La direzione e la bussola
Questo laboratorio è stato importante, ha consentito di esplorare vari aspetti di ciò che chiamiamo scuola, in particolare nella nostra esperienza, quindi come l’esperienza della parola esiga la scuola che è scuola d’artista, scuola d’impresa, scuola di formazione, dove si tratta di arte e cultura, formazione e insegnamento, gioco e lavoro, terapia e invenzione e dove, appunto, si tratta dei dispositivi da attuare per il compito di ciascuno, il compito e la missione. Scuola in cui il compito e la missione non sono quelli di imparare come stanno le cose, come sono le cose; di imparare per poi riprodurre, ma si tratta innanzi tutto di acquisire gli statuti intellettuali necessari alla missione, alla vita, dove però, ciascuno di questi termini ha un’accezione precisa, particolare. Allora, la scuola a cosa serve, a cosa può servire? A instaurare il cervello, a indicare il cervello, qual è il cervello della scuola, qual è il cervello per ciascuno. Impossibile vivere senza cervello. Ognuno può dire: “Ma io ce l’ho il mio cervello, è qui, bello caldo dentro la testa!”, ma occorre distinguere il cervello come dispositivo intellettuale, in cui si tratta della materia intellettuale, dal cervello costituito – come si dice – dalla materia grigia; importa non già la materia grigia, ma la materia intellettuale. La materia grigia senza la materia intellettuale non giunge a granché, ognuno lo può constatare questo, ognuno che si accontenti della materia grigia. Dunque, ci serve il cervello, ma ancora, il cervello non basta senza la bussola, senza la direzione.
Il principio d’inerzia ci dice che senza la domanda ognuno è votato allo stato naturale. Con la domanda non c’è più lo stato naturale, c’è il modo: il modo di parlare, il modo di fare, il modo di scrivere, il modo di vivere. Con il principio di inerzia il modo non c’è. La questione della parola è anche la questione del modo: come pensare, come fare, come parlare, come scrivere, come vivere. Nessuna scuola è in grado di dire “si fa così”, per imparare a vivere, per imparare a pensare, per imparare a fare, per imparare a essere, ma la nostra scuola, la scuola della parola è necessaria per acquisire i mezzi, gli strumenti della parola con cui può instaurarsi il gerundio; per cui ciascuno può affrontare questo, ma occorre istituire dispositivi opportuni perché la domanda si svolga e si rivolga alla cifra. In questo rivolgimento, in questi dispositivi opportuni, necessari, sta la questione dell’esperienza. Esperienza di parola, esperienza di associazione, esperienza del parlare, esperienza del fare, gerundivamente, non all’infinito, in una possibile riproduzione e applicabilità del modo, ma individuando gli aspetti specifici che il caso esige.
A questo modo è necessaria non già la biologia, non il discorso sulla vita, il discorso della vita, il discorso del vivere, ma la biolegge, la bioetica, la bioclinica, ossia del compimento della rimozione, della resistenza, della funzione vuota, nella legge, nell’etica e nella clinica della vita, gerundivamente. Non generalmente ma gerundivamente. La nostra scuola ha vari aspetti, vari modi, vari dispositivi: l’associazione con la sua esperienza, la sua attività; la casa editrice con i suoi dispositivi, con i suoi libri, con le sue riviste, con le sue attività; la fondazione, il museo con le sue opere, la qualificazione con i suoi appuntamenti, con i suoi dispositivi, le sue conversazioni, i suoi laboratori, i suoi corsi, i suoi congressi, con le opere d’ingegno, con i prodotti artistici, scientifici, intellettuali, e dunque, non sono ontologici, sono per la valorizzazione, sono da valorizzare. Senza questa attività, che va dalla qualificazione alla valorizzazione, dalla ricerca all’impresa, dal parlare alla scrittura e oltre la scrittura, non c’è scuola. È questa la scuola che dissipa la soggettività, dove nessuno è maestro o allievo, dove nessuno può dire di avere concluso il suo itinerario che è in corso, costantemente in corso, perché le acquisizioni non sono mai finite. È la scuola che educa all’infinito, che educa a questo orizzonte infinito, a questo panorama in cui non si tratta più del soggetto ma di quello che avviene, degli effetti, delle acquisizioni, del valore, della soddisfazione e della salute che giunge per questa via.
Quindi, abbiamo considerato i vari aspetti, i vari costituenti del dispositivo, la settimana scorsa abbiamo considerato la questione dell’ostacolo, per esempio, come l’ostacolo sia essenziale. La causa, l’ostacolo è ciò che dissipa l’ontologia del principio d’inerzia. Il principio d’inerzia è senza causa, prevede che ci sia un andamento naturale, ma senza la domanda, la domanda e la sua causa, quale andamento, quale spinta? Quale arte, quale cultura, quale scienza? È il tempo che interviene in modo imprevedibile, incalcolabile, a instaurare la differenza assoluta ciascuna volta, a impedire la possibilità stessa di dire, “lo so già, sì, sì…, lo so già!”, la sufficienza. Il tempo impedisce la sufficienza. Ognuno che si ispiri al criterio della sufficienza ha già negato il tempo, vive nel suo serraglio, nella sua gabbietta, nella sua idea animale; ma il tempo impedisce la sufficienza, e quindi, esige l’altro modo. Qual è l’altro modo? Mica si può stabilire prima. L’altro modo s’instaura, gerundivamente. È l’altro modo, l’altro tempo per cui non c’è più la modalità di potere dire “non ho tempo per fare questo, non ho tempo per fare quello”, perché l’altro tempo non è dato dall’orologio. L’altro tempo viene gerundivamente, e quindi chi si ferma a pensarci, a stabilire se può o non può è già nei guai; è nel guaio chiamato soggettività, è nel guaio chiamato idea di sé, è nel guaio chiamato rappresentazione di sé, è nel guaio chiamato soggetto.
La nostra esperienza è esperienza senza soggetto, la nostra psicanalisi è la psicanalisi senza soggetto, è la clinica senza soggetto, senza pazienti, senza malati, senza la sofferenza rappresentata in modo da rendere necessario il male minore, l’intervento come psicofarmaco, la parola come psicofarmaco; la nostra psicanalisi è senza psicofarmaco, senza il consiglio a fine di bene, senza l’intervento dettato dal fine di bene. Questo ha delle implicazioni che però, non sempre, non in ogni caso risultano chiare e semplici. La nostra esperienza, la nostra scuola è intellettuale, quindi non procede dal fine sociale, non ha come fine la socializzazione, né l’appartenenza, né l’iscrizione, né l’appartenenza sociale, e questo può essere un guaio! Per chi mira, invece, alla socializzazione, all’appartenenza, al ruolo sociale, al nome del nome, al riconoscimento sociale, questo può essere un guaio. Ma è questo guaio che comporta l’intellettualità e non l’accettazione dello stato delle cose, della naturalità delle cose, della biologia.
Questa nostra esperienza, che in effetti non giunge ancora a avere testimoni tali da indicare in modo chiaro, senza remore, senza paura, senza vergogna di cosa si tratti, questa nostra esperienza è inaccostabile, inavvicinabile, imparagonabile a ogni rituale contemplativo, misticheggiante, ascetico, purificatorio, di catarsi, di liberazione; proprio nulla a che vedere, perché procede dall’integrità, quindi procede anche dall’immacolata concezione. Non c’è nessuna colpa da espiare, non c’è nessuna colpa da pagare, non c’è nessuna colpa da cui riscattarsi, non c’è nessuna colpa con cui ricattare. Però, che non ci sia è un’acquisizione di questa nostra esperienza, non è che va da sé, è un’acquisizione. Occorre farla, occorre conseguirla questa acquisizione, occorre anche accoglierla, non va da sé che possa essere accolta. Il soggetto non può accoglierla, nessun soggetto può accogliere questo, perché sarebbe la negazione della sua soggettività che si fonda sull’origine, si fonda sulla certezza del destino, ma è proprio questa certezza che gli impedisce tuttavia tante cose, ma a fronte di ciò che viene impedito e che è ignoto, rinunciare a questa certezza nota può costituire un lavoro impegnativo. Il soggetto non rinuncia alle sue certezze così, “in quattro e quattr’otto”, perché il soggetto, i soggetti stanno in buona compagnia, si cercano, si trovano, stanno bene insieme. La compagnia è dei soggetti! Ogni soggetto ne cerca almeno un altro per stare in compagnia, per evitare la solitudine, per evitare l’appuntamento, per evitare l’ostacolo, per evitare la condizione, la condizione della domanda. Con la domanda, con la sua condizione, con la sua solitudine, c’è anche il bello della domanda. Qual è il bello della domanda? Ognuno crede che il bello stia nel sapere già che cosa accadrà. Il bello dell’oroscopo. Il bello dell’oroscopo sta nel constatare che l’oroscopo fallisce. L’oroscopo è l’articolo più letto nei giornali, nelle riviste. Qual è l’articolo più letto? L’oroscopo. Naturalmente ognuno lo legge, dicendo di non crederci: “Io lo leggo, ma mica ci credo, tanto lo so che dice tante fesserie!”, ma intanto lo leggo e per leggerlo, intanto, mi animalizzo. “Di che segno sei? Tu sei pesce? Tu sei cancro? Tu sei uno scorpione? Che cosa sei? Sei leone, sei ciccì, sei cocò? Di che segno sei?”. Ognuno ha un segno, è un segno. Questo zodiaco riproduce la casa, la casa madre, la casa dello zodiaco, ognuno appartiene alla casa, con il suo segno distintivo sta nella sua casella. Dalla casa passa alla casella, s’incasella, poi, magari s’incasina. Nulla di più facile! Dalla casa alla casella, all’incasinamento, però è in compagnia! È in buona compagnia! Soffre, ma siamo in tanti. Sono in tanti a soffrire! È lo scotto da pagare per la compagnia. Ogni compagnia esige il suo prezzo, c’è uno scotto! Ognuno paga volentieri il suo scotto, però, poi, sta in compagnia.
L’esperienza della parola esige la solitudine che non è lo stare da soli. Solitudine. Impossibile stare da soli nella solitudine. La solitudine è la condizione del dispositivo, perché se è un dispositivo di isolamento è una gabbia. Il dispositivo non è una gabbia, il dispositivo è per l’incontro, è per lo scambio, è per fare, mica per restare da soli, isolati! La solitudine non è un guaio, è la condizione, ma non è la solitudine dell’uomo, “l’uomo è solo, il soggetto è solo, la mia solitudine!”, è la solitudine dell’oggetto, è la sua singolarità, la sua particolarità; questa è la solitudine. La solitudine come particolarità oggettuale. Confondendola per l’isolamento, ognuno si barrica nel suo bunker e poi dice: “Ma questa solitudine non produce niente, non produce nessun effetto, io sono qui, solo soletto, ma questa solitudine…”. Quella non è la solitudine, è l’isolamento, è la clausura, ma la clausura è l’esperienza della compagnia. La clausura si fa insieme, nell’Ordine, nella compagnia, nella parrocchia, nell’insieme. La clausura è senza solitudine; è nella rappresentazione della presenza dell’assenza, escludendo l’atto, l’atto sessuale. Non è l’esperienza della solitudine che si tratta di fare, è l’esperienza della qualità che procede dalla solitudine. Bella differenza! Eh già, uno stando nella sua casa dello zodiaco, stando nella sua casella, si incasina e prende fischi per fiaschi, Roma per toma, prende l’isolamento per la solitudine.
La comunicazione mica si fa da soli. Esige il pubblico, esige il dispositivo dello scambio, esige la valorizzazione, comporta il messaggio. Tutto questo non avviene nel deserto, neanche nella foresta e nemmeno nella giungla, esige il dispositivo intellettuale. Ora uno non ciondola dal sonno, perché è sfinito dall’idea che ha di sé, dai propri casini, perché stando nella casa poi si incasella e poi s’incasina e esibisce le sue rappresentazioni, i suoi limiti, i suoi affanni. No. Questo è il bello, l’esperienza di parola è senza affanno; esige la cura, ma non nell’accezione di cura nell’affanno. Non è la cura di sé, l’affanno di sé. È la cura del tempo. Il tempo cura, ma non perché è il tempo che passa, ma è il tempo che interviene, agendo, gerundivamente. È differente, è un’altra cosa! Dove non si tratta di stare a aspettare e di sapere. “Ma, se sapessi! Se sapessi fare lo farei! Se sapessi andare ci andrei”, ma, come dice Garcia Lorca: “Il cavaliere, pur sapendo la strada non è detto che arrivi a Cordoba”. La strada la sa, ma non basta, magari s’incasina per la strada e non arriva a Cordoba. E la strada la sa, ma non arriva. Sa dove andare, saprebbe, ma non va, non basta sapere! Può aspettare? Che aspettare? Aspettare di sapere, di sapere meglio? No. Il gioco non è controllabile, non è padroneggiabile. La partita come si svolge? C’è chi pensa di potere gestire la partita, di poterla concludere a suo piacimento, di potere prevedere quali saranno i risultati, dove, come. Questo sarebbe il giocatore? Chi gioca la partita? O non è questa la più precisa accezione di baro? Il baro non gioca la partita, presume di sapere già, non gioca; è come il cavaliere che, sapendo già la strada, non arriva a Cordoba. Per questo è impossibile barare con la parola. Si tratta di giocare la partita e, giocando, è impossibile barare, perché il giocatore è travolto dal gioco, non gestisce il gioco, è travolto, e il gioco procede. Gioco e lavoro, arte e cultura, macchina e tecnica, insegnamento e formazione; vari aspetti, non ce n’è uno solo, vari aspetti che si integrano.
La scuola senza questo processo per integrazione, senza questo dispositivo, senza la direzione è un addestramento, è un campo di addestramento, è un campo di concentramento, infatti chi non ritiene che il campo debba essere abbastanza concentrato; non essendo concentrato, allora qualcosa sfugge. Che guaio! Tutto ciò è apologia di soggettività, questo è il punto. C’è chi ci tiene a rimanere abbarbicato a questa idea di sé, a questa prescrizione di essere, a questa predestinazione. In fin dei conti è questo, tutto ciò è predestinazione, è il cerchio della predestinazione, è il cerchio in cui il passato può ritornare e l’avvenire può essere condizionato dal passato. È impossibile barare con la questione aperta, con la questione intellettuale. Qui sta il bello. Il bello sta qui. Il bello sta nel non attendere l’esecuzione. Ognuno, attendendo, attende l’esecuzione, spera di rimandare, però attende l’esecuzione e se proprio proprio non è l’esecuzione, attende l’arrivo dei Tartari che da un momento all’altro arriveranno e compiranno il massacro. È sempre una visione funesta, quella dell’attesa. Che cosa c’è da attendere? Il bello è che c’è da fare. Questo è il bello della vita; il bello della cosa è che c’è da fare, ma per cogliere questo bello occorre l’analisi, occorre l’assoluzione, la qualificazione, la valorizzazione. Non può esserci l’oscillazione tra il positivo e il negativo che ogni idea di sé subisce, non può esserci incasellamento di ciò che è ritenuta la propria casa, la casella. Ognuno si incasella e poi s’incasina. La qualificazione è senza incasellamento, è questo il bello, ma esige lo sforzo intellettuale, varietà, differenza.
La questione intellettuale procede dall’anoressia intellettuale, dall’aria, dalla leggerezza, dall’anoressia. Anoressia, cioè assenza di soggetto. “Non ne posso più, non ce la faccio più…” a fare il soggetto. Il modo dell’anoressia è il modo dell’istanza intellettuale. Come ascoltare quest’istanza, come accoglierla, come rilanciarla? Come far sì che giunga alla produzione, alla qualità, al lucro, al lusso, al superfluo senza il principio di sufficienza, senza il principio del minimo male sufficiente, del minimo male necessario, senza l’economicismo? Perché il soggetto si rappresenta nell’oscillazione fra soggetto passivo e soggetto attivo. Il soggetto passivo è il soggetto che deve essere liberato, quindi è il soggetto posseduto, che si sente posseduto, che ritiene di essere posseduto, posseduto dal male e anche dal bene; posseduto, quindi è soggetto passivo, ha questa idea di possessione per cui si rappresenta anche come soggetto malato. Il soggetto malato è il soggetto che si crede posseduto, è un’idea. Certo, quest’idea se non è analizzata, articolata, produce determinati risultati. Mentre il soggetto attivo è il soggetto padrone della sua vita, padrone di gestirla come vuole; da una parte il fantasma di possessione, dall’altra il fantasma di padronanza e questa è la soggettività con le sue oscillazioni. Euforia − disforia; soggetto padrone, soggetto attivo, soggetto passivo. Ecco la circolarità. Ma tutto ciò va indagato, esplorato come materia intellettuale.
Questione intellettuale: questione aperta. L’alto − basso, non è l’alternativa fra l’alto e il basso, alto − basso è senza mediazione, è questo che invece il soggetto installa, la mediazione. Questa mediazione, come dicevamo la settimana scorsa, è la mediocritas, l’idea di stare nel mezzo, è la gnosi, è il compromesso con la gnosi. Quest’idea del mezzo è l’idea che procede dalla coscienza, l’esercizio della coscienza che crede di sapere qual è il mezzo, dove sta il mezzo, dove sta l’estremo, crede di sapere la strada e che questo basti a arrivare in fondo, ma pensando che si tratti del fondo, preferisce stare a mezzo, fermarsi a metà.
La questione è quella della parola. Parlare non è blaterare, ci insegna Luca. Parlare non è blaterare; lego, eiro, femì, non è lalein, parlare non è blaterare. Parlare comporta la particolarità, occorre tenere conto di questa particolarità, cogliere come la particolarità interviene nella lingua. La particolarità, cioè l’idioma, l’idioma che non è possibile professare. Professare l’idioma? Parlare l’idioma? Impossibile. Parlare la parola? Parlare sulla parola? Confessare l’idioma? Né confessare, né professare, così come risulta impossibile professare la cifrematica o confessare la cifrematica. Non è un’attività confessionale o professionale, è esperienza; si può testimoniare facendo, gerundivamente, ma senza l’instaurazione del gerundio non c’è nemmeno la cifrematica, non c’è l’esperienza. La cifrematica è scienza, procedura e esperienza. Cosa fa un tripode se gli togliete una gamba? Non c’è più, non è che si regge ugualmente. Scienza, procedura, esperienza; non è che può essere solo scienza, solo dottrina. Non è una dottrina, non è un indottrinamento: scienza, procedura, esperienza, cioè, simultaneità, gerundività. L’esperienza è il gerundio; senza gerundio non c’è l’esperienza, sarebbe mera dottrina, confessione, professione. L’adepto, il seguace, il simpatizzante, l’allievo, di che si tratta? Confessarsi adepto, confessarsi allievo, confessarsi simpatizzante, seguace è un modo per edulcorare la riserva rispetto allo statuto intellettuale.
Come divenire statuto intellettuale. Di questo si tratta, questa è la scommessa, scommessa di vita, scommessa che inaugura il modo intellettuale, il modo della vita, il modo della ricerca, il modo dell’impresa, il modo; senza stanchezza: trovare il modo. Trovare il modo non stanca mai, è un’esigenza che non stanca mai e questo è il bello. E poi, dopo averlo trovato, occorre trovare anche l’altro modo, proseguendo, l’altro modo, e un altro ancora, e ancora. Il modo, nella moda stessa non è mai lo stesso modo; è sempre altro modo, Altro. Questo Altro indica che non finisce mai la faccenda. Uno dice: “Ma quando finisce questa storia?”. Non finisce, non c’è da avvilirsi, perché non finisce, non è mai finita. La soddisfazione non è mai finita, il piacere non è mai finito, la domanda non è mai finita, ce n’è ancora, c’è ancora da fare. L’ottimista, il pessimista rispetto alla constatazione che c’è ancora da fare: “Finirà? È finita!”. No, non è finita, c’è ancora da fare, la missione non è mai finita, il compito non è mai finito. Certo, occorre che s’instauri il compito, che s’instauri la missione, se non s’instaura ognuno può credere, può pensare che sia finita, che possa finire, che siamo prossimi alla fine. Ma dato che c’è la parola, se noi facciamo non è mai finita, non c’è pericolo che finisca. Se non è mai finita, se questa missione è senza fine, nulla è più drammatico, non c’è più il dramma, e ciascuna cosa si rivolge al valore, la vita si rivolge al valore, la vita si valorizza in ciascun istante. Non una volta per tutte, in ciascun istante, di volta in volta. Per questo sono essenziali i dispositivi in cui si instauri questa eternità dell’istante, questo rivolgimento verso il valore, il gerundio come modo dell’esperienza. Allora non c’è da aspettare nulla, occorre che facciamo. Noi facciamo. Non noi tutti, non noi soli, non noi qui. Noi. Noi facciamo. Questo “noi” comporta l’infinito in cui ciascuno è statuto intellettuale. Occorre il suo cervello, la sua bussola, la direzione e allora diviene caso di cifra, caso di qualità, caso di valore, ma non alla fine, gerundivamente.
Quindicesima conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto