiltà che si avvalgono della lingua della contrapposizione, dell’alternativa, delle coppie oppositive, della lingua dov’è tolto il due, il tre, l’Altro. Tertium non datur. O sì o no. E la gamma delle sfumature, delle ipotesi, delle interpretazioni, la gamma metaforica, metonimica, dove vanno? Vanno nel casellario delle classificazioni, nell’elenco dei disturbi, perché la gamma deve essere contenuta, non può essere assoluta, deve rispettare il canone; e così la parola è già abolita, espunta. La lingua è espunta, espunta la parola libera, leggera, la parola nella sua integrità che agisce con i suoi effetti temporali, effetti linguistici, narrativi.
Con la parola è impossibile mantenere le credenze; credere di appartenere allo stesso ceppo, alla stessa comunità, allo stesso pianeta, alla stessa origine. È impossibile credere di potere convincere o di potere essere convinti. Il convincimento sarebbe l’azione del soggetto sull’Altro, l’esercizio del potere di convinzione, di legame, di legare a sé. Questo è il convincimento: negazione del due, negazione della suggestione, della persuasione e dell’influenza come virtù del funzionamento della parola, virtù di ciò che funziona come nome, significante, Altro. È l’attribuzione del potere di convincimento al soggetto, il mantenimento delle proprie convinzioni per non dare ragione all’Altro.
Ma, l’Altro non è qualcun altro. L’Altro nella parola è la struttura dell’onirico: sogno e dimenticanza. È quanto di inimmaginabile si produce parlando, cioè funzionando la parola. La parola è senza schiavo e il convinto è lo schiavo, colui che è legato. Non c’è convinzione o convincimento, ma, funzionando la parola, interviene persuasione, suggestione, influenza che sono virtù della parola, non assecondamento alla volontà altrui. Fino a che vige la lingua dei soggetti, la lingua parlata, la lingua degli enti, la lingua della sostanza, vige l’idea del potere invisibile, il potere che qualcuno può esercitare su qualcun altro. Questa credenza si mantiene perché nella lingua dei parlanti l’analisi è negata e, al più, è possibile convincersi o rimanere convinti. Ma ciò è senza analisi, perché è imposto il canone della sintesi.
L’analisi è specifica della parola, è la teorematica della parola. Se una credenza giunge a dissiparsi è per via di analisi, non per via di cambiamento. Qualcosa che si credeva, non c’è più. Perché non c’è più? Perché non c’è mai stata, ce n’era la credenza. Ma, senza l’analisi è impossibile che intervenga questo “non c’è più”, il teorema. Senza l’analisi resta la credenza, perché resta l’alternativa esclusiva: o sì o no. Non c’è la gamma, non c’è l’Altro, non c’è la logica singolare triale. C’è l’idea del nulla e la sua alternativa, l’accettazione del canone.
La questione è, dunque, qual è, com’è la lingua della parola, come far sì di non respingerla, come capire di cosa si tratti, come farne l’esperienza, come non reagire alla parola e alla sua lingua. Questa è la scommessa intellettuale, la questione della nominazione e pure la scommessa della cifrematica: come non lasciare che la parola sia negata.
Prima conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola