La lingua della cura
La testimonianza è pericolosa. E come pericolo è da evitare. Quando, poi, si tratta della testimonianza intorno all’esperienza di parola, è ancora più pericolosa. Perché già fare l’esperienza della parola è pericoloso: espone alla blasfemia. Darne testimonianza è ancora più pericoloso, perché fare pubblicità alla blasfemia certamente pone a delle conseguenze. E occorre guardarsi dalle conseguenze. Conseguenze che possono imbattersi in un portatore del pregiudizio psichiatrico. Non sia mai! Preme, quindi, stare protetti, ripararsi, cautelarsi, avere un basso profilo. D’altronde, se anche Pietro fu giustificato per avere avuto paura, non una, ma almeno tre volte, come non giustificare la paura degli umani ancora lontani dalla santità?
La santità assicura l’assenza di paura, l’assenza di male, di peccato e di pena. E se non c’è colpa e non c’è pena, di cosa avere paura? Ma, a questa domanda gli umani non possono rispondere, in quanto, nel loro statuto, la colpa e la pena regnano sovrane. E ognuno ambisce a essere un degno rappresentante del genere umano. Altrimenti, che ci sta a fare nella società? La società è la società degli esseri umani e ognuno deve dimostrare di appartenere a questo genere. E per fare questa dimostrazione, quanto meno parla, tanto più appartiene al genere. Quanto meno instaura dispositivi di parola, tanto più appartiene al genere. Quanto più condivide il sistema della colpa e della pena, tanto più appartiene al genere. Quanto più partecipa alla paura, tanto più appartiene al genere. Quanto più sta riparato, cautelato, nascosto, tanto più appartiene al genere. Ognuno si cura di questo: di appartenere al genere, di stare nascosto, riparato, di cautelarsi, di essere conforme per non destare sospetto di blasfemia. Di avere pensieri conformi, uniformi, pacifici, controllabili, meglio se pochi; per non incontrare qualsiasi forma di disagio, agitazione, domanda, curiosità rispetto a ciò che non è già dato e conosciuto nel novero delle cose comuni, condivise, note.
Ognuno si cura, si cura di sé e si cura dell’Altro. Si cura dell’Altro che non intervenga nella sua vita. E, curandosi di sé e curandosi dell’Altro, ognuno evita la cura della parola, che non è la cura di sé e non è la cura dell’Altro. Non equivale a curarsi, a curarsi di sé, a curarsi da sé o a farsi curare. La cura non è guarire dal male, dal male di sé, dal male oscuro, dal male dell’Altro, da ciò che possa costituire indizio di differenza, dell’altra cosa, di anomalia. Di ciò che possa costituire spregio secondo le normali categorie dell’umana convenienza o dell’umana somiglianza.
La cura della parola è scevra dal pregiudizio psichiatrico, scevra dall’idea di male, di malattia mentale, di critica, di classificazione, di definizione. Comincia con la dissipazione del pregiudizio psichiatrico. E non è compito della cura dissipare il pregiudizio psichiatrico, vorrebbe dire attribuire alla cura il compito della salvezza e della guarigione dall’idea assurda. La cura non guarisce dall’idea assurda. L’idea assurda impedisce la cura, fa sì che la cura sia evitata per preservarsi dall’eventualità che possa risultare inefficace. L’efficacia della cura non sta nella somministrazione della salvezza o della presunta guarigione dal male. La cura è intransitiva. Non è la rappresentazione della liberazione dal male, dalla malattia, dalle idee strane per giungere al conformismo, alla conformazione, all’uniformità. Non è la rappresentazione della sottomissione, o della ribellione, o del fatalismo del bene o del male. La cura non assume l’ideale di salvazione né di perdizione. Tutto ciò sta nel pregiudizio psichiatrico. Tutto ciò sta nell’idealità di bene rispetto cui ogni umano si rappresenta come carente. Se questo paragone vige, non c’è cura. Se questo paragone è ritenuto valido, non c’è cura, se non la cura assicurata dal pregiudizio psichiatrico.
La cura procede dalla dissipazione del pregiudizio psichiatrico, non dal mantenimento dell’alternativa fra il bene e il male, e dell’alternanza del bene e del male per misurarli e per garantirsi il minimo male necessario alla sopravvivenza. Questa è la cura psichiatrica. Questo è il mantenimento del pregiudizio psichiatrico. Una volta accettato il pregiudizio psichiatrico, non c’è analisi possibile. La cura non è venire a patti con il pregiudizio e cercare di sconfiggerlo. No! La cura si instaura una volta dissipato il pregiudizio, cioè senza nessuna possibile convivenza con il pregiudizio psichiatrico, senza compromesso con il pregiudizio psichiatrico, cioè, con l’alternanza fra il bene e il male, con l’alternativa fra il bene e il male, con la posologia del bene e del male e con la possibile liberazione del bene dal male, grazie alla somministrazione della sostanza canonica, la sostanza salvifica.
Dunque, la cura non si instaura per volontà né per decisione, ma per l’accoglienza della parola, per l’accettazione intellettuale della parola, dei suoi principi, delle sue virtù. Si instaura con i cifremi del viaggio che indicano l’attività teorematica e cifratica: analisi e qualificazione di ciascuna cosa. Non è la cura volontaria, fatalistica, della salvezza, la cura con la speranza nella salvezza. Con la cura, nella cura, nessuna inerzia, nessuna predestinazione, nessun fatalismo. Nessuna volontà! Nessuna volontà di curarsi, di cura, di bene, di guarire, di migliorare; tutto ciò indica il rapporto di sé a sé. E il rapporto speculare alla propria soggettività, resa sostanza, è impedimento alla parola. La pervicacia del soggetto, la sua furbizia, sta nell’elusione della cura come cura del tempo, come cura della parola, opponendovi l’idealità del percorso di iniziazione, percorso terapeutico che dovrebbe consentire di perdere o migliorare il proprio pregiudizio su di sé e sull’Altro. È l’ideale di riscatto, un riscatto graduale dall’origine, dal male, dall’idea di sé e dall’idea dell’Altro, dall’idea delle proprie carenze, dei propri mali.
Ma, se non interviene la dissipazione e l’assoluzione della colpa e della pena, cioè mantenendo la credenza nella colpa e nella pena, nessun riscatto è possibile. Sta qui l’impaniamento del soggetto che si lamenta di non vedere i risultati. Per forza, il soggetto in quanto tale, che risultati può avere? Non può vedere i risultati del suo riscatto perché l’idea di riscatto è l’altra faccia del ricatto, cioè indica l’adesione al sistema della colpa e della pena. E il lamento del soggetto ruota intorno all’idealità della cura e della sua conseguente delusione. Cura ideale, cura delusa. Evitamento, rimando, dimissione, abdicazione sono modalità perché non ci sia cura. E il soggetto nella sua furbizia si assume la colpa, si critica, si colpevolizza, si giustifica, si lamenta, si dispera. E persevera. Perché proprietà del soggetto è la pervicacia, che impedisce l’instaurazione del dispositivo della parola, del dispositivo della cura. Ognuno tiene alle proprie idee, alle proprie convinzioni, alle proprie possibilità, ai propri attributi. Ognuno si giudica con gli attributi della linguistica del soggetto, cioè della lingua comune, della lingua parlata, del sistema della colpa e della pena.
Quale parola può instaurarsi con lo sbarramento attuato dal sistema della colpa e della pena? Dal sistema della vendetta? Dal sistema delle categorie sociali? Dal sistema delle categorie personali e soggettive? Quale parola può instaurarsi con lo sbarramento operato dal sistema che nega la lingua? E, infatti, il nemico è l’Altro. Altro mai lo stesso, mai conforme, mai riconoscibile, mai rappresentabile. La cura non è somministrata né somministrabile, né ricevibile né ricevuta. Mai ricevuta la cura. Chi si aspetta la cura come somministrazione della salvezza, vive peccando, ossia vive con il male davanti a sé per assicurarsi l’ultima salvezza. E, perciò, deve stare sul filo del cedimento costante, nell’alternativa e nell’alternanza fra il bene e il suo contrario.
Della cura ognuno ha la sua rappresentazione, la sua fantasmagoria che trova la sua base nel pregiudizio psichiatrico, nell’idea di essere carente di qualcosa, incapace, debole, malato, inadeguato rispetto all’idea di sé e dell’Altro, al rapporto di sé a sé e di sé all’Altro e dell’Altro a sé, nella fantasmagoria dei rapporti sociali. Tutto ciò nulla ha a che vedere con la cura del tempo, la cura della parola. Ognuno pensa che la cura sia un percorso terapeutico lungo cui perdere il male e acquisire il bene, per diventare finalmente un buon soggetto, ciò che vuole essere. E lungo questa rappresentazione del viaggio, finalizzato a diventare ciò che si vuole essere, l’evitamento della cura è garantito. La cura non è propria all’essere. La cura non è un percorso redentivo né espiativo, né di purificazione, catartico. La cura è il dispositivo e l’attuazione della parola. Procede dall’anoressia intellettuale, cioè dall’assenza di sostanza della parola. Non dalla verifica se c’è o non c’è, perché è a partire dall’anoressia che la teorematica può avvenire. L’idea di sostanza impedisce la teorematica. L’idea di essere impedisce la teorematica. Può consentire un dubbio, ma si oppone al teorema della sostanza. Per ciò occorre il dispositivo della parola e della particolarità, il dispositivo della procedura della parola e della tensione al valore, il dispositivo dove avviene il processo dell’oralità, della qualificazione e di valorizzazione, e non il processo catartico, o di purificazione, o di guarigione.
Con l’idea di essere malati la parola è tolta. Con l’avallo del pregiudizio psichiatrico la parola è tolta. Con l’avallo dell’idea di negativo la parola è tolta. La cura è il processo dell’oralità, della narrazione, del racconto. È il processo linguistico, non il processo di guarigione del male di sé o del male dell’Altro. Curarsi, guarirsi, dove sta il valore? La questione è come ciascuna cosa si valorizza. E come gli effetti del processo di valorizzazione istituiscano la salute. L’istanza di qualità è l’istanza di salute.
Ma se la qualità è abolita si attua un processo di ravvedimento delle proprie idee per il reinserimento nel sistema della colpa e della pena. Tutto ciò vanifica la parola perché la cura non è iniziatica e non è salvifica. Non ristabilisce la presunta purezza perduta. Ognuno rimpiange l’età dell’oro in cui tutto andava bene, le cose erano celestiali e non c’erano difficoltà. E ognuno vuole ritornare all’età dell’oro. Ecco, l’idea di ritorno all’età dell’oro è già pregiudizio psichiatrico. È già idea di ritorno all’origine, è già idea di mortalità, di fine, di circolarità. È l’ideale della cura per tornare alla normalità. La purezza della cura!
La cura non risponde alle intenzioni, o alle prescrizioni, o alle speranze soggettive. Non è funzionale a diventare ciò che ognuno vorrebbe essere. Tutto ciò è armamentario psicoterapico, è pregiudizio psichiatrico. Tutto ciò è umanità dolente e nulla ha a che vedere con la parola. Occorre capire la portata della blasfemia della parola, perché mettere in discussione il pregiudizio psichiatrico è blasfemia. Ma, o interviene la blasfemia oppure non c’è la parola, bensì il discorso psichiatrico. C’è l’appartenenza al pregiudizio e al compromesso tra il bene e il male, per gestirlo, per misurarlo, per sopportarlo. La cura non è automatica. Mantenendo la soggettività non c’è cura.
Volere fare, volere diventare, essere, pensare di potere o non potere fare, di sapere o non sapere fare, tutto ciò indica l’invischiamento, l’adesività, l’attaccamento all’ideale soggettivo che nulla ha a che fare con la parola. La parola è senza sistema di riferimento e i suoi effetti sono assoluti, imprevedibili, istantanei. Cercare di rimediarli, di contenerli è il contenimento della cura: “Non so se posso. Ci penso. Valuto. Riesco, non riesco. Potrei riuscire, non potrei riuscire. Ce la faccio, non ce la faccio”. Ebbene, tutto ciò contrasta la cura. Tutto ciò è indizio di soggettività contro la cura per mantenere il primato del sistema di riferimento, il sistema della colpa e della pena.
Senza la generosità, senza l’audacia, senza il rischio non c’è cura. La cura esige l’assoluto, non il relativismo delle intenzioni e della volontà: “Sì, voglio anch’io questa cosa. Però, non subito, non adesso. Un domani”. Relativismo algebrico e geometrico, relativismo della forza, relativismo del possibile e del probabile. Contro la cura il soggetto propone la determinazione della pena e della penitenza. Quanto espiare? “Dove?” indica il ritornello, “Dove ho sbagliato? Dove hai sbagliato? Di sicuro qualcuno ha sbagliato. Ho sbagliato io? Hai sbagliato tu? Abbiamo sbagliato insieme?”. La ricerca della colpa, dello sbaglio, la ricerca dell’errore come errore morale, come sbaglio morale, della colpa è per potere somministrare la pena.
La cura breve. È preferibile che le cure siano brevi, altrimenti si tratterebbe di accanimento terapeutico. Contro l’accanimento terapeutico, la cura breve. Ma, perché la cura dovrebbe finire? Se la cura è il dispositivo della parola, cioè dispositivo di vita, di qualità, perché la cura dovrebbe finire? Per soddisfare la propria superstizione sulla fine della vita. Se qualcos’altro finisce, allora la mia vita prosegue per la legge della probabilità, dei grandi numeri, per legge statistica, insomma, per superstizione.
La cura non è algoritmica, non è canonica e non ha finalità di bene. Questa la cura blasfema: la cura che non si prefigge e non promette il bene dell’Altro! E come potrebbe? La direzione della cura è la direzione della domanda, non già l’inserimento sociale, o la normalizzazione, o la redenzione, o la purificazione, o la spiritualizzazione per assecondare l’unione con l’ente supremo. Non è questo il fine della cura. Ogni cura che si prefigge il bene dell’Altro è la cura che ha come fine la riunificazione con il bene perduto e poi ritrovato: la cura circolare. Ogni connotazione, ogni attribuzione alla cura di finalità morali, sociali, pedagogiche, sanitarie è assurda. Totalmente assurda! Tutto ciò è nella concezione di umanità come carne da macello che deve giungere alla frollatura, è la cura che garantisce la frollatura per il corretto cannibalismo.
La cura è libera. Gli effetti sono liberi. I risultati sono liberi. Non è sistemica, non è sistematica. Non propone la padronanza, il controllo, la capacità di gestire il tempo e le cose, né il ripristino della presunta padronanza e controllo perduti per via di male. Non è la cura che deve instaurare il dominus o il principio dell’impero, con il controllo, con la padronanza, con la gestione per instaurare il pensiero puro o il pensiero radicale. Non deve soddisfare la concezione ideale di vita, né risponde alla concezione ideale della vita. Non instaura la vita ideale da contrapporre alla vita reale insoddisfacente, dura, difficile. Ogni paragone con il reale porta alla coincidenza con l’ideale e abolisce la cura. E per fortuna che la vita ideale non è mai raggiunta, perché sarebbe la morte! La vita ideale è la vita dell’aldilà, in vista della quale ognuno si assegna una penitenza. Penitenza che è preziosa per il conseguimento della vita ideale. L’idea stessa della vita ideale si oppone alla cura.
Pensare, pensarsi, credere, credere di essere, volere diventare, volge all’adesione al pregiudizio. Adeguamento, conformazione, uniformazione sono modi per accettare la pena e la penitenza. L’osservanza delle prescrizioni, rispetto all’adeguamento e alla conformazione, mira a risolvere l’impossibile gerarchia dell’alto e del basso: “Sto su o sto giù? Sono su o sono giù? Sto in alto o sto in basso? Sono dentro o sono fuori? È meglio chi è più dentro o chi è più fuori? Chi è più forte o chi è più debole? Quale gerarchia adottare?”. L’osservanza risolve l’oscillazione fra dominante e dominato. L’idea di miglioramento è idea farmacologica. Perché si somministra il farmaco? Perché fa bene, perché dà dei miglioramenti, per stare meglio. Per stare meglio ci vuole la sostanza, l’idea sostanziale.
Ma la cura sta nell’instaurazione del dispositivo di parola dove, a parlare, è la dissidenza della parola. Parlando, non si tratta di confermare nessuna parentela o appartenenza, nessun canone, nessuna affinità, congenericità o diversità. Non c’è d’appartenere o non appartenere. Parlando, la parola è libera. Con quali effetti? Con quali contributi? Con quali indicazioni? E quale lingua occorre perché si instauri il gerundio nel parlare? Quale lingua? La lingua solita? La lingua conosciuta? Il dialetto?
C’è chi, per evitare l’estraneità dell’alingua, tenta il dialetto come lingua materna perché non siano messe in questione le solite categorie sociali, l’attribuzione al soggetto dei suoi attributi. Ognuno che parla la sua lingua, nega la parola con le migliori intenzioni. Eppure parliamo, stiamo parlando, dialoghiamo, ma non è questo il parlare. Che ne è della parola se la sua particolarità è negata? E la particolarità sta nel suo numero: numero singolare triale e numero duale. Se ognuno parla come mangia e pensa che la relazione sia relazione sociale, di “essere in relazione con”, e difende la modalità relazionale animale, di che cosa stiamo parlando? Se ognuno pensa che la sessualità sia l’erotismo, omo o etero, da definire e da chiarire per timore che possa essere confuso l’uno con l’altro, di cosa stiamo parlando? Del compromesso!
Tolta la lingua, tolta la parola, tolta la cura, e usando le categorie e le fantasie della soggettività, della padronanza, del controllo, della possessione, del contatto, della rivalità, della gelosia, dell’invidia, della gerarchia, della prestanza, a quale qualità si approda? A quale valore? Presumere che esistano queste categorie, che la lingua sia la solita, lingua di vocabolario, che la parola sia parlabile, ebbene, tutto ciò è fantasmagoria, è psicologia, è pregiudizio psichiatrico, è credere nella propria personalità, nella propria soggettività, nell’implicazione della propria origine. Tutto ciò è mitologia, è fantasticare un mondo migliore anziché dissipare l’idea di mondo e ciò che trae con sé. È negazione della cura. È coltivare l’idea dell’aldilà. È fantasia purista. La parola procede dal ringraziamento e dal sorriso, dall’ironia, dall’apertura, non dal mondo. Il mondo è senza parola. Come diceva Ionesco, il mondo è invivibile. Il correlato dell’idea di mondo è l’idea di organismo.
Decima conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola