Il capitalismo nuovo e la sua lingua
C’è chi dice e sostiene che, oggi, la scuola nella provincia Italia assolve il compito di ammortizzatore sociale contro il lavoro, contro la formazione, contro l’autorità, contro l’abbondanza, contro la disciplina, contro l’impresa, contro la civiltà. Sostiene che la scuola si è istituita come area di parcheggio e si attende una legge del parlamento che autorizzi gli opportuni cambiamenti e correttivi sociali. Ciò che vale e si dice per la scuola vale e si dice anche per altri strati e apparati sociali: la sanità e l’ospedale, la giustizia con la magistratura e il tribunale, la politica, l’economia, la finanza, la scienza, l’impresa.
Intanto che queste cose si dicono, si sussurrano, si mormorano, si divulgano dov’è il dibattito? Dove si pone la questione? Con quale lingua, con quali mezzi, con quali strumenti, in quale direzione e chi si prende la briga di porre la questione d’instaurare il dibattito, di non avallare questa negazione della civiltà?
È chiaro che la questione non è solamente la scuola, l’ospedale, il tribunale, l’impresa ognuno preso isolatamente, ma la questione è la parola, è la questione intellettuale, è la questione civile che si pone a proposito del dispositivo civile, della civiltà non come apparato burocratico o apparato ammortizzatore, non come apparato algoritmico, fatalistico, di uniformazione, di quiescenza. Ciò che si pone è l’accettazione dell’epoca con l’accettazione della negazione della parola, con la conseguente instaurazione della società dell’attesa, dell’uniformazione, della conformazione, della conformità, del conformismo.
Chi vive comodamente nel suo conformismo, cioè chi vive nell’epoca, nella sua spazialità, nel suo pregiudizio psichiatrico, nella sua economia, nel suo economicismo, nelle sue ristrettezze, come può accorgersi che si sta esentando dalla parola? Se nessuno parla a chi si è accomodato nell’epoca e sull’epoca, in che modo può accorgersi di qualcosa di nuovo, se non si instaurano i dispositivi di parola, i “dove” della parola cioè l’oggetto, il punto, il contrappunto, la causa, la provocazione, l’assenza di sostanza, l’analisi, la qualificazione, il dispositivo di valore, l’approdo al valore, il capitalismo intellettuale? In che modo chi sta nel fantasma di padronanza può accorgersi della parola, può udire che oltre la sua spazialità, oltre la sua idea di fine, oltre la sua idea di origine, c’è Altro, c’è parola, se nessuno parla, se nessuno gli parla, se nessuno rivolge un gesto, un appello, una proposta, un’offerta, un’indicazione? In che modo se ognuno aspetta che sia il Parlamento a emanare, promulgare una legge che metta le cose a posto conformemente ai desideri di tutti, perché tutti vivano bene, contenti, senza disagio, conformemente? In che modo, se nessuno testimonia che c’è parola, che non ci sono solo gli apparati di contenzione, non ci sono solo i muri, che non ci sono solo le ideologie, le fantasie di fine e di origine? In che modo se ognuno attende e nessuno corre il rischio di provocare la curiosità, la domanda, proponendo dispositivi nuovi, differenti, altri? Non già per convincere o convertire, ma perché, intanto, ci sia l’udire e non la sordità dovuta al rumore della lingua comune, perché ci sia chi oda la parola nel suo atto, nella sua logica, nella sua struttura, nel suo accadere, nel suo avvenire, nel suo divenire e non nel suo detto e nel suo fatto. La parola nella sua apertura, nel suo spalancamento, nella sua scommessa di qualificazione e non nella promessa di un avvenire migliore per tutti. Non c’è da attendere!
L’atto di parola si rivolge alla cifra, non alla finalità, allo scopo, al raggiungimento dell’intenzione, al fine di bene; l’atto è ineconomico e inefficiente, non va dove qualcuno presume di dirigerlo e di comandarlo, non vale a risparmiare forza o tempo. L’utilità dell’atto è linguistica, non ergonomica. La paura di parlare, così diffusa, così in voga, così condivisa, così invocata come giustificazione, si rivolge al postulato dell’utilità sociale, l’utilità sociale del detto: in che modo il mio detto può risultare utile o inutile?
Ecco l’economia del detto, l’economia della parola, l’economia dell’utilità, l’economia che poggia sulla paura dello spreco della parola. Il detto può risultare utile, inutile, approvato, criticato, condiviso, respinto? Ognuno si sovrappone al detto, si fa significare dal detto, vuole evitare che il suo detto possa risultare contraddetto, criticato, non approvato, respinto. Ognuno è il suo detto, quindi meglio non parlare, meglio tacere.
Il sapere, la perfezione, la completezza del sapere sono alibi per giustificare la paura dell’anomalia di ciò che si dice fuori controllo, fuori padronanza, fuori conoscenza. Non saperne abbastanza, non essere sicuri di dire bene ciò che si vuole dire, non avere la garanzia preliminare dell’utilità sociale di ciò che si è detto, sono le giustificazioni addotte per sostenere la delega all’intervento intellettuale.
Allora, ognuno aspetta, attende che ci sia l’intervento dell’Altro, l’intervento salvifico, l’intervento di padronanza, l’intervento che autorizzi a ripetere, a condividere, a compiacere, “I like”, condivido! “I like”, condivido, mi piace, mi compiaccio, mi compiace, ma comincia tu, vai avanti tu, io poi condivido. Condivido il condivisibile, che non esponga alla critica sociale, che non esponga all’isolamento sociale. Così, il dispositivo, il dispositivo intellettuale, il dispositivo civile può attendere. Intanto badiamo agli apparati, alla burocrazia, badiamo bene di non sollevare questioni, di non suscitare domande, di non esporci alla domanda curiosa, alla domanda spinosa, alla domanda pericolosa, alla domanda sconveniente, irrispettosa, irriguardosa. Atteniamoci all’epoca, al suo confinamento, evitiamo ogni intervento civile.
Ma, di cosa si tratta nell’intervento civile? Si tratta del dispositivo di parola, si tratta dell’intervento che va in direzione della civiltà della parola, con norme, regole, motivi che attengono alla domanda e non norme casuali, convenzionali, stabilite, prestabilite. Norme che attengono alla domanda, quindi dispositivi non conformisti, non già detti, non già fatti, dispositivi nuovi dove si tratta del rischio di parola, dispositivi che esigono la scommessa, che traggono all’acustico, all’ascolto, all’intendimento e non alla condivisione di un sapere che si tramanda e che deve essere tramandato per non suscitare problemi di difformità.
La questione è l’intervento intellettuale che non risponde all’utilità sociale, ma all’istanza oggettuale, alla causa di godimento, di sapere, di verità, all’istanza di qualità, a quanto non è già previsto e conosciuto. E esige qualcosa di nuovo, d’imprevedibile, perché si instaura per il pleonasmo che c’è nella domanda, per cui la domanda non si chiude.
Il dispositivo non ha finalità di accordo o di chiusura, è dispositivo intellettuale, dispositivo temporale, non dispositivo a termine, a fine, a esaurimento. Si tratta del servizio intellettuale, si tratta del brainworking. Il brainworking è il servizio intellettuale, è il servizio senza l’idea di salvezza, di malattia, di psichismo, senza l’idea di mente o mentalità. Non è materia medica, sanitaria, psicologica, sociale, sociologica: è materia intellettuale. Non è vincolata a una o all’altra categoria sociale, confessionale, professionale di qualsivoglia genere, ma è materia della parola che diviene cifra, materia scientifica, materia della scienza nuova, della scienza della parola.
Sta qui l’intervento cifrematico, che è servizio intellettuale, intervento e servizio non conformista, non di adeguamento, o conformazione, o conformismo, non intervento di riconduzione al canone, rieducativo, punitivo, premiale, ma intervento direttivo, indicativo, clinico, analitico, cifrale; non materno, non pedagogico, non spirituale. La questione intellettuale si gioca qui.
Avere timore e astenersi dall’intervento indica la sua idealizzazione, indica la soggiacenza all’idea salvifica, all’idea di bene, all’idea redentiva, di espiazione, di soluzione, di partecipazione, all’idea di miglioramento. Ogni idea di miglioramento indica l’ipotesi di evoluzione e il principio evolutivo a cui si ispira indica la possibile transizione dal male al bene, il principio catartico, il principio penitenziale che segue a quello punitivo.
Ogni appello all’empatia si regge sul principio della consustanziazione, l’idea di potere condividere la sostanza. Il principio empatico è la consustanziazione, e l’empatia risponde all’ideale di farsi sostanza, di essere della stessa sostanza dell’Altro. Tolto l’Altro, tolta la parola, resta l’empatia, la consustanzialità con l’Altro, l’idea di farsi Altro dell’Altro, l’Altro puro, purezza della sostanza, vestire l’abito puro dell’Altro. Empaticamente, “siamo tutti della stessa sostanza”, così non c’è pericolo di parola, di equivoco, di menzogna o rischio di malinteso. Siamo tutti della stessa sostanza, vestiamo gli stessi panni, siamo tutti empatici. Parliamo? Non parliamo! Pensiamo? Non pensiamo! Siamo! E che bisogno c’è di parlare se siamo, se siamo tutti? Siamo tutti consustanziali. L’ideale della sostanza è l’ideale della completezza.
La parola ha come sua virtù l’incompletezza. Il tempo non finisce e il soggetto completo è l’idea della fine del tempo, il fantasma della fine del tempo, il fantasma della possibile padronanza sul tempo, l’idea di potere essere completi, di potere conseguire la completezza e la conoscenza, di essere senza falla, ossia la falloforia, l’euforia; o la depressione nel caso in cui una piccola falla si manifesti.
L’esperienza di parola è l’esperienza della dissipazione della sostanza e dell’idea di sostanza, idee di sostanza che erigono presunti impedimenti alla domanda, al suo corso, al suo svolgimento, al dire, al fare, alla scrittura, alla direzione, all’articolazione della domanda, all’attuazione, all’invenzione, alle opere d’ingegno che occorrono per il viaggio.
Ma, il viaggio procede per forza, non per inerzia né per volontà; non si alimenta di sostanza, cioè, il viaggio procede senza cedimento al pregiudizio psichiatrico con le sue tentazioni sostanzialiste: l’alibi del male, del negativo, della mancanza, della perdita, dell’impossibilità, dell’incapacità, della debolezza, l’alibi della stanchezza. Il viaggio procede senza cedimenti e senza la giustificazione della malattia mentale. Nulla deve il viaggio alla malattia mentale e ogni riferimento alla malattia mentale produce l’inceppamento, il cedimento, il rallentamento, la lentezza, l’attesa, la riserva, la remora, il rimando, l’imbecillità. Imbecille è chi presume di dovere ricevere l’autorizzazione a vivere e aspetta che dio, lo stato, il padrone, il daimon gli accordi questo permesso.
Chi coltiva il pregiudizio psichiatrico si preclude il viaggio, perché non c’è possibilità di compromesso, non c’è la possibilità di stare a vedere come va, di pensarci su: “Intanto vedo”! L’esperienza non è per migliorarsi, per guarire, per salvarsi. È per dare un contributo alla civiltà, per dare un contributo alla qualità della vita, è per fare qualcosa d’inaudito. Vivere è qualcosa d’inaudito, vivacchiare è già la morte. Vivacchiare è l’ombra della morte sulla vivenza, cioè, non c’è più la vivenza. “Vivacchiamo” è eutanasia assistita, custodita e amorevolmente consigliata. La ragazzina olandese vivacchiava, no? Vivacchiava fino a chiedere l’eutanasia, amorevolmente accordata, assistita dai familiari, in particolare dalla mamma che la comprendeva. E, serenamente, è spirata. I familiari hanno ringraziato chi ha assistito al trapasso.
Civiltà della sostanza, civiltà eutanasica, civiltà mortifera, civiltà sociale. L’Olanda è un paese evoluto, progressista, all’apice del progresso. Chi non ambisce a andare a vivere in Olanda? C’è chi ambisce a andare a vivere in Olanda o nei paesi della nordic area, e chi ambisce a divenire intellettuale, scienziato, brainworker. Ambisce, ossia gioca la scommessa del dispositivo intellettuale che fornisce le indicazioni sul come fare, come divenire intellettuale, scienziato, brainworker.
Parricidio e sessualità sono le due facce dell’annunciazione, le due facce con cui si avvia il dispositivo del viaggio. Il parricidio non è la messa a morte del padre, ma il funzionamento del nome nella parola. All’instaurazione del parricidio segue il varco tra la rappresentazione sostanziale del padre nel papà o della madre nella mamma, cioè segue il varco tra il personaggio familiare e gli indici della parola nella famiglia. La castrazione si situa in questo varco che impedisce che il papà e il padre siano sovrapponibili, che la mamma e la madre siano sovrapponibili, che l’idea di sé e lo statuto intellettuale siano sovrapponibili, che il detto e il dire siano sovrapponibili.
La sessualità non è la conquista del partner con tutte le paturnie fra etero e omoerotismo, fra etero e omosessualità, tra conformismo e mimetismo. La sessualità è la politica del tempo in atto e si instaura per ciascuno nel dispositivo di parola con l’organizzazione, con l’economia, con la finanza, con l’attuazione del progetto e del programma di vita, senza nessuna accettazione di compromesso che induca all’evitamento di qualcosa. Nessuna sessualità con l’evitamento. E con la sessualità nessuno è da solo, nessuno è abbandonato, nessuno corre il pericolo di fine, perché si instaura il dispositivo della solidarietà, della tolleranza, del sorriso, dell’approdo al valore. È il dispositivo del capitalismo intellettuale, è il nostro dispositivo.
Nona conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola