La lingua della notizia
Chi si crede, si pensa, si definisce, chi crede all’immagine che crede di avere di sé, chi crede a tutto ciò nega la parola in nome dell’appartenenza al sistema, alla cerchia, alla genealogia, al ghenos, al genere che deve essere rappresentato dall’evoluzione e dal progresso.
L’idea di evoluzione e di progresso negano la parola, la notizia e la novità che sono bandite come blasfemia. I lessemi evoluzione e progresso, così in voga, acclamati, condivisi, così usati, sono celebrazioni dell’origine. Per la biologia, l’origine comune è il caposaldo della teoria evolutiva. Non ci sarebbe evoluzione senza l’ipostasi dell’origine comune. Ogni principio evolutivo esige l’origine comune.
Anche la nozione di progresso si affianca al principio evolutivo, pur uscendo dai limiti biologici per allargarsi a ambiti sociali, politici, ideologici, di presunta civiltà. Il progresso della civiltà e il progresso sociale presumono l’avanzamento dal bene al meglio. Progresso e evoluzione sottendono la volontà di bene, sottendono l’idealità del bene, di come rivolgersi al bene. È bene funzionale, morale, ideale, sociale che sfocia nell’idea di salvezza dal male, salvezza dalla morte. Parlare o pensare in termini di evoluzione e di progresso è mantenere il riferimento al fondamento dell’origine, sia come idea, sia come principio primo. Farsi esponente dell’evoluzione o del progresso è farsi portatore dell’origine e significato dall’idea di origine, dalla propria idea di origine, dall’idea della propria origine.
Questo è il limite che nega le virtù intellettuali: aderire all’ipostasi dell’origine. Aderire all’idea di evoluzione e di progresso è come dire negare la qualità della vita, farsi esponente biologico in nome della vita animale, in nome della morte certa. E ogni problema vario e eventuale è conseguenza. Diretta conseguenza! Pretendere di dissipare il problema, mantenendo questo riferimento all’origine e alla morte, è vano. Il riferimento all’origine non necessariamente vige solo menzionando l’origine, ma si avvale di succedanei, metafore spirituali, sociali, credenze e ha la sua lingua, la lingua comune, cioè la lingua che si attua come lingua del buon senso, lingua del sapere, lingua di riferimento, lingua parlata, lingua del sapere comune. Ogni riferimento al sapere assunto come verità, al sapere condiviso, al sapere certificato, al sapere vigente è riferimento all’origine, al ghenos, alla cerchia, al gruppo, all’insieme, alla compagnia di riferimento, che si caratterizzano per alcuni punti fermi, grazie a cui possiamo asserire che “noi sappiamo”.
“Noi sappiamo che” è la formula dell’appartenenza al genere, all’origine, alla mortalità, al pregiudizio che nega la parola. Il riferimento al punto dato come punto fermo, acquisito, condiviso, si costituisce come fondamento attorno cui può sorgere, istituirsi e confermarsi la comunità, la compagnia, il gruppo confermato dal pregiudizio sulla parola, sul genere, sull’origine. È il pregiudizio di disporre della base comune, del fondo comune, del carattere comune che possa istituirsi come stigma, come caratteristica.
Questo è il sociale, da distinguere dal civile che indica, invece, l’accoglimento dell’Altro, l’instaurazione dell’Altro, gli indici del diritto e della ragione dell’Altro, della struttura dell’Altro; gli indici della differenza assoluta per cui la parola è accolta senza riserve, paura, vergogna, senza pudori, pregiudizi, preconcetti. La negazione del diritto e della ragione dell’Altro, della differenza, la negazione degli effetti della parola istituisce la lingua dell’origine, la lingua sostanziale, la lingua che deve mantenere il riferimento alla sostanza come idea comune, cioè la sostanza di sé, dell’Altro, sociale, di genere, la sostanza di riferimento.
“In buona sostanza, cosa vuoi dire?”, “In buona sostanza, fammi capire cosa vuoi dire”, “In buona sostanza, io cosa sono? Come sono? Come dovrei fare?”, “Cosa dovrei fare in buona sostanza?”, “Cosa dovrei dire per non essere fraintesa, per non essere esposta agli imprevisti della parola?”, “Cosa dovrei dire perché possiamo capirci, perché ognuno capisca, senza equivoci, senza malintesi, perché sia chiara la sostanza?”. Per la comprensione occorre ci sia il riferimento sostanziale, il riferimento all’origine, all’evoluzione, al progresso, il riferimento a cosa siamo, a dove siamo, a dove andiamo, a cosa vogliamo, perché sia chiaro che noi siamo uguali!
La lingua dell’origine, lingua senza equivoci, malintesi, sfumature, la lingua che non ponga l’eventualità della domanda, ma l’interrogativo “Cosa penserà di me se dico qualcosa che non è comune? Che cosa penserà l’Altro di me? Cosa penseranno gli altri di me?”, è la formula che interviene quando, per una svista imprevista, imprevedibile al soggetto, interviene qualcosa di equivoco, di non comune, di non scontato. Allora, l’irruzione della differenza improvvisa, imprevista, respinta, si volge per il fantasma materno nella domanda: “Adesso cosa penserà di me? Cosa penseranno gli altri di me, che non appartengo più alla stessa origine, allo stesso genere, allo stesso clan? Penseranno che non appartengo più al ghenos, che sono diverso, che sono diversa, che non sono a norma, che non sono normale?”.
Sta qui la vergogna dell’alterità, quasi sensazione dell’alterità, della differenza che viene considerata la deroga alla prescrizione di essere come il ghenos comanda, un indice della diversità sociale, indice dello statuto intellettuale che irrompe nella soggettività e a cui la soggettività si oppone, fa ostruzione, perché la soggettività si pone come sostegno dell’appartenenza al genere. La vergogna dell’alterità e della differenza è la vergogna dello statuto intellettuale, è la vergogna della sessualità che irrompe nonostante le barriere soggettive, le prescrizioni sociali dell’appartenenza e le prescrizioni sociali dell’erotismo sociale.
Lo statuto intellettuale è marcato dall’insopportabile della distinzione, dall’insopportabile della provocazione e dall’incompatibile della differenza sessuale, che è differenza assoluta; non differenza di Tizio rispetto a Caio, non differenza di genere o di persona, ma differenza assoluta, senza pari, senza comparazione possibile, senza rappresentazione possibile. Lo statuto intellettuale è inconciliabile con la relazione sociale, con l’appartenenza sociale che è l’appartenenza al genere, cioè l’idea di genealogia. Lo statuto intellettuale è statuto nel dispositivo della parola e è caratterizzato dalla solitudine, non dalla compagnia, dalla condivisione, dall’euforia o dalla disforia, non dalla depressione, dalla rappresentazione del male dell’Altro o dall’etichetta sociale, non dalla convenienza sociale o dalla prescrizione sociale, ma dalla solitudine, che è prerogativa dell’oggetto, condizione della salute. La solitudine volge alla salute, e sentirsi solo o sola è allucinazione della solitudine negata.
Solamente negando la condizione della parola, l’oggetto della domanda, è possibile sentirsi soli, ossia senza parola, senza l’Altro, senza dispositivo. Soli, nella rappresentazione del deserto o della foresta, senza la parola, cioè fuori dal sociale, dalla compagnia, dalla comitiva che garantisce l’uniformità dell’origine. Sentirsi solo è indice del compromesso fantasmatico con l’origine, con la genealogia, con la negazione della parola. Indica la conformità al posto ideale che ognuno si assegna in ossequio alla genealogia, il posto presunto assegnato dal nome del nome, dal nome che dovrebbe rappresentare l’essere nella genealogia, nel ghenos, nell’evoluzione, l’essere nel progresso familiare, sociale, ideale.
Il fantasma di genealogia è fantasma materno, fantasma di fine del tempo, fantasma di origine. Genealogia, fine del tempo e origine sono tre modi di negare il tempo, la parola, il divenire. Tre modi di sancire l’appartenenza ideale al popolo ideale, alla famiglia ideale, allo stigma ideale, all’etichetta ideale che ognuno si affibbia, si assegna, si consegna, per poi dire: “Io sono così, io questo sono, che ci posso fare?”. “Io sono”, è il modo di negare il funzionamento della parola, di negare il “non”, la funzione dell’impossibile dell’uno, il modo per credere di potere definirsi, conoscersi, sapere cosa si è, e, conseguentemente, cosa si può fare. Fantasma di genealogia, di origine, di fine del tempo, tre modi con cui si afferma la negativa del tempo.
Quante volte ricorre la formula “Ma ormai il tempo è finito. Il tempo non c’è più. Non c’è più tempo. Non farò in tempo perché il tempo sta per finire”? Come darsi la morte più di così? Come assegnarsi la morte certa più di così? Come negare la sessualità più di così? L’idea dell’ultimo minuto, dell’ultimo tentativo, dell’ultima volta è per confermare l’ipotesi che il tempo passa, scorre e quindi finisce. L’idea dell’ultimo si bilancia con l’idea di rimando, per far sì che l’ultimo tempo si estenda prima di finire e non scada mai e nulla possa finire perché, se qualcosa avvenisse, sancirebbe che il tempo, a quel punto, può finire o forse è già finito.
Ecco la lingua della fine, del finito che ognuno assume pensando che si tratti solamente di modi di dire. I modi di dire sono i modi della lingua comune, della soggettività. Sono i modi della condivisione dell’origine e della fine. La lingua della fine, del finito, della mortificazione è la lingua del vocabolario normale, normativo, la lingua dei modi di dire, dei modi comuni, la lingua normale, delle cose sostanziali, delle cose comuni e note, la lingua delle cose chiare, già così chiare che non esigono chiarimento né valorizzazione. Il valore non è richiesto nella lingua, è bandito. La normalità e l’idea di appartenenza alla normalità, bandiscono il valore e istituiscono il genere, il generico, lo standard. In questa fantasmatica il valore è una complicazione che esige la soluzione definitiva, la soluzione sostanziale, una volta per tutte, senza lingua.
Alla lingua è sostituita la sostanza, la rappresentazione sostanziale di sé e dell’Altro e così ognuno sa ciò che è, ciò che può fare, ciò che può diventare, ciò che è diventato; sa ciò che non può fare, non può diventare, non può essere perché già è. Ogni idea deve essere l’applicazione del sapere che quell’idea è presunta significare. Non ci sono più idee e fantasie, ma conoscenza, sapere e sostanza. La fantasia si sostantifica nel reale e, così, avviene la sospensione della parola e della lingua, nella rappresentazione di essere ciò che si pensa. Non c’è più l’idea, c’è il sapere “So che… Sappiamo che…”, convertendo ciò che si pensa nel sapere di sé e nel sapere dell’Altro, cioè nella negazione di sé e nella negazione dell’Altro. Il sapere sull’Altro e sulle cose è la prescrizione all’idiozia, l’abolizione della particolarità, della scrittura della particolarità, della differenza e della scrittura delle cose.
L’esperienza della parola è sprovvista di riferimento sostanziale o ideologico, è esperienza narrativa, linguistica, esperienza della valorizzazione di cui esige testimonianza, racconto, cifratura. È inesauribile e senza fine. L’analisi, la teorematica, è il preambolo alla valorizzazione e alla qualificazione. Come può avvenire la qualificazione di qualcosa in assenza della teorematica? Se quel qualcosa è assunto come tale, come può essere qualificato? Chi può qualificare qualcosa se parte dall’idea tale? Se la cosa è tale, se io sono tale, se noi siamo tali, se ogni cosa è tale nulla può mutare, nulla può accadere.
Ognuno chiede tempo per capire, formarsi, aumentare le conoscenze per imparare di più. Ma se l’ipostasi è che le cose sono tali, se viene negato il preambolo, come può avvenire la qualificazione? Come può avvenire la scrittura della qualificazione, la valorizzazione, la scrittura della valorizzazione, la capitalizzazione dell’esperienza? Ognuno può valutare, sulla base del proprio itinerario, quante barriere, quante opposizioni, quanti contrasti, quante negazioni frappone alla direzione della parola, al proseguimento, all’accadimento della parola, al divenire delle cose in nome del presunto intervento salvifico che dovrebbe cambiare le cose. L’intervento del cambiamento, negando però il preambolo, l’esperienza, la parola, invocando il cambiamento salvifico, immaginifico, magico! L’intervento salvifico è nei confronti dell’inesauribilità della domanda. “Eh, ma occorre pure che a un certo punto la domanda termini, le questioni terminino, il divenire termini con il raggiungimento di un essere, dell’essenza stabile, della stabilità definitiva!”. Certo, e che sarà significata dal rigor mortis, stabile, indice dello stato definitivo!
Che la domanda sia contrassegnata dall’ancora e dall’oltre è intollerabile dal fantasma materno. Ancora e oltre dissipano il fantasma materno sulle cose, dissipano il solco, il confine, il limite e l’idea di sé e dell’Altro; la rappresentazione di sé e la definizione di sé. Ancora e oltre impediscono la presa sostanzialista, definitoria, definitiva. Il fantasma materno tenta di sostituire alla ricerca, all’impresa e al dispositivo della parola, l’intervento salvifico: la soluzione! “Eh, ma qui non c’è mai soluzione!”. Come dire che non c’è fine. Infatti, non c’è fine né soluzione. C’è qualificazione, variazione, differenza, arte, invenzione. Non c’è soluzione.
Questo è il teorema della ricerca: non c’è più soluzione. Questo è il teorema dell’analisi: non c’è più soluzione, non c’è sostanza che possa sciogliersi o diluirsi; non c’è solvente. C’è teorema, c’è la teorematica e l’assiomatica per via della costruzione, della scrittura del progetto e del programma, che non sono proprietà magiche del progetto e del programma, ma sono proprietà dello sforzo intellettuale, proprietà dell’esperienza, proprietà della vicenda e proprietà del viaggio. Chiaro che se si toglie il viaggio…
L’intervento salvifico, invece, anziché il viaggio, l’esperienza e l’avventura, è ciò che consentirebbe l’applicazione dell’algoritmo. Algoritmo algebrico e geometrico con la prescrizione di ciò che ognuno deve fare per rispondere convenientemente all’algoritmo stesso, e per potere consentire, con la lingua unica, la traduzione e la trascrizione del disagio, che da virtù del principio è così volta in malattia mentale o disturbo mentale. L’alterità, l’alterazione, la variazione, la qualità, anziché proprietà del viaggio, potrebbero così diventare una classificazione del mentale come malattia e come disturbo.
Questo è ciò che avviene negando la parola e negando il disagio come virtù del principio, e accettando l’alternativa che questa negazione comporta, accettando l’alternativa tra bene o male, tra bene di sé o male di sé, tra bene dell’Altro o male dell’Altro. Bene o male? Essere o non essere? L’alternativa che procede dalla negazione della parola è la base del pregiudizio psichiatrico, che ordina l’anomalia della parola e della domanda in malattie mentali e disturbi mentali.
Negata la parola, l’analisi, la qualificazione, l’esperienza, ognuno si trova nel pregiudizio psichiatrico e nella classificazione conseguente; si trova a dovere scegliere tra il canone normale e il canone anormale. Perché comunque di canone, di classificazione si tratta! E, infatti, il pregiudizio psichiatrico, con il suo ordine alternativo, alimenta il pregiudizio di sé e il pregiudizio dell’Altro come indice del fantasma materno. Il pregiudizio psichiatrico procede da un ordine ideale che presuppone la mente cosmica, la mente universale, normale, comune, generale, cioè di genere e il cui funzionamento sia univoco, rettilineo, meccanico. I famosi meccanismi mentali per cui ognuno ha i suoi.
La questione è in che modo e in che misura ognuno aderisce al pregiudizio psichiatrico, cioè applica alle cose, alle parole, alla vita, il principio della bilancia e del bilanciamento, cioè il principio equazionale in base al quale, per una proprietà dell’uguaglianza, qualcosa manca o qualcosa è in eccesso. Per ciò, a ognuno bisogna dare o togliere, dando quello che manca e togliendo quello che è in eccesso, in modo da ristabilire l’equilibrio della bilancia, l’equilibrio dell’essere. Il bilanciamento, per ristabilire la quantità normale, la quantità di sostanza, di sforzo, di fatica, di lavoro, di bene, di male, la quantità di soddisfazione. Come deve essere ognuno? Cosa bisogna fare perché sia conforme al principio di uguaglianza, al principio di conformità?
Il principio psichiatrico è la conformazione al principio dell’uguale, da cui discende la prescrizione dell’uguale sociale che si compie idealmente con l’applicazione dell’algoritmo mentale, ossia della normalità mentale. Questo è l’algoritmo mentale: la normalità mentale, l’ideale mentale, la mentalità ideale, l’assenza di parola, l’abolizione del disturbo strutturale. Ciò che si struttura disturba ma, il disturbo, è la strutturazione! Come abolire il disturbo? Abolendo la struttura! Come abolire la struttura? Con l’essere ideale, con la sostanza ideale, con l’algoritmo ideale, con la circolarità, circolando!
Ogni campagna preventiva in materia di salute, di disagio, di suicidio e di varie altre cose, è una campagna egualitaria. È in nome dell’uguaglianza che si può fare la campagna di prevenzione, presupponendo e prescrivendo il canone egualitario. L’uguaglianza ideale è ciò che istituisce e mantiene il pregiudizio psichiatrico con i suoi canoni diagnostici, di conoscenza. Canoni che istituiscono il paziente psichiatrico, che deve essere paziente, consenziente e collaborante con la cura, ossia con il principio del male e del suo nome, il nome che lo rappresenta socialmente.
La nominabilità del male è ciò che istituisce il prontuario medico e psichiatrico. La nominabilità invece della nominazione! La nominabilità invece dell’oralità, della lingua che procede dall’afasia. Nominabilità, che procede dall’abolizione della lingua, dall’abolizione dell’afasia e dall’abolizione della parola. C’è la sostanza, non c’è la parola, per cui le cose sono nominabili. La nominabilità assicura l’uguaglianza delle cose, per cui non c’è pericolo, non c’è nessuna possibilità di equivoco, di malinteso, ma la certezza della comunicazione, della comunicabilità. Nominabilità, ripetibilità, conoscenza: questa è la linea e l’allineamento. Linea e allineamento una volta tolta la parola e tolta la lingua con ciò che le sta attorno. Tolto il “circa”, tolta la ricerca e l’indagine per capire il circa, ciò che sta attorno.
Forse che il dire sottostà all’idea di sapere? “Non so cosa dire”. Oh, “Non so cosa dire”. Forse che il fare sottostà all’idea di sapere? “Non so cosa fare, non so come fare, non so. Oh, non so… Se sapessi, quante cose farei! Quante cose direi se sapessi! Allora sì! Se avessi saputo sarebbe stata un’altra vita”. Parlare, fare, non sottostanno al principio di competenza, né al principio di conoscenza, né al principio di pertinenza. Non c’è luogo della parola, del sapere, della certezza, della competenza. La parola è senza luogo.
Sapere cosa dire, cosa fare, come fare istituisce l’idea di misurarsi con il compito, con la missione, con la difficoltà. Misurarsi per stabilire se si è all’altezza, se si è abbastanza per sapere e per fare. E così ognuno si chiede, misurandosi, se sarà all’altezza e, misurandosi, evita la prova. “Intanto prendo le misure”, come le prende il falegname, anzi, adesso non c’è più il falegname, c’è direttamente il becchino che prende le misure senza più passare dal falegname, le misure per l’assegnazione del posto. Ognuno, misurandosi, si assegna il suo posto. Altrimenti, perché misurarsi, perché misurarsi con il compito? Se le cose procedono, perché misurarsi? Se le cose accadono, avvengono e divengono, perché misurarsi? Perché definirsi, perché credersi? Perché?
Tutto ciò fa parte della lingua del finito, della finitezza, della lingua del pregiudizio psichiatrico. Chi formula quest’ipotesi è un aderente del pregiudizio psichiatrico, che sia chiaro. Non c’è possibilità di compromesso: o si instaura lo statuto intellettuale nel dispositivo di parola o c’è il pregiudizio psichiatrico. È inutile ogni mediazione, ogni tentativo di misurazione, di compromesso o di approssimazione, “Mah, forse, solo un po’, ma non più di tanto”, quel che basta per evitare la blasfemia, l’accusa di differenza assoluta – non di differenza relativa, ma assoluta – quel che basta per evitare lo sconcerto dell’idea: “Ma cosa gli altri penseranno di me? Penseranno che sono diverso? Che sono diversa? Che non appartengo più? Che ho rinnegato l’origine, la famiglia, la genealogia?”. Ohibò! E, allora, il ricorso alla conformazione, a quello che, in ossequio all’animale fantastico, viene chiamato… Come viene chiamato quell’animaletto che si confonde sullo sfondo?
Si chiama ereditarietà!
Quinta conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola