L’economia e la finanza.
L’educazione al valore della vita
L’atto di parola è atto originario, senza fondamento, senza successione, senza genealogia, per questo è libero, è atto libero, cioè partecipa della libertà come virtù del principio. Non è libero da qualcosa, è libero. Libero cioè di rivolgersi alla qualità, quindi impossibile da prevedere, da predeterminare, da ripetere. In quanto libero, l’atto non è ripetibile. Impossibile situarlo in un sistema, impossibile farne una clinica o una fenomenologia. Quindi l’atto è impossibile da sapere, impossibile da conoscere. È impossibile istituire un sapere sull’atto che possa fondare una saccenteria, saccenteria che, per altro, è ciò su cui si costituisce ogni soggetto, soggetto che è una necessità per ogni apparato ontologico o sistemico. Su questa saccenteria poggia ogni discorso, il discorso della scienza, il discorso della conoscenza, il discorso della padronanza. Il discorso, cioè modo della genealogia, modo della successione, modo del fondamento, modo della dimostrazione di un sistema, modo dell’esercizio di una padronanza. Ogni discorso sorge su un’ipotesi di possibile unità tra ciò che muove la ricerca e ciò che la conclude, e l’unità dovrebbe caratterizzare il modello di relazione tra il cercante e il cercato. Ma la ricerca non esige il soggetto agente della ricerca, esige invece il dispositivo della ricerca, dispositivo pulsionale; non il soggetto agente ma la pulsione, il dispositivo pulsionale di cui la ricerca è un aspetto. Nessun padrone della ricerca, nessun determinismo della ricerca, che varrebbe a istituire una relazione tra il soggetto e l’oggetto della ricerca, ma, contrariamente a quello che ogni determinismo propone, l’oggetto è ciò che causa la ricerca, non è ciò che viene osservato né ricercato. L’oggetto è invisibile, è inosservabile, è imprendibile, causa la ricerca, che dunque è senza voyeurismo, senza osservazione, senza visione, senza visibilità. La stessa ipotesi di una relazione fra l’oggetto della ricerca e l’agente della ricerca propone un determinismo che quindi non poggia solo sulla stabilità o sulla ripetitività della relazione, ma sulla stessa ipotesi di relazione, che sarebbe relazione genealogica, relazione sociale, relazione basata su ciò che è osservato, su ciò che “è”, dunque su una relazione ontologica. Ma se l’atto è originario, sfugge a ogni determinismo, sfugge a ogni presa, a ogni situabilità. In quanto originario non si fonda sul passato, non richiede nessun passato.
Ogni idea di un tempo passato, ogni idea di ritorno ― al passato, all’origine ― ogni idea di recupero, e quindi ogni idea deterministica, è un’idea materna della fine del tempo, della gestione del tempo, della padronanza, del controllo sul tempo. Il ricordo di qualcosa è il modo con cui si conferma la credenza sulla fine del tempo, sull’ipotesi che qualcosa possa tornare, che qualcosa possa influire su ciò che è in atto. Il tempo non è una successione, non è presente, non è passato, non è futuro, il tempo è istantaneo. Questa caratteristica lo pone come incontrollabile, impadroneggiabile. Contro questa sua caratteristica sorge l’idea che possa finire. Finendo, finalmente, le cose “sono”, e quindi sarebbero prendibili, sarebbero calcolabili, sarebbero determinabili. Questa è l’ipotesi, dunque, di fine, di abolizione del tempo per rendere le cose stabili, sostanziali, per poter quindi far dipendere le cose dalla sostanza, da qualcosa che “starebbe sotto” a giustificarle. L’esperienza intellettuale è l’esperienza della parola originaria, dunque della parola senza sostanza, e la dissipazione di questa credenza nella sostanza è il preambolo dell’esperienza, avviene nel preambolo dell’esperienza. Ma il preambolo non è un luogo, non è un tempo; il preambolo non è ontologico, non è fatto una volta per sempre, non avviene all’inizio. Non c’è nessun inizio, ogni inizio presuppone la fine. L’inizio è un’idea geometrica secondo cui le cose iniziano e finiscono, dunque il preambolo non è l’inizio dell’esperienza, non sta all’inizio, ma l’esperienza procede dal preambolo, ciascun atto dell’esperienza esige il preambolo. L’intellettualità è una virtù temporale, una virtù sessuale, non è una classe, non è uno stato − lo stato intellettuale − è il modo intellettuale; l’intellettualità non è ontologia, intellettuale è il modo, né l’intellettualità è attribuibile a qualcuno, non è un attributo soggettivo con cui ripartire gli intellettuali e i non intellettuali, non è una dote umana. È una proprietà della parola, è una proprietà del dispositivo, che è intellettuale in quanto segue il modo del tempo, e non già il modo della sostanza, non già il determinismo sostanziale: intellettuale in quanto segue il modo del tempo. Esperienza intellettuale in quanto è esperienza del modo del tempo, non del tempo come successione, ma del tempo che interviene nell’istante dell’atto. Qualcosa quindi di assolutamente specifico alla parola, e la questione intellettuale è la questione che si pone con la parola che procede dall’apertura in direzione della sua cifra. Nessuna categoria disciplinare, nessuna categoria filosofica, nessuna categoria sociologica può essere applicata all’esperienza, alla parola, a ciò che interviene, al suo dispositivo, perché è intellettuale, e quindi sfugge a ogni categorizzazione, a ogni concettualizzazione, a ogni concettualità. Questi non sono concetti, sono proprietà, caratteristiche; proprietà dell’atto, non concetti grazie a cui l’atto diventa discorso sull’atto.
Non c’è nessun metalinguaggio possibile, nessuna possibilità di parlare sulla parola, di dire sulla parola: la questione è quel che si dice nell’atto, nell’attuale, senza ricordo, senza rimemorazione, senza algebra e geometria dell’atto, quindi senza moralizzazione di ciò che si dice, senza che quel che si dice sia sottoposto alla necessità di finire, per potere entrare in un vocabolario, in un gergo, in una categorizzazione, in una standardizzazione, in una classificazione. L’atto non è ripetibile, dunque è inclassificabile; sfugge a quelle prescrizioni del discorso scientifico che ipostatizzano invece la ripetibilità dell’atto sperimentale, che diventa fatto sperimentale: non c’è più l’atto, ma c’è il fatto che può ripetersi. Nella parola nulla si ripete. Ciò che si dice è irripetibile. Inutile pensare di ricordarlo, di ricordarsi, di memorizzare: importa capire, non concettualizzare, classificare, memorizzare, ricordare, sapere. Importa capire, innanzitutto capire quel che si dice. Ma capire non è che il primo passo. Dunque l’esperienza procede dal preambolo e si scrive, tende a scriversi; per questo non è mai fatta, non è mi stata, non è. Si fa, si scrive, è in corso, è costantemente in corso. Non è mai avvenuta. Se non c’è fondamento, se il tempo non finisce, se il tempo è nell’atto, nulla è mai passato, nulla è mai stato, soprattutto nulla è mai saputo. Nessuna gnoseologia, nessuna casistica, nessuna idealità. Dunque l’esperienza si scrive, ma anche questa scrittura è attuale, non è mai scritta, si scrive. Non è una scrittura ontologica per cui a un certo punto si potrebbe consultare l’anamnesi di questa scrittura, non c’è anamnesi. La storia è in atto, la storia si scrive; nessuno storicismo. La storia si narra, si racconta, si cifra, si scrive, e non è mai la stessa storia, non è l’anamnesi, non è la genealogia; la parola stessa non è mai detta, si dice. Cosa si dice, ciascuna volta? Si dice, e quel che si dice è da capire. Inutile appellarsi al saputo, alla saccenza, alla saccenteria, un esercizio di padronanza che fallisce, un esercizio di padronanza che vorrebbe sostituire l’ascolto, l’esigenza dell’ascolto, capisco, quindi so. No, il sapere è un effetto temporale, è un seguito del funzionamento del significante, ma questo sapere è effettuale, è un sapere attuale, non è sapere ontologico, non è sapere capitalizzabile, accumulabile, non è mai saputo.
Per questo la formazione intellettuale è incessante, è in atto, è in corso, perché l’esperienza non è mai finita. Le cose non si sanno mai. Il sapere sta nella produzione, non in ciò che è stato, il sapere si produce nell’atto, non è il prodotto di ciò che è stato, non c’è cumulo del sapere, se non per l’idiota. Nell’idiozia sì, ossia nella rappresentazione dell’assenza di particolarità; allora, in assenza di particolarità sarebbe possibile sapere, perché le cose sono ontologiche, quindi senza particolarità, allora, a questa condizione, sarebbe possibile saperle. Dunque le cose si dicono, la parola si dice, ciascuna volta. Ciascuna volta non è tutte le volte, ciascuna volta è indicativo dell’atto, dell’attuale, dell’intervento istantaneo del tempo. “Ciascuna volta”, e “quella volta”, particolare e specifica. Ma non basta dire “ciascuno”, anziché “tutto”, “ciascuno”, anziché “tutti”, “ciascuna volta” anziché “tutte le volte”, perché effettivamente la questione della “ciascuna volta” sia in atto. Io posso dire anche: “Ciascuna volta che parlo con te…” e sto dicendo: “Tutte le volte che parlo con te”, dunque in un riferimento ontologico, in un’idea di tempo continuativo, perdurativo, in un’idea di tempo negato, abolito. Posso dire: “Ciascuna volta che incontro Tizio, Caio, Sempronio…”, e sto dicendo: “Tutte le volte che…”, perché “ciascuna volta” è istantaneo, esige la singolarità, esige l’unicità, è senza riproduzione, è senza ripetizione, è senza plurale; il ciascuno è senza plurale. Non basta acquisire il gergo per acquisire i termini della logica, del modo, della procedura, per acquisire lo statuto intellettuale. Non è questione di gergo, non è questione di nominalismo, è questione di nominazione, non di nominalismo o di nominabilità. Non è questione di gergo, non c’è nessun gergo. Il gergo è un indice della stupidità, dell’idiozia. Chi crede di acquisire un gergo e, per questa via, acquisire qualcosa, come minimo si sbaglia, non acquisisce nulla. Si inscrive nella stupidità soggettiva, nulla di più. Non c’è nessuna prescrizione linguistica, verbale a dire una parola piuttosto che un’altra, perché ciascuna parola ha uno statuto ben preciso, interviene non a caso, mentre il gergo è prescrittivo, è stupido, è generalizzante; elude il particolare, lo specifico, elude la cifratura, elude e abolisce il tempo, è solo indice di sordità, di stupidità, di assenza di ricerca, dell’indagine attorno al modo in cui le cose si dicono, si qualificano, si cifrano e, prima ancora, si scrivono. Questo procedimento, questa procedura non è toglibile dalla questione intellettuale, che non è uno scherzo: è una questione di tempo, di lingua, di modo, di ascolto, di cifratura. Dunque la formula “tutte le volte che…”, esige il preambolo, indica l’esigenza del preambolo, l’esigenza cioè della dissipazione della credenza nella sostanza a partire da cui il tempo potrebbe finire, quindi il plurale potrebbe instaurarsi, e l’atto non c’è più, ma c’è il ricordo di “tutte le volte che”, quindi il ricordo di una presunta totalità, di un passato che potrebbe ritornare a sancire la modalità, la continuità, la durata di una soggettività, di una modalità, di un essere delle cose, di un essere del soggetto, di un essere dell’identità. “Tutte le volte che…”, dunque, esige il preambolo, “ciascuna volta” segue il preambolo, ma non è un modo di dire, è uno statuto con cui qualcosa interviene. Quando constatiamo il preambolo?
Constatazione che non è una volta per sempre, ma nell’atto, in quell’atto, ciascun atto procede dal preambolo. Lo constatiamo quando “ciascuno” non vale “tutti”, quando, insomma, emerge la caratteristica, la specificità, la qualificazione di qualcosa, in quell’atto, non per sempre, non come categoria, non come concetto, ma come qualifica, in quell’atto. La credenza che possa sussistere un sinonimo è l’indice di un’esigenza di un supplemento di analisi. L’intervento del plurale indica l’esigenza di un supplemento di analisi, di un supplemento al preambolo. Il preambolo non è nei termini del c’è o non c’è, è nei termini del modo della qualificazione, dell’intervento della qualificazione e della qualità, dell’intervento del modo del tempo. Ogni totalizzazione, ogni suo invischiamento, ogni suo attaccamento a un ricordo, a qualcosa, esige il preambolo o un suo supplemento; entrambi avvengono nella conversazione analitica, nella narrazione clinica e nel racconto di cifra. Conversazione, narrazione, racconto sono tre dispositivi della valorizzazione nell’esperienza e dell’esperienza della parola originaria. A che pro pensare di essere privilegiati sulla base dell’evitamento di questi dispositivi? Chi può ritenere di costituire un soggetto privilegiato? Chi si considera un soggetto, non altri. Il supplemento non è il segno della mancanza ontologica, né un segno del negativo, né il segno di una carenza, né il segno di un deficit; il supplemento non interviene a sanare qualcosa, proprio perché l’intero non è il tutto e ciascuna cosa procede dall’intero, dunque non è da salvaguardare, perché è originario, proprio perché ciascuna cosa procede dall’intero. Il supplemento sta sulla via del compimento, è richiesto dal compimento. Lo stesso supplemento procede dall’intero. Dunque, con “tutto” ciò e per “tutto” ciò, la cifratica è il gerundio dell’esperienza. L’esperienza esige il gerundio, si cifra nel gerundio, non è cifrata, non è cifrabile, non si cifrerà: è nel gerundio che l’esperienza si cifra. Il gerundio è attuale. Parlando, dicendo, facendo, scrivendo, vivendo… Il gerundio è il modo dell’esperienza. “Ma io ho fatto”, “Io ho detto”, “Io sapevo”, “Io vivevo”, “Io vorrei”, “Io farei”, modi dell’evitamento del gerundio. Il gerundio importa. Importa il vissuto? Importa la promessa dell’avvenire della vita? Importa l’attuale, il gerundio e il suo modo, dunque il gerundio della ricerca, il gerundio dell’impresa, il gerundio della parola, il gerundio della vita. Il progetto e il programma si precisano e si specificano nel gerundio, non nel pensiero, non pensandoci su, non aspettando, non pensando se è troppo presto o troppo tardi, nel gerundio. “Ma, io avrei dovuto fare queste cose una volta, tanto tempo fa, le farò più avanti, non sono pronto, devo prima formarmi meglio, sono troppo magro, devo ingrassare un po’”, oppure: “Sono troppo grasso, devo dimagrire, devo formarmi, devo acquisire più dati”. Modi di evitare il gerundio, pensandosi addosso, pensando di essere, ma di essere cosa? Di essere chi? Sono soggettività impedienti. L’unico impedimento è la soggettività, cioè la credenza nella soggettività senza preambolo, senza supplemento al preambolo. “Ma io queste cose le ho già dette, le ho già analizzate queste cose, le so già”. Eh, le so. Che ho analizzato? Queste cose. Quali? Quelle? Quelle passate. Queste? Quali queste? Ciascuna cosa è senza plurale.
La generosità, l’umiltà, l’indulgenza stanno lì, in queste virtù, in queste proprietà del ciascuno, che non è qualcuno di bello, di particolare, no, ciascuno, non qualcuno. Ciascuno non è qualcuno, è lo statuto intellettuale, senza soggettività, senza sostanzialità, senza identità, senza passato, senza presente, senza futuro. Ciascuno esige il dispositivo che è intellettuale in quanto pulsionale, quindi senza naturalismo, senza appartenenza a un genere, senza la conformazione a un’appartenenza sociale, senza modello di relazione sociale come esempio da seguire o da evitare, dunque sena volontà di bene, senza volontà di male, senza volontà; per via di pulsione, per via di domanda, senza cui, dicevamo, c’è l’appartenenza al genere degli avari o degli sterili, dell’avarizia e della sterilità, che non sono propriamente virtù. Quindi in questo panorama, in questo contesto, in questo ambiente si pone la questione dell’economia e della finanza in termini non ontologici ma intellettuali, perché s’instauri il valore, il valore assoluto. Perché ciascuna cosa giunga al valore non si può prescindere dall’altrove della parola, altrove che è indicato dal modo stesso della pulsione. Un altrove è l’economia, un altrove è la finanza, due altrove della parola. Cosa vuol dire? Ci siamo posti la questione da dove vengono le cose e dove vanno, dato che la parola non è spaziale, non è un luogo e dunque ci siamo posti la questione della condizione: dove le cose vanno, da dove le cose vengono. Questo “dove” non è un dove spaziale, non è un luogo, è la condizione del viaggio. Le cose vengono dal destinatario e vanno al destinatore.
Dove. Questo “dove” è la condizione dell’andare, la condizione dell’avvenire. Non è uno spazio, non è un inizio, non è una fine, ma dove. E dunque, una volta individuata la questione dell’oggetto che costituisce questo dove, sorge la domanda dove le cose si fanno, dove si compiono, dove si producono, dove si concludono. Dove? E come? Questi altri dove comportano l’altrove, comportano, cioè, qualcosa che va oltre – altrove, oltre – la struttura, per cui, oltre la struttura, si scrivono, tendono a scriversi. Oltre la struttura. La struttura non è stabile, non è la fine delle cose, non è dove le cose stanno, perché si scrivono oltre la struttura. La struttura non è un habitat, è struttura temporale. Il progetto non finisce nella sua formulazione, esige di svolgersi, esige il programma, e il programma non è finito nel suo formularsi, esige la formalizzazione, esige lo svolgimento, esige la valorizzazione che segue la cifratura. Il programma e il progetto tendono a scriversi, non a stare lì, il soggetto si dà come compiuto senza progetto e senza programma, perché “è”, il soggetto, per definizione, “è”. È stupido, è finito, è debole, è malato, è incapace, il soggetto “è”, ma il dispositivo pulsionale, invece, esige il progetto, esige il programma e la loro scrittura e la loro qualità. Dunque, l’economia come istanza di scrittura della ricerca e la finanza come istanza di scrittura dell’impresa. Ricerca e impresa: non solo ricerca o solo impresa, l’itinerario è combinazione di ricerca e impresa. L’istanza non è personale, è pulsionale. “Ma, non so cosa scrivere, non so cosa dire, non so cosa fare, non so cosa chiedere. Io sono, io sono colui che è. Che posso chiedere, che posso dire, che posso fare? Io sono pieno, sono la pienezza. Cosa posso dire? Ogni cosa che dicessi, mi toglierebbe la pienezza, mi renderebbe mancante di quello che dico, non sarei più pieno, non sarei più, non sarei più io, non sarei più idiota, non sarei più soggetto. Perbacco! Sarei esposto alle vicissitudini della pulsione, alle svolte, ai giri, ai raggiri, perbacco! Che posso dire, che posso fare, che posso chiedere, io, che sono nella pienezza?”. Nella pienezza nulla accade. Questa pienezza è senza tempo. Nella pienezza la pulsione è tolta, c’è l’idea di essere, l’idea di finire. Nessuna istanza è personale o volontaria, o conosciuta, o soggettiva, il soggetto è senza istanza. “È”. È pieno, pieno di sé, e dunque senza soddisfazione possibile. Dove andrebbe questa soddisfazione, se già c’è la pienezza? La formula dell’altrove indica che nulla è spaziale, perché anche la struttura tende a scriversi, dunque struttura senza ontologia, struttura pulsionale, non struttura formale, conoscibile, ripetibile. Dunque l’altrove è anche funzionale, sulla via del senso e del sapere quanto all’economia, e del malinteso quanto alla finanza. In questa accezione, quindi, l’economia non è l’arte di risparmiare, né l’arte di accumulare, piuttosto il modo della produzione, e sulla scrittura della produzione, come la produzione si scrive. Non come la produzione si accumula, non come la produzione possa risultare funzionale all’essere, ma come si scrive. E dunque l’economia è senza risparmio e senza spreco, procede dall’abbondanza, dalla mancanza senza ontologia, per cui ciascuna cosa è presa nel va e vieni, nell’onda, da cui l’abbondanza. Ricerca e impresa, dicevamo, si combinano nell’itinerario e economia e finanza sono costitutive. La produzione, l’amministrazione, la distribuzione, la vendita tendono a scriversi ed esigono la cifratura, stanno nel processo intellettuale, non sono discipline già codificate. Quali sono l’economia e la finanza di ciascun atto? Non economia e finanza come categorie, ma economia e finanza come l’altrove proprio a ciascun atto. Nessuno è esente, quindi, dall’economia e dalla finanza. “Ah, io non me ne intendo di economia, non me ne intendo di finanza, io mi occupo di altre cose…”. Importano e sono essenziali perché, dunque, si scrivono, e la riuscita esige la scrittura. La riuscita di ciascuna cosa esige la scrittura. Addirittura sta oltre la scrittura. Ecco, giusto per contribuire, in qualche modo alla questione.
Decima conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto