La forza, l’orgoglio, la missione
“Debellare” è un’immagine bellica; debellare la paura, è una delle mitologie dell’epoca: il debellamento, cioè la guerra a fine di bene. Come debellare il male, come debellare la povertà, come debellare le malattie, come debellare il cancro, come debellare: la guerra a fine di bene. E intanto si fa la guerra. E intanto questa mitologia di dovere andare contro il male, quindi di localizzare il male, di situarlo in qualcosa, persiste, anzi viene confermata. In fin dei conti, quale guerra non è a fine di bene? Allora, debellare la paura, ma la paura non è originaria, la paura è una forma di reazione, è l’affermazione di una superstizione. Ma come debellare la superstizione? Debelliamo i superstiziosi? Togliamo di mezzo tutti i superstiziosi, come quel tale che diceva: “Nel nostro regno non esistono più assassini, abbiamo ucciso l’ultimo poco fa”? La purezza, la purificazione, ogni campagna di debellamento punta a questa purificazione. Ma come debellare la logica? Si può debellare la logica o si tratta di intendere la logica, intendere la logica dell’epoca, intendere la logica della parola? Ma per intendere la logica dell’epoca occorre avere assunto la parola, non è che prima io capisco qual è la logica dell’epoca e poi capisco la parola nella sua logica. Può avvenire il contrario. Quindi è dalla non accettazione intellettuale dell’epoca, con i corollari che l’epoca trae con sé, che l’epoca non c’è più, senza doverla debellare. L’epoca non c’è più se c’è la parola, senza dovere fare nessuna guerra. Quindi la questione non è debellare la paura, debellare il male, debellare il sintomo, ma accogliere la logica della parola, situarsi nella parola, fare l’esperienza della parola originaria. Come, dunque, mettere in questione le abitudini? C’è chi dice: “Ma io non ho abitudini”, e magari non si accorge che dice: “Ma io, solitamente, di solito, quando io faccio… quando io prendo… quando io dico…”. Questo già comporta l’idea di pluralità di gesti, di parole, di pensieri, di occasioni, di momenti in cui dovrebbe avvenire qualcosa che si ripete, di solito. L’idea del plurale è l’idea del solito, è l’idea dell’abitudine, è l’idea di qualcosa cui fare riferimento, come qualcosa che si ripete in quanto tale. Questo è già mentalità, mentalità e abitudine. Per un verso è l’idea del passato che ritorna, che può ritornare, per l’altro verso è l’idea di un’ipoteca sull’avvenire. “Quando io dico, quando io faccio così” è l’ipoteca su quello che farò, perché lo farò così, è un’ipoteca su quello che penserò. Il plurale come modo dell’abitudine, come modo della mentalità, come modo della riserva. Ciò che è in atto è senza relazione con il passato, quindi è in atto come inedito, come qualcosa che non è già stato. Non si sta ripetendo qualcosa che è stato, ma è qualcosa da capire nella sua singolarità, nella sua attualità. Il discorso occidentale è il discorso dell’abitudine, e l’abitudine volge l’avvenire in promessa come minaccia. Dunque il discorso occidentale è il discorso dell’alternativa tra la promessa messianica e la minaccia apocalittica; da questa ipotesi dell’abitudine sorge lo stupido, il quale si qualifica in due modi, ottimista o pessimista. Lo stupido, quello che vede l’avvenire in modo ottimistico o pessimistico senza ragionare, senza la parola. L’ottimista è per la salvezza a ogni costo, “comunque sarò salvo”, quindi crede nella promessa del bene. Il pessimista è per l’apocalisse totale, salvezza negata, il male, trionfo del negativo. Apocalittici e messianici partecipano della morte bianca, che è la vita senza la parola, dunque la vita senza adeguamento, la vita ontologicamente intesa secondo una credenza nel male o nel bene, secondo una credenza nel canone vigente, nella superstizione prevalente, dunque senza adeguamento. Ma non adeguamento a qualcosa, adeguamento a qualcuno, adeguamento a una ideologia, non l’adeguamento inteso come conformazione, conformismo ma adeguamento senza predestinazione, adeguamento come indice della contraddizione, adeguamento che procede dall’equità. Equità della superficie, intesa sia come apertura, sia come squarcio, adeguamento, quindi come indice della contraddizione, del due, come abbiamo visto la settimana scorsa, contraddizione il cui modo è l’inconciliabile, senza alternativa alto-basso, senza dicotomia bene-male. Senza dicotomia, quindi contraddizione il cui modo è l’ossimoro. E contraddizione del tre il cui modo è quello dell’equivoco e che ha la sua sede nella sintassi. Quindi, l’adeguamento è sia indice dell’apertura e sia indice dell’equivoco, adeguamento in un’accezione assolutamente nuova rispetto all’accezione comune che prevede un adattamento. Qui si tratta dell’adeguamento senza adattamento a qualcosa di già dato; se vogliamo proprio indicare una prossimità, è adeguamento alla logica della parola, adeguamento alla parola. Il modo intellettuale esige questo adeguamento, questa equità, dove, data l’equità, non c’è più equazione, non c’è più il riporto a zero, non ci sono più i due termini dell’equazione che devono equivalersi; ciascuna cosa si trova nell’assoluto e nel suo estremismo senza equazione possibile. Questo è l’adeguamento all’assoluto, adeguamento all’estremismo della parola. L’adeguamento è il modo della relazione originaria. Nessuna relazione interpersonale, nessuna relazione soggettiva, nessuna relazione sociale, ma la relazione originaria che trae il suo modo nel modo del due, cioè nell’inconciliabile. Allora, adeguamento senza coerenza. O c’è questo adeguamento originario o c’è la coerenza, ma la coerenza di cui abbiamo accennato qualcosa la settimana scorsa a cosa si appunta? Possiamo anche qualificarla come l’altro nome del conformismo. La coerenza come conformismo, conformazione. Quest’idea di coerenza esclude l’infinito della parola e esige invece il sistema di riferimento, il sistema dove ogni elemento dipende e è in relazione con gli altri elementi. Ma dunque, dicevamo dell’adeguamento. L’adeguamento che è ironico per quanto attiene alla relazione e all’apertura è equivoco per quanto attiene alla sintassi. Come padroneggiare l’adeguamento? Come presumere di potere maneggiare, padroneggiare, rendere volontario l’adeguamento, se attiene all’ironia e all’equivoco? Questa è allora la questione. Tolta la parola, tolta questa impadroneggiabilità dell’adeguamento, ognuno gioca la carta della padronanza: “Chi è padrone?”. Chi è padrone dell’adeguamento o chi è più padrone, così questa istanza dell’adeguamento si volge allora in un’altra cosa, verso la coerenza, che però può incontrare un dubbio, un dubbio metodico, che si volge in pericolo. Questa coerenza mi porterà alla dipendenza e dunque, come forma della padronanza, sorge l’oscillazione fra dipendenza e indipendenza. “Io non voglio più dipendere, voglio essere indipendente. Io non voglio più dipendere dalla famiglia, dal padre, dalla madre, da te, da lui, dal marito, dalla moglie, voglio rendermi indipendente”. Questa indipendenza, questa dipendenza a cosa si riferisce? Dipendenza – indipendenza è l’altra faccia dell’oscillazione tra padronanza e schiavitù. Padrone e schiavo, indipendente e dipendente. Schiavo e padrone è l’alternativa proposta dalla rivoluzione circolare: chi sta sotto deve poi stare sopra, poi tornerà a stare sotto ancora, ma intanto c’è stata un’alternanza. Alternanza al potere, alternanza nell’esercizio del potere, alternanza delle classi, alternanza quale forma della democrazia, alternanza come realizzazione del fantasma della rivoluzione circolare come rivoluzione possibile. Fantasma della gestione del potere, fantasma di padronanza, fantasma della circolarità. Questo fantasma si chiama paranoia, che è il discorso di padronanza per eccellenza e dove può anche non essere importante chi sia il padrone, purché vi sia, purché sia garantito che vi sia e che vi sarà. Perché questo padrone garantisce il sistema, che vi sia sistema, cioè sistema come mondo ideale, dove tutti stanno insieme. Questo è il sistema, un luogo dove tutti stanno insieme, senza più il tempo a dividere, senza più il tempo a istituire la differenza sessuale, quindi uno spazio senza tempo e senza memoria. Solo così è possibile stare insieme, solo così sarebbe possibile stare insieme, esercitare il potere, esercitare l’autorità, padroneggiare le cose. Solo a partire da questa nozione di sistema che abolisce il tempo è possibile pensare il potere come esercitabile, l’autorità come esercitabile, ciascuna cosa come padroneggiabile da tutti, dove tutti sanno, quindi, come fare, sanno già cosa essere, cosa sono, cosa diventare, perché il tempo è tolto, l’equivoco è tolto, il malinteso è tolto. Ma se il tempo è divisione, se il tempo è taglio, come condividere, come stare insieme, come comprendersi? Tutto ciò è prerogativa del sistema, sono caratteristiche della sistematizzazione, dunque è impossibile condividere il tempo, impossibile condividere il viaggio, impossibile condividere l’esperienza, impossibile condividere il dettaglio, impossibile condividere l’emozione, impossibile condividere l’entusiasmo, impossibile condividere la verità, impossibile condividere il senso, impossibile condividere il sapere. Tutto ciò esige il tempo e ciò che esige il tempo non è condivisibile. La condivisione è miraggio del sistema. Solo nel sistema può darsi l’ipotesi della coerenza, cioè l’ipotesi di andare insieme, di stare insieme, che qualcosa consenta la co-erenza; coerenza con ciò che è stato prima, coerenza con ciò che verrà dopo, coerenza con ciò che è, ma quale coerenza con ciò che diviene? La coerenza, il fantasma di coerenza, l’idea di coerenza esclude sia la contraddizione, sia la disdicenza. Dunque esclude l’adeguamento nei termini che dicevamo prima, esclude l’ironia e l’equivoco, esclude il processo di qualificazione di ciascuna cosa, esclude questa disdicenza, cioè l’impossibilità di convertire quel che si dice nel detto. Per via del tempo quel che si dice non è mai detto, non è mai detto tutto, non è mai detto abbastanza, non è mai detto in termini tali che resti così, immutabile. La disdicenza, quella che Freud chiamava la Versagung e che si attua tanto con la rimozione, tanto con la resistenza, tanto con la funzione vuota. “Per coerenza, io devo dire che…; per coerenza penso che…”. Come dire, già l’ipotesi della coerenza è una reazione alla disdicenza. La necessità della coerenza è il tentativo di mettere un rimedio, un riparo a ciò che sfugge, a ciò che risulta impossibile controllare, per questo sorge l’idea di coerenza; il massimo in questa idea è la coerenza con se stessi, come dire “io sono Napoleone”. La coerenza con se stessi, “io sono, io sono colui che sono, io sono quello che sono, io sarò sempre così, noi saremo sempre così”. Per coerenza, per naturalismo, per idiozia noi saremo sempre quello che siamo. E cosa siamo? Chi siamo?
Dunque la coerenza. Magari c’è chi pensa che sia una virtù, ma la coerenza è la coerenza morale, coerenza mentale, coerenza alla superstizione. La coerenza esclude l’insegnamento e la formazione, esclude il divenire, esclude l’acquisizione, esclude quel che si aggiunge e che esige l’integrazione. La coerenza è parente prossima, trae con sé l’idea di dipendenza come dipendenza sistematica. La dipendenza sarebbe l’altro nome della schiavitù, dipendenza dalle droghe, dipendenza dal gioco, dipendenza alimentare. C’è chi dipende dalla cioccolata, chi dipende dal gorgonzola, ognuno ha le sue dipendenze. Ci sono varie dipendenze, quelle più accreditate sono ovviamente le dipendenze dalla droga, anzi, quella è la dipendenza che va debellata, in nome della sostanza. Quindi il fantasma di padronanza insorge contro la possibile dipendenza, la quale minerebbe la padronanza, la libera volontà di bene. La dipendenza come limite della razionalità, della ragione, della libertà di volere. C’è chi ritiene di dipendere dai genitori, di dipendere dal padre, dalla madre, dall’insegnante, dal maestro, dal cattivo maestro, dalle cattive compagnie. Come dipendere dalla parola? “Sento che dipendo, non voglio dipendere, mi rendo indipendente”. Dipendere, essere di peso, dipendere da, qualcosa dipende. C’è un peso. “Non voglio più pesare, dipendo, peso, non voglio più pesare! Non dipendo! Non peso più!”. E intanto c’è l’idea del peso: essere un peso, avere un peso. Ognuno ha i suoi pesi, i suoi pesi e le sue misure e intanto, qualcosa pesa. Che cosa pesa? Qualcosa pesa, perché non c’è l’immunità. Teorema del peso: non c’è più peso. Dispositivo immunitario, dispositivo dove non c’è più sostanza e ciascuna cosa è nel suo statuto intellettuale, dunque senza peso, senza appartenenza, senza genealogia. “Essere indipendenti da… Pesare solo su se stessi”. La dipendenza è un altro modo di pensare la genealogia, l’ereditarietà, la relazione naturale, l’appartenenza a un sistema genealogico. Sono chiaramente questioni che si pongono per un’elaborazione, per un’articolazione, sono un materiale fantasmatico dell’epoca, di chi ritiene di appartenere all’epoca, di vivere nell’epoca e quindi, per così dire, di attendere l’assoluzione. L’indipendenza ha tuttavia un’altra accezione. L’indipendenza: senza pendio, senza dispendio. Come pensare che qualcosa sia senza dispendio, ovvero senza pulsione? Automatica, naturale, quest’idea del dispendio come fatica, cioè quest’idea energetistica, che traduce la pulsione in energetistica, che trae con sé l’idea di rilassamento, l’esigenza di doversi rilassare. Carica, scarica, tensione, rilassamento, concentrazione, rilassamento, concentramento, rilassamento. Alternanza tra la riuscita e lasciarsi andare, falloforia della riuscita, positivo – negativo. Come assegnare a ciascuna cosa un segno. Faccio bene, faccio male, se faccio bene, allora sono bene, allora mi posso rilassare, lasciarmi andare, fare qualcosa di negativo, così poi posso tornare a fare qualcosa di positivo. Positivo, negativo, euforia, disforia: alternanza.
Bene, diciamo che per ora questo è quanto, vediamo anche se c’è del quale.
Terza conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto