La decisione
C’è da prendere sul serio gli auguri, che, qua e là, pongono l’accento sulla pars destruens, ma in direzione della pars costruens, dove la pars costruens esige la clinica, la cifratura, la cifra. Ma l’augurio è importante. L’augurio è già atto di autorità, quindi un atto che introduce, che instaura l’aumento. È un atto che, quindi, esige la funzione di zero, la funzione di nome e la funzione di significante. Ma l’augurio è anche testimonianza, testimonianza di quel che si fa, di ciò che sta nel programma. L’augurio che non si rivolgesse al programma sarebbe un augurio generico, quindi iscritto nella funzione di morte. Tutto ciò che è generico si inscrive in questa superstizione della mortalità. “La” decisione, quindi, e non “le” decisioni. La decisione è la decisione di vivere. Non è la decisione di fare questo o quello, non esistono molte decisioni, non esiste la facoltà di decidere. La decisione è senza facoltà, senza volontà, senza soggetto. Decisione di vivere: questa è la decisione. Decisione di vivere senza l’accettazione della morte, senza la cappa della mortalità, senza l’idea di morte a dirigere il cammino, il percorso, l’itinerario. La decisione di vivere è senza la volontà di bene: non è la decisione di vivere bene o per il bene, è decisione di vivere. Decisione senza intenzione, senza intenzionalità, senza volontà, senza l’idea di poter scegliere: tutto ciò non ha niente a che vedere con la decisione. La scelta, la volontà, s’ispirano al principio di selezione, al principio del possibilismo e del probabilismo, all’idea di alternativa, dunque all’idea del soggetto.
La decisione è senza rottura. La rottura di qualcosa è un’idea di poter addomesticare il tempo, è un’idea romantica del tempo. Il tempo è senza rottura, il tempo è taglio senza rottura. È taglio, quel taglio che introduce la differenza sessuale, quel taglio da cui procede la decisione. La decisione di vivere è la constatazione che il tempo non è addomesticabile, non è cronologico, non è governabile, non passa, non scorre, perché non finisce. Questa decisione è la decisione essenziale. Senza la decisione nulla può avvenire: il rimando, la riserva, la remora, la sparizione, la rinuncia, la dimissione sono fantasie rispetto a una possibile gestione del tempo e delle cose.
Il tempo contrassegna l’urgenza, senza rimedio, senza rimando, senza la possibilità di pensarci. Pensarci è già un’ipotesi di soggettività, un’ipotesi di alternativa. A cosa pensare? Alla scelta. Se fare o non fare, se fare così o se fare cosà. Già questo è nell’alternativa, nella scelta, è nel principio di selezione, quel principio che introduce la possibilità di avere o di essere.
La decisione, la decisione di vivere, è già la messa in questione dell’avere o dell’essere, del soggetto che può dire: “Io ho, io non ho; io sono, io non sono”. E questa decisione introduce all’impossibile dell’avere e all’impossibile dell’essere, introduce già, quindi, alla questione dell’imparare. L’avere e l’essere negano l’imparare, in quanto presumono che le cose siano. Impossibile imparare se le cose sono, impossibile imparare per chi presume di avere, cioè impossibile imparare senza la funzione del non, senza la funzione del non della rimozione, senza la funzione del non della resistenza. L’amore si avvale di questi due impossibili, è il custode di questi due impossibili. L’amore è il custode della ricerca intorno alle qualità delle cose. Nessun amore per chi presume che le cose siano tali. E tra l’impossibile della rimozione e l’impossibile della resistenza, il contingente, ossia la funzione di Altro. Il contingente: ciò per cui le cose si fanno, dunque, senza pensarci, senza scelta, senza alternativa, per via del programma e del suo modo, per via di ciò che il dispositivo esige. Niente si fa per soggettività. La soggettività è ciò che consente di rimandare, procrastinare, selezionare, rinviare, volere. La soggettività è il modo del condizionale: vorrei, potrei, sarebbe bello. Ah, come mi piacerebbe! Il contingente, invece, procede dalla condizione, dal sembiante, dall’oggetto che causa; quindi, in particolare, dalla voce, che è l’oggetto che è causa di verità. Dunque è l’oggetto che comporta il dispositivo pragmatico. Ma la decisione è senza facoltà, perché è secondo la logica e secondo l’occorrenza. Per questo la logica è senza facoltà, non è ciò che io penso che sia. La logica non è la logica del discorso comune, non è il buon senso. La logica è l’idioma, la particolarità. Allora, l’augurio, come atto di autorità, indica che è in atto l’anonimato del nome e l’innominabilità del nome. Impossibile nominare il nome, impossibile dire: “Questo è il nome”. Il nome funziona nella simultaneità con il significante e con l’Altro. È per questo che ciascuna cosa si qualifica se è sospeso il principio di nominabilità, cioè il principio di controllo e gestione sul dire e sul parlare. Nessuno sa ciò che dice, tanto meno ciò che deve dire. Sta qui l’afasia originaria. Per gli Egizi, Iside era la dea velata. Impossibile togliere il velo, impossibile pronunciare il nome della divinità, impossibile vedere ciò che sta sotto, impossibile pronunciare il suo vero nome, impossibile sapere quale sia il suo vero nome. Già gli Egizi avevano colto, prima ancora degli , dunque, che il nome è innominabile. Impossibile pronunciare il nome di Dio, non già perché è vietato, ma perché è impossibile. Impossibile pronunciare il nome, impossibile dire il nome, impossibile sapere il nome. L’afasia originaria procede da questo. Chi presumesse di sapere il nome da dire, di potere controllare la nominazione, si trova nel mutismo, si trova nell’impossibile scelta intorno a cosa dire. Il fantasma di padronanza è una reazione all’idiomatica e alla cifratica della parola, dunque una reazione all’afasia della parola e all’afasia della struttura. Abbiamo l’afasia originaria, che è l’afasia della parola, afasia rispetto alla logìa, e l’afasia strutturale, che è rispetto alla cifratica. Queste due afasie concorrono all’impossibilità di padroneggiare il parlare, il dire. L’idea di nominare le cose pone l’impossibilità di farlo. È un’idea creativa nominare le cose, sarebbe, come dire, crearle. Ma come creare le cose? Dio ha prima creato o nominato le cose? O né l’uno né l’altro? C’è afasia sia quanto all’idioma sia quanto alla conversazione, alla narrazione, al racconto. Conversazione di qualificazione, narrazione clinica, racconto cifrale. Qui l’afasia interviene a instaurare la lingua diplomatica, la lingua altra e l’altra lingua, cioè non già il gergo, la lingua partecipabile, la lingua della luogocomunicazione, ma l’alingua, l’alingua che esige l’ascolto, la cifratura, la scrittura. In fin dei conti, per dire così, ogni discorso di padronanza si lamenta di questa afasia, dell’afasia originaria e dell’afasia strutturale, perché impedisce la presa sulle cose, impedisce di togliere il velo e indica che non c’è passaggio, non c’è ritorno, non c’è fondamento, non c’è un atto che si fondi su un altro atto. Nessun atto poggia su ciò che è venuto prima dell’impossibile della rimozione, l’impossibile della resistenza, ma si scrive. Questo importa, e la memoria si scrive. Qual è la scrittura della memoria? La scrittura della memoria è senza ricordo perché il ricordo è, eventualmente, un falso ricordo, come notava Freud, è un pretesto per dire, perché Altro si dica. Allora, come fondarsi sui ricordi? Come procedere di ricordo in ricordo? Ciascuna conversazione, narrazione, racconto, nel dispositivo di parola dissipa questo preconcetto, questa presunzione, quest’idea di potersi fondare su un fatto o su un detto. Impossibile togliere l’afasia, impossibile sapere come dire, cosa dire. Però, tutto ciò esige la decisione, la decisione di vivere, e esige il preambolo. La parola originaria, l’esperienza della parola originaria, procede dal preambolo. Senza il preambolo l’esperienza non c’è. Non è esperienza che si possa fare con le migliori intenzioni, né con le peggiori, né per volontà, né per prova. Il preambolo pone la questione che non c’è più sostanza, è l’acquisizione indelebile che non c’è più sostanza. Se non c’è più sostanza, non c’è più nemmeno soggetto. Io, tu, lui non sono forme soggettive. Io, tu, lui sono indici dell’oggetto. Io faccio, io penso, io voglio, sono formulazioni preanalitiche. L’idea di essere, l’idea di avere la facoltà, l’idea di essere chi decide, chi fa: tutto ciò è preanalitico. Tutto ciò è radicato attorno al concetto di sostanza, e il pendant della sostanza è il soggetto. L’esperienza della parola originaria si fa in assenza di soggettività: è esperienza di qualificazione, di narrazione clinica e di cifratura, una volta dismessa, dissipata l’abitudine di rappresentarsi. Rappresentarsi è sempre rappresentarsi la morte. Pensarsi è sempre un modo di pensare alla morte, di credere di pensarla, di credere di poter gestirla, di credere, insomma, di poter esorcizzare quest’idea, in realtà consacrandola. E non c’è modo di capire quale sia la forza originaria, la forza della pulsione senza il preambolo. La settima scorsa parlavamo del primo colloquio: il primo colloquio è l’instaurazione del tempo, l’instaurazione della nominazione, la dissipazione del fantasma materno. Nel primo colloquio avviene questo. L’itinerario non si avvia senza questa dissipazione, senza questo teorema, senza l’analisi come teorema, cioè l’analisi come teorema della sostanza: non c’è più sostanza, non c’è più soluzione. La questione, allora, diviene intellettuale, ossia diviene come fare, come pensare, come dire, come vivere. È la questione del come, non già l’abolizione del male in favore del bene. L’analisi consente di avviare questa procedura del modo: qual è il modo? Ciascun dettaglio, ciascuna cosa, ciascuna questione esige il modo opportuno. È impossibile trovare il modo per chi resta ancorato al primo colloquio, senza che s’instauri questo teorema, cioè senza che siano dissipate, dismesse, le certezze soggettive. Questa è la questione della psicanalisi. Non è il ritualismo di parlare con qualcuno, il ritualismo di una presunta reciprocità, anzi! L’analisi è istantanea, è il teorema secondo cui non c’è più sostanza, cioè non c’è più adesione a tutto ciò che la sostanza comporta e, dunque, a un’idea della vita che ha come sua soluzione il passaggio nella morte. Senza questa dissipazione non prende avvio l’itinerario, non prende avvio il processo di qualificazione, non prende avvio nemmeno l’afasia originaria. La parola, senza questo teorema, resta negata. È questa la questione intellettuale.
Non è questione se la psicanalisi sia efficace o no per questa o quella cosa, per questa o quella patologia: queste sono fanfaluche per i benpensanti, cioè per chi non ha capito niente. Non si tratta dell’efficacia della psicanalisi, si tratta di verificare se si è istaurata la parola originaria per chi chiede di fare l’esperienza della psicanalisi, perché, se non si è istaurata, l’esperienza non avviene. Se c’è chi resta adeso, incollato, avvinto all’idea di sostanza, alla rappresentazione dell’Altro, cioè a ogni negazione possibile della parola, questa esperienza non avviene. Perché il bello della psicanalisi è questo: impossibile bluffare, non c’è bluff. È un’esperienza autentica, clinica, di valore e è impossibile bluffare. La questione è ciascun dettaglio che si qualifica, che si cifra, che si valorizza, come giunge alla sua scrittura, come le cose si scrivono, come l’esperienza si scrive, come la memoria si scrive e, scrivendosi, si valorizza.
L’esperienza della psicanalisi è un’esperienza di valorizzazione, non di purificazione: non c’è nulla da purificare. Si purifica o crede di doversi purificare chi ritiene di vivere nella merda. Ma chi ritiene di vivere nella merda continua a viverci e continuerà a fare abluzioni, perché crede nella merda e ci sguazza. La psicanalisi cosa ci può fare? Niente, proprio niente. Perché importa la decisione di vivere e il teorema della sostanza. Il teorema, cioè “non c’è più sostanza”, e quindi ciascuna cosa esige di qualificarsi, di concludersi nella legge, nell’etica e nella clinica, di cifrarsi, dunque di dirigersi e giungere al capitale. Come la vita diviene capitale: si tratta di questo. Ma indugiare nel negativo, nel male e in tutte le possibili rappresentazioni della soggettività vuol dire lo spreco, questo è lo spreco. Nella parola originaria non c’è spreco, perché ciascuna cosa tende verso la qualità secondo il modo opportuno. Questo modo opportuno è da trovare, dunque nulla va sprecato. Lo spreco è al di qua dell’analisi, al di qua del primo colloquio, al di qua dell’itinerario. Diciamo che la psicanalisi offre un’opportunità a seguito della decisione di vivere. Chi indugia con il suo tête a tête con la morte, cosa pretende? Cosa può pretendere? Può pretendere un’eutanasia, ma di questo non può occuparsi la psicanalisi, si occuperà il comitato di bioetica. Chi cerca la sua eutanasia, che si rivolge a fare alla psicanalisi? Ha sbagliato indirizzo. La psicanalisi non somministra eutanasie. Questo è il bello della psicanalisi: non prevede l’eutanasia, non ha come suo obiettivo la morte, ma la vita che diviene capitale. Però questo non va da sé, esige che ciascuno faccia la sua parte, con gli auguri e non solo.
Settima conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto