La lingua civile
Chi tende a minimizzare quel che si dice, asserendo che si tratta solamente di un modo di dire, per esempio quando può intervenire un lapsus, una svista, uno sbaglio, un errore, ebbene, può ricredersi sulla portata dei modi di dire. Nella procedura della parola quel che si dice si fa, e quello che non entra nella procedura del dire e nel processo di qualificazione non giunge al fare. È impossibile saltare la procedura e la sua integrazione. Chi ritiene che può prescindere da quello che si dice resta in attesa della volontà del daimon, perché le cose possano accadere in dipendenza di questa volontà; e resta in attesa.
Quando l’esperienza è sorta, il mito dell’intellettuale nella civiltà della parola, nell’esperienza della parola, era lo psicanalista come posizione di sembiante, come provocazione, provocazione intellettuale alla novità, al rischio, all’impresa, al dibattito, alla scrittura, alla parola. Lo psicanalista anche come profezia, come promotore intellettuale del progetto, della domanda, del programma di chi vi si imbatteva, fino alla redazione della domanda in direzione della scrittura, della pubblicazione, dell’editoria, dell’edizione, in direzione della qualità. Questo mito, oggi, è come se non avesse valore anche per chi si accosta all’esperienza della parola, come se l’esperienza della parola fosse svincolata dalla questione intellettuale, dalla posizione del sembiante, dal sembiante stesso, intendendo l’esperienza della parola come viatico all’attuazione di un lavoro, oppure come cosa inutile.
La questione intellettuale, oggi, è vanificata dalla modalità canonica del sapere e dall’intervento di un canone automaticistico e algoritmico, dove si tratta, in ogni caso, dello standard, del giungere a uno standard, di applicare e di aderire a uno standard. Quest’applicazione dello standard vige nei vari strati sociali, dall’imprenditoria al professionismo, dall’insegnamento alle varie istituzioni, e questa prescrizione allo standard trae con sé la prescrizione che la lingua deve essere comune e approssimativa, per potere significare in modo indistinto le cose, per rendere possibile una comprensione di massa, di quella che una volta era chiamata massa e oggi si chiama genere. Non più la lingua della parola ma la lingua del genere, la lingua dei soggetti, la lingua comune.
Questa rarefazione linguistica caratterizza ciò che si costituisce nell’epoca come il succedaneo dell’esperienza della parola, quel succedaneo chiamato psicoterapia e che mira a inglobare, in questa concezione delle cose senza parola, anche la psicanalisi, intesa non già come esperienza di parola, ma come modalità di applicazione di schemi comportamentali, a loro volta conformati a schemi di giudizio morale e comportamentale. Il successo della psicoterapia nei confronti della psicanalisi, sta nel fatto che rilascia la patente di attante sociale, di professionista e nel fatto che garantisce, a chi vi si rivolge, un lavoro sociale non già caratterizzato dalla ricerca e dall’impresa intellettuale, ma dall’etichetta di professionista del controllo sociale e dell’applicazione del canone sociale. Cioè, il successo della psicoterapia sta nel fatto che toglie il rischio della parola a favore dell’applicazione di uno schema, di un fine. La psicoterapia è finalizzata al recupero sociale, e anche per questa via è propugnata dall’epoca la comprensione, la comprensione di genere che, una volta abolita la parola con la sua esperienza, su cosa si fonda? Sulla struttura encefalica.
La comprensione di genere è una conseguenza della struttura encefalica che procede, per esempio, dall’empatia e dalla comunanza di messaggio, di genere, di lingua. Questa struttura non necessita più della comunicazione, della parola, del messaggio, della qualificazione di ciascuna cosa, ma unicamente dell’empatia. Una volta che si struttura l’empatia, non c’è più la necessità di parola, perché con l’empatia si attua l’omogeneizzazione del pensiero, l’impossessamento dei desideri e dei bisogni dell’Altro, che non necessitano più di traduzione, ma di spiegazione. Come spiegare all’Altro ciò che desidera, ciò di cui ha bisogno per il suo bene: ecco l’empatia nella sua applicazione! Questo, allora, diventa il cavallo di battaglia delle istituzioni preposte all’incultura e, come fondamento dell’empatia e della metodica empatica che non necessita più della parola e della sua esperienza, ma dell’omogeneità di pensiero e di azione, ecco quella che viene pubblicizzata come la scoperta del secolo, ma che in realtà è, invece, questa volta sì, un’invenzione, l’invenzione dei neuroni a specchio.
Di cosa si tratta in questa che viene pubblicizzata come scoperta? Scoperta che indicherebbe che questi neuroni ci sono sempre stati, ma noi non ce n’eravamo accorti e finalmente li abbiamo scoperti, ma che invece sono stati inventati? Ecco, questa invenzione ha lo scopo di promuovere non già la comunicazione e l’interlocuzione, ma l’imitazione come modello della cura! Si tratta di imitare il modello, il canone, si tratta dell’imitazione dell’Altro canonico; l’imitazione così sarà indice della comprensione e sostituto della comunicazione. Si tratta di diventare imitatori del modello comune di riferimento. La morte cerebrale è così assicurata, si tratta solo, di volta in volta, di certificarla per farne il funerale.
Eppure, questa idea funebre della questione intellettuale, questa idea funebre dell’idea senza parola, ha molti epigoni, seguaci, fautori e non solo fra quanti si dichiarano nemici della parola, ma anche fra chi e quanti sostengono di propugnare la parola, di aspirare alla questione e alla formazione intellettuale, a condizione, ovviamente, che la questione intellettuale non risulti così ostica, così impraticabile, dato che non è imparabile ma esige l’esperienza, la sua attuazione, la sua scrittura, la solitudine, l’impossibile compagnia, l’insieme non come compagnia ma come sembiante, l’insieme che è impossibile condividere.
La questione intellettuale non è questione astratta, ideale, ma è la questione della parola, della sua qualificazione e della sua qualità, dunque della qualità della vita non come qualità ideale, ma qualità che esige la trasformazione rispetto al modo comune di considerare, di pensare, di credere alle categorie, a quelle categorie che istituiscono il pensiero, la lingua e la filosofia comune, la comunanza, la possibile condivisione. La possibile condivisione è il riferimento a categorie comuni; se togliamo le categorie comuni, come potere invocare la condivisione di qualcosa? Dunque, l’appello alla condivisione è l’appello al mantenimento di un postulato, di un fondamento comune cui ognuno si deve rivolgere per mantenere un riferimento che possa fare gruppo, insieme sociale, casta, genere, appartenenza.
Credere che l’itinerario intellettuale si scriva senza l’altra lingua e la lingua altra, quindi si scriva nella lingua comune, nella lingua della condivisione, del gergo, delle categorie del sapere canonico, universitario, del sapere cui ognuno ritiene di potere fare riferimento in quanto è sapere della storia, del passato, dello scibile, ecco, credere questo è già abolire l’itinerario per farne una questione nominalistica e non di esperienza autentica, per farne esperienza formale, da propaganda. Così, attribuirsi o attribuire alle cose, agli avvenimenti, a quello che accade, le categorie del discorso filosofico o psicologico, con l’uso delle modalità anziché l’uso di ciò che si qualifica, è una negazione della questione intellettuale e della ricerca, è la negazione dell’impresa della parola e dello statuto del ricercatore.
Il cifratore è il ricercatore in quanto non parla la lingua altrui, ma si imbatte, parlando, nel balbettio che non è la balbuzie, si imbatte nella lingua con ciò che comporta. Riferirsi, invece, alla lingua dei luoghi comuni, alla lingua delle categorie, vuole dire somministrare a sé, agli altri, alle cose, il pregiudizio psichiatrico, abolendo la notizia, la novità e quello che si produce dalla ricerca, dalla qualificazione e dalla scrittura.
Quale scrittura civile può sorgere se vige il pregiudizio di essere sostanza, una sostanza imperfetta, finita? Quale scrittura civile se alla parola è anteposto il pregiudizio sostanziale, se l’accoglimento della varietà e della differenza, della sfumatura, è negato a favore della lingua comune? In questo caso non c’è parola perché è negata, perciò non si instaura e non si scrive. Non c’è parola e non c’è memoria, non c’è dispositivo perché il dispositivo è negato dal pregiudizio di chi si crede di essere mancante, carente, imperfetto, insufficiente, affetto da qualche male e, quindi, condannato alla timidezza, alla paura, alla ritrosia, all’attendismo.
Negando la parola, negando il dispositivo, è negata l’esperienza, l’efficacia, la formazione e l’insegnamento, perché ognuno preferisce rimanere e essere ciò che si crede, evitando il rischio, continuando a zoppicare, procedendo nell’alternativa, praticando una parte del dispositivo e non la gamma del dispositivo, perché ciò sarebbe eccessivo, sarebbe troppo, troppo impegno, troppo dispendio, troppo investimento. Troppo, meglio limitarsi per potere continuare a lamentarsi rispetto all’ideale che non è mai raggiunto, e che deve rimanere ideale per evitare lo statuto nuovo, lo statuto intellettuale, con lo spalancamento che questo può comportare rispetto a quella che ognuno ritiene essere la via da percorrere. Lo statuto intellettuale è seguace della parola, non della via da percorrere, non della via prescritta, non di ciò che ognuno ritiene essere la sua predestinazione.
La circospezione non è una proprietà della ricerca ma una riserva rispetto alla ricerca. Eppure, quanta circospezione! La circospezione, cioè l’indice della paura e del sospetto verso la ricerca e verso l’impresa della parola; paura, riserva e rimando verso l’avvenire. E ognuno si lamenta che l’avvenire non avviene mai. Ma, quale avvenire? L’avvenire ideale, rappresentato, idealizzato, agognato ma che non può avvenire, proprio in quanto ne è la rappresentazione e non l’instaurazione del gerundio. L’avvenire sta nel gerundio, non in un tempo posto in un domani come domani migliore.
Ognuno ha paura di tradire l’origine, di dimenticarsi dell’origine, altrimenti, come potrebbe mantenere l’etichetta cui si ispira? Questa è la questione: in che modo ognuno che si lamenta si applica un’etichetta che non analizza, ma da cui si fa rappresentare! L’ombra dell’origine grava sul terreno dell’Altro, l’ombra della fine grava sul terreno dell’Altro e il terreno dell’Altro è tolto, l’humanitas è tolta, le virtù intellettuali sono tolte, il rischio di parola è tolto. È perseguita la soggettività, l’idea di sé, l’idea che il pregiudizio psichiatrico rilascia di sé, perché la cosa più difficile da dissipare è il pregiudizio psichiatrico, che è il vero collante sociale, ciò con cui ognuno si fa compagnia. Abolire l’Altro impedisce la questione intellettuale e l’Altro è abolito quando interviene la prevenzione, un pregiudizio, una credenza, una convinzione, l’idea di sé, l’idea di sapere cosa è meglio fare per il proprio bene.
Con la circospezione ognuno va piano e pensa di andare lontano e sano. Come diceva una volta un proverbio? “Piano piano si va sano e si va lontano”. Sì, lontano, ma lontano dalla parola, lontano dal rischio. E dove? Spazialmente! Ma così non si instaura l’altro tempo, l’altro modo, non si instaura l’Altro, l’arte, l’invenzione. E ognuno resta quello che si crede perché applica il criterio del male minore, il piccolo, minimo, male necessario e attribuisce all’Altro quel pregiudizio psichiatrico che fa sì che venga evitata la ricerca, l’esperienza, il rischio di parola.
E quanti modi di applicazione del pregiudizio psichiatrico! Un modo è quello di credere che prima occorre diventare perfetti e poi si potrà cominciare a fare qualcosa d’importante; prima e poi. Prima e poi è il rimando! Invece, il soggetto ritiene che “prima e poi” sia una dimostrazione della padronanza, del criterio, della ragionevolezza: “Ah, che persona a modo!”. Prima completa la sua formazione, il suo essere, il suo sapere, prima ne sa abbastanza, poi, può avventurarsi a parlare e a fare, come i bambini che prima devono crescere, poi, quando saranno cresciuti, ecco che possono. E così ognuno si tiene per mano, tiene per mano il bambino che crede di essere, in attesa che cresca, perché crescerà quel bambino, basta aspettare e crescerà, mangerà tanta buona sostanza e crescerà, e allora, poi, potrà fare, perché saprà fare quello che dovrà fare, perfettamente inscritto nella sua predestinazione, nella predestinazione sociale. Sarà questo l’intellettuale civile? No, sarà un essere umano, un soggetto, un nemico della parola, sarà un morto vivente che ha applicato a sé il giro della morte.
La questione, per chi si avventura nella vivenza, non è il giro della morte, ma è la questione intellettuale, è l’itinerario intellettuale, e ciò che importa dell’itinerario non è la sua fine nella costituzione di un soggetto pieno di sé e pieno di sapere. Ciò che importa dell’itinerario di ciascuno sono i cifremi, i cifremi dell’itinerario, che indicano la qualificazione di ciò che si dice e si fa, nell’attuale dell’itinerario, non l’applicazione di una gergalità, ma la testimonianza che l’itinerario è in corso procedendo dall’analisi e dalla qualificazione delle cose. Non si tratta del grado di perfezione ideale da raggiungere, dell’essere ideale da assumere, della prestanza ideale da acquisire e da dimostrare, ma è l’autenticità del cifrema, l’esperienza, la sua singolarità, la sua particolarità, la sua specificità, il balbettio con cui si enuncia e che indica che l’itinerario è in atto, non la sicumera di chi ha imparato il copione delle cose da ripetere. No, il balbettio di chi trova, tra le tante cose, quante si dicono qualificandosi, quindi parlando. Ciò indica che l’itinerario è in atto nella conversazione, nella narrazione, nel racconto, nella scrittura, nella testimonianza, nel dibattito, e non con la corrispondenza di quello che ognuno ritiene di dovere dire con la canonica letteraria, vera o presunta tale. Nessun adeguamento al canone per via dello statuto intellettuale, ma il rischio di parola, l’accoglimento del rischio di parola.
Nel dispositivo intellettuale avviene la cifratura delle cose che si dicono, la cifratura del discorso cui ognuno ritiene di appartenere, per la sua dissipazione, non per il mantenimento di questo vincolo ideale alla lingua familiare, di genere, di gruppo, di origine, per la dissipazione del presunto discorso di appartenenza e, quindi, del legame e delle pastoie che fungono da gabbia. La questione è quella dell’accesso alla parola, non l’uso. L’uso segue l’accesso; accesso alla parola, alla sua logica, alla sua struttura, con il dispositivo. Allora può intervenire l’usura, ma senza l’accesso non c’è da credere o sperare che le cose vadano comunque in direzione della qualità, che le cose si qualifichino comunque senza che vi sia lo sforzo della qualificazione, che le cose si scrivano comunque, che approdino comunque, per potere lamentarsi che tutto ciò che è ritenuto automaticistico non è avvenuto e non avviene. Negando la domanda, lo sforzo e il dispositivo, si nega la parola e i suoi effetti, che non ci sono comunque, come testimonia l’epoca con i suoi vincoli, con le sue ideologie, con le sue metodologie, con le sue prescrizioni.
L’itinerario esige le prove, prove di realtà e di verità, che non sono esami da superare o da non superare, sono indicatori. Le prove di realtà e di verità sono indicatori che l’annunciazione è in atto, che il dispositivo è in atto, che l’analisi è in atto, per cui non c’è più la pretesa, l’idea, il miraggio della soluzione. “Ma questa cosa si risolverà? Si risolveranno queste cose? Questo problema si risolverà? C’è soluzione?”. Certo, perbacco! “Ma, me lo assicura? Può garantirmelo? Ci sarà soluzione a questo pregiudizio psichiatrico?”. C’è analisi, non c’è soluzione! O il pregiudizio psichiatrico si dissipa perché c’è analisi, oppure non c’è soluzione al pregiudizio psichiatrico, neanche a quello. Ribadisco che l’analisi è la teorematica, la teorematica dell’oggetto nella sua tripartizione e, quindi, è teorematica dello specchio, causa di godimento, teorematica dello sguardo, causa di desiderio, teorematica della voce, causa di verità, che diviene teorematica del sintomo, teorematica dell’impasse, teorematica del punto di oblio.
Non c’è magia, non c’è ipnosi, non c’è soluzione, “non c’è più soluzione”. C’è teorematica! Questa è l’analisi. Quindi, c’è l’audacia di tenere conto della logica particolare della parola, che non è la mia logica particolare, che ognuno ritiene di avere applicandosi il pregiudizio psichiatrico. “Eh, ma io ho la mia logica!”. Bravo, tienitela, bravissimo! “Ho la mia logica io e devo tenerne conto, se no potrei correre il pericolo di diventare un altro, invece no, devo essere me stesso e mantenere la mia logica”. La mia logica! E allora, di cosa stiamo a parlare? Di rimanere quello che si è, anzi, di rimanere quello che ognuno crede di essere. Che c’entra questo con l’analisi? Per questo basta praticare l’autoempatia, la condiscendenza verso le proprie idee, verso i propri presunti limiti, verso le proprie presunte possibilità o capacità e, insomma, verso la sostanzialità soggettiva che si crede di dovere rappresentare. Ma che c’entra questo con l’analisi? Con la questione intellettuale? Con l’esperienza di parola? Con l’itinerario intellettuale? Che c’entra il criterio della sufficienza con questo? Sufficienza dell’investimento: abolizione dell’Altro; l’Altro nella sembianza è investimento. La misurazione dell’investimento è abolizione dell’Altro, abolizione della sembianza e dell’immagine, è mantenimento della sostanzialità di sé, è come mantenersi tali. “Io ho dei problemi”. Eh, chissà perché! “Eppure mi muovo con circospezione, sto attento a quello che faccio, a quello che dico, a non eccedere, misuro anche i miei pensieri, non capisco… Mi controllo quanto più possibile… Non so…”. Tutto ciò è l’idea di sé, l’idea dell’Altro, l’idea del nulla. Come nullificarsi nell’attendismo? Attendendo il demone salvatore, o la redenzione, o che il male si converta nel bene. Attendendo, l’unico modo per il soggetto di praticare il gerundio! Attendendo. Non parlando, facendo e attuando i modi della parola. No, attendendo! E il soggetto non capisce perché, praticando questo gerundio, non coglie i frutti che il gerundio dovrebbe dispensare. “Io sono qui che attendo a braccia aperte”!
L’attesa può essere dissipata solamente con l’analisi, cioè con la teorematica dell’attesa, non con ciò che la conferma, non applicandosi i giudizi, le condanne, le colpe, le rivendicazioni o le recriminazioni contro il daimon che non ha fatto abbastanza, che non fa abbastanza: “È lui che si limita nei miei confronti. Non mi fa abbastanza bene, non mi dà abbastanza salvezza, non mi toglie il male”. Il daimon come forma dell’Altro e dell’oggetto, come pretesto della rivendicazione e del mantenimento dell’attendismo. Prima, poi, un dì, forse…
Se la ricerca esige la prova di verità, l’impresa esige il contingente: la prova di verità e di riso, la prova pragmatica. La prova pragmatica accade facendo, non pensando di fare, non facendo mentalmente la prova di quello che potrebbe accadere facendo, “se facessi”, evitando così la prova. Evitando la prova, nulla accade. Il contingente esige la prova pragmatica e non già il metalinguaggio, cioè il parlare sulle cose senza l’attuazione, senza l’intervento del gerundio, sperando che tra il dire e il fare possa misurarsi il prima e il poi: “Prima dico le cose e poi le faccio”. Ma, nessuno dice le cose e nessuno le fa, perché “quel che si dice si fa”; nessuno dice le cose e nessuno le fa.
Chi si trascina come soggetto non accede al fare, impedisce l’instaurazione del gerundio e si lamenta che accadano ogni sorta di inghippi, inciampi, rallentamenti, ritardi: “Sono sempre in ritardo, non so perché. Eppure, ero lì, sul punto di fare, sul punto di partire, sul punto di arrivare. Eh, era già tardi! Non so come mai, non so come questo possa accadere proprio a me, che sono così attento a misurare il tempo, a stabilire il prima e il poi”. Tra il prima e il poi non c’è passaggio, il tempo non interviene tra il prima e il poi! È curioso, ma il ritardo è uno stigma del soggetto, perché si barcamena tra il prima e il poi, nell’attesa che quello che prima era difficile o sembrava difficile, pericoloso, evitabile, poi possa diventare facile, senza rischio, senza sforzo, automatico. Attesa, attendismo, rimando, ritardo, misurazione dello sforzo, del denaro, dei soldi e del tempo, ebbene, tutto ciò non sta nella parola, ma sta nell’idealità pura e radicale di sé e degli altri, di sé e dell’Altro, di sé e della vita ideale, della vita pura, della vita radicale.
Parlando si precisa la via pragmatica, perché quel che si dice si fa, tende al fare, non a aspettare che il soggetto sia pronto, “pronto da mangiare”. Il soggetto cannibale si mangia le sue paure; è la sua anoressia. Anoressia e bulimia: come mangiarsi le proprie paure, le proprie idealità, le proprie circospezioni sperando nella liberazione, misurando il tempo, applicandolo come taglio sostanziale.
La questione è l’itinerario, la questione è intellettuale e sta nella scrittura, nella lettura, nella restituzione, nei modi della restituzione. La riuscita avviene con la restituzione in qualità, non con la circospezione, con l’attendismo, con la perfezione da raggiungere un domani. Quanto più c’è complicità con il rimando, con il rinvio, con la misurazione, con il risparmio, tanto meno possono avvenire la restituzione in qualità e la riuscita, che stanno nella restituzione in qualità, non nel diventare quel che si crede di dovere diventare. Questa è mitologia psichiatrica, filosofica, psicologica e sociologica. Sono categorie dell’essere che non hanno nulla a che vedere con la parola, né con la questione intellettuale, con l’itinerario.
Ciò che si è avuto esige la restituzione in qualità, questo è il ringraziamento! E senza ringraziamento, ognuno sta nel suo gruppo, nella sua origine, nel suo essere. Della cifratura occorre la restituzione in qualità, sta qui il contributo alla civiltà! E il contributo è di ciascuno, non è misurabile, non è quantificabile; la civiltà si instaura per questo contributo di ciascuno in qualità, contributo cifrematico per via di cifremi, non per via di sostanza, ma di cifremi, incredibili, impensabili, nuovi, indicativi di un tragitto unico per un contributo alla vita altra. E se ciascuno offre il suo contributo l’epoca non c’è più, non c’è più l’epoca da combattere, da sanare, da contrastare, da convertire; non c’è più da fare la guerra all’epoca se ciascuno dà il suo contributo in qualità. Non c’è più l’epoca ideale che fa da gabbia, da contenimento alla domanda, non c’è più il sé ideale, non c’è più l’Altro ideale, o la società ideale, o l’avvenire ideale, non c’è più il male dell’Altro o il male di sé da cui ognuno si crede affetto. “Ma chi te lo fa fare, ma tu questo itinerario, chi te lo fa fare?”. La gabbia sta già nell’idea di fare per sé o di fare per l’Altro, sta nell’idea di dovere giustificare quello che si dice e quello che si fa. Due modi, questi, di rispettare la dedica di ciò che si fa, per giustificare, moralizzare, per indicare la finalità di bene. “Ma chi te lo fa fare? Lo fai a finalità di bene? Ma ne hai vantaggio? E qual è il vantaggio? Ne trai qualcosa di buono? Ma lo fai per te o lo fai per l’Altro?”. Fare per sé o fare per l’Altro sono due modi per evitare il narcisismo della domanda, il narcisismo della cosa che indirizza la domanda alla qualità e non al bene inteso come bene comune.
La formazione, l’insegnamento, la memoria sono narrativi, sono linguistici, non sono ideali, sostanziali, reali. Sono narrativi e non sono da situare alla fine del viaggio. Ciò che conta, per l’interlocutore che si imbatte nel testimone della qualità della parola, ciò che vale e trae all’interesse, all’emulazione, all’ascolto, è constatare che il viaggio di chi dà testimonianza è in atto, è in corso, non finisce, non sta nell’etichetta che ognuno può affibbiarsi o affibbiare all’Altro, non sta nel nulla da trovare, ma in ciò che testimonia la ricerca come ricerca della qualità.
Settima conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola