Il brutto anatroccolo
Abbiamo ancora una fiaba da esplorare, Il brutto anatroccolo, però ci sono anche alcune considerazioni da fare attorno alla fiaba di Barbablù che abbiamo letto la settimana scorsa, senza peraltro dirne granché. Procediamo così con alcune notazioni, poi con la lettura dell’ultima fiaba e con il dibattito conclusivo.
Allora, dicevamo di Barbablù: è la fiaba dell’anfibologia, cioè del due che viene scisso in due possibilità: uomo onesto, ricchissimo e bruttissimo, spaventoso. Il candidato, il pretendente, è l’altra faccia di Barbablù uomo spaventoso, uomo dalla barba blu, quindi con un segno terrifico. Quando, da qualcuno, qualcosa è creduta e diventa il segno del negativo, quella cosa diventa portatrice di paura. Nasce da lì la paura, quando qualcosa è creduta essere il segno del negativo, il segno del male, in quanto rappresenta l’alternativa tra la vita e la morte. Quest’alternativa rappresenta sia la vita come sostanza sia la morte come sostanza, cioè come fondamenti, che possono esistere in quanto tali, in una sorta di immobilità. È la sostanza buona contro la sostanza malvagia o, viceversa, il veleno e il rimedio, il veleno e l’antidoto, il farmaco nella sua anfibologia, come veleno e come rimedio.
La credenza nella sostanza è ciò che possiamo chiamare l’idolatria, cioè la credenza in un dio agente, in un dio sostanza, una sostanza che può agire. Un dio che agisce è il dio della superstizione: nulla più superstizioso della credenza in un dio che agisca. Il dio agente è la versione religiosa della sostanza agente, della sostanza magica o ipnotica. Il dio agente, per così dire, è, di volta in volta, il dio psicofarmaco, il dio droga, il dio rimedio, il dio sostanza, che è anche il dio idiota di Schreber, dio che è in balia del desiderio degli umani, un dio che desidera il bene degli umani. Schreber dice: questo è un dio idiota, un dio desiderante è un dio idiota, e il dio desiderante è il dio agente. Dio non agisce. Non è nella prerogativa di dio agire. Dio opera alla scrittura pragmatica delle cose, ma non agisce, né fa. In questo senso noi possiamo dire che dio è fede, cioè è operatore pragmatico, ma non è agente. Non è né soggetto agente né sostanza agente: Dio non agisce. Credere che Dio agisca è la credenza precisa dell’idolatria, dunque anche della delega, a qualcosa o a qualcuno, rispetto a ciò che occorre fare; la stessa struttura del miracolo implica dio come operatore, ma non dio come agente. Così la questione è quella che non si tratta di essere idolatri, di credere che possa esistere una sostanza che possa fare, quello che occorre fare, al posto nostro, al posto di ciascuno.
Questa idolatria ha alcune implicazioni, nel senso che chi crede nel negativo e nel suo segno può attribuire anche a se stesso questa prerogativa, e ritenersi fortunato o sfortunato, predestinato al bene o predestinato al male, può credersi anche bello o brutto, buono o malvagio, positivo o negativo: sono forme differenti della stessa cosa, cioè dell’alternativa fra la vita e la morte. Tra la vita e la morte non è possibile scegliere, non c’è scelta tra la vita e la morte: si tratta della vita, come parola originaria e il suo itinerario, e della morte come indice della differenza sessuale, come indice del tempo. Non è che si tratti di scegliere una o l’altra: c’è la vita, c’è la morte, ma non come sostanza; né la vita come sostanza né la morte come sostanza. C’è la vita come logica e itinerario della parola, c’è la morte come indice dell’altro tempo, indice della differenza sessuale; né la vita come sostanza, né la morte come sostanza possono risultare intellettualmente accettabili. Credersi segnato, credersi bello o brutto, positivo o negativo, capace o incapace, degno o non degno e via dicendo, è il modo di accettare la morte, la morte come sostanza e di fare l’economia della morte nel male ritenuto minore volta per volta. “Cosa faccio? Questo o quello? Beh, tra le due cose sembra che il male minore sia questo, faccio questo”. Questo è un modo di accettare la morte giorno per giorno e di alimentarsi della morte come sostanza, o della vita come sostanza, che è la sua altra faccia, nel senso che è una vita come calvario, come attesa della sua fine. È la vita come durata, ossia l’idea stessa di morte, di fine.
L’idea di durata è l’idea della fine: si interessa della durata chi si interessa alla fine delle cose. “Quanto dura? Dobbiamo fare questa cosa: quanto dura?”, cioè quando finisce? La passione per la fine delle cose, non già per quel che occorre fare, per il piacere che viene dal fare, ma per la fine. L’accettazione della morte trae con sé anche la rassegnazione, ovviamente, l’assenza di entusiasmo, possiamo dire l’assenza di amore, a favore di una fine ripetuta. Sempre la stessa fine.
La rassegnazione come può avvenire, volta per volta? Nei modi più svariati, modi che rappresentano comunque la modalità della fine nel lasciarsi andare; lasciarsi andare alla denigrazione, alla degradazione, all’esecrazione, alla trasgressione. Lasciarsi andare, cioè dall’alto in basso, in modo di andare sempre più in basso, fino a raggiungere la bassezza della propria origine presunta, sino a essere all’altezza della propria origine presunta, ovviamente presunta molto in basso. Ecco dunque le varie modalità: dal perdere le staffe al perdere la pazienza, alla severità, all’alzare la voce, al fare la voce grossa, al comminare punizioni, al bere un bicchiere in più, una sigaretta in più, una droga in più: “Tanto, è solo per questa volta…”, “Lo faccio solo questa volta”, “Prendo una pastiglia in più”. È un universo di cose a rappresentare questa modalità del lasciarsi andare come modo di accettare l’ideologia della morte, che diventa morte bianca, morte di cui alimentarsi giorno per giorno. Lasciarsi andare è il modo di rappresentarsi l’alto-basso, l’ossimoro, nell’alternativa fra l’alto e il basso: salire in alto, scendere in basso. “Guarda come sono sceso in basso”, “Questa cosa è troppo alta per me”, “Adesso che ho fatto, questa cosa è tutto in discesa”; sì, fino al punto più basso. Se alto-basso, che è il modo dell’ossimoro, il modo della relazione originaria, viene volto nella possibilità dell’alto o del basso, ecco che sorge per ognuno la credenza di potere andare in alto o andare in basso: alto e basso diventano possibilità soggettive. Si costituisce cioè il soggetto dell’alto e il soggetto del basso, il soggetto dell’euforia e il soggetto della disforia.
Quella che comunemente viene chiamata depressione non è che la realizzazione di questa credenza, ovvero di potere andare in alto e poi di dovere scendere in basso. Euforia, disforia, alto, basso, o alto o basso, anziché alto-basso da cui le cose procedono; alto-basso non è scindibile, non è trasformabile nella possibilità dell’alto o del basso. Alto-basso è una diade, non è scindibile, è una diade originaria, e è da questa diade che le cose procedono. Ciascuna cosa viene dall’alto-basso e va in direzione della sua qualità, e non va né in alto né in basso, perché alto-basso non è scindibile. Scindere alto-basso vuole dire farsi fatalisti, soggetti del fatalismo, credere nella predestinazione, vuole dire farsi animali fantastici bipolari o anfibologici. L’animale fantastico che può andare in alto o andare in basso, può essere buono o essere malvagio, può essere positivo o essere negativo, può fare bene o può fare male, può meritare il premio o meritare la punizione. Viene introdotta nella vita questa anfibologia, questa doppia possibilità, quest’alternativa, che è un’alternativa fatalista, che sta al posto del dispositivo pragmatico.
Chi si trova in questa credenza, evidentemente, non fa quel che occorre fare, ma scansa, evita, attende. Sta nella paura, crede che ci sarà un domani migliore, fatalisticamente. È una vita senza itinerario, senza impresa, senza formazione, senza rischio, senza audacia, nella paura del male, della malattia, della morte; vive sotto l’egida dell’animale totemico, dell’animale che porta la vita e porta la morte. Il fantasma d’alternativa tra la vita e la morte, come fantasma di padronanza, comporta lo scherzo con la morte, la sfida alla morte; l’animale, cioè ognuno, in quanto si crede animale bipolare, si fa cerchio del positivo e del negativo, e si alimenta del presunto proprio negativo, come dire che tutto sta nel cerchio, tutto deve entrare nel cerchio, per fare l’economia del cerchio.
Ebbene, l’animale che si alimenta con la propria negatività ha contrappassi e contropiedi nell’infarto, nell’ictus, nell’AIDS e nel cancro, che sono contrappassi e contropiedi della circolarità, modi con cui viene ritenuto di potere evitare la realizzazione del proprio fantasma. Infarto, ictus, AIDS e cancro sono contrappassi e contropiedi dell’impossibile realizzazione del proprio fantasma.
Ma dicevamo di Barbablù che è un fantasma femminile dell’economia del sangue. Aristotele dice che l’uomo si distingue dalla donna per l’economia del sangue: nella donna ce n’è uno spreco e un’impurità, e l’uomo deve appunto evitare questo spreco di sangue che caratterizza la donna. Nella fiaba di Barbablù abbiamo uno stanzino in basso il cui pavimento è pieno di sangue: lo stanzino in basso diventa il luogo dell’economia del sangue, il luogo della genealogia, il luogo dell’origine. Il sangue prende il posto dello specchio e avvia la specularità. La moglie vede così i corpi delle altre donne e delle altre mogli, uccise. Senza specchio, tolto lo specchio, tolto l’oggetto nel suo aspetto di impertinente, dunque tolto l’oggetto come causa di godimento, ognuno si confronta con l’Altro ritenuto simile; in questo caso una donna si confronta con le altre donne e si cadaverizza, e le altre donne risultano le altre mogli uccise. Senza lo specchio, tolto l’oggetto, sorge il fantasma materno del despota. Chi è Barbablù? Barbablù è il soggetto presunto godere, il soggetto presunto possedere tutte le donne, il soggetto assassino delle donne, in quanto possessore delle donne.
Nella fiaba I cigni selvatici abbiamo visto che c’è un altro fantasma, non già il fantasma del despota e il fantasma di assassinio, ma il fantasma dell’abolizione della voce, ossia il fantasma del soggetto vampiro. Il soggetto vampiro, ovvero il soggetto che dice la verità, il soggetto possessore della verità. Terzo fantasma che può sorgere come modo dell’economia dell’oggetto è il fantasma del tiranno. Il fantasma del tiranno, ossia che esista un soggetto desiderante, un soggetto che padroneggia il proprio desiderio. Dunque, fantasma del despota, come fantasma di chi padroneggia il godimento; fantasma del tiranno, come fantasma del soggetto che padroneggia il desiderio; fantasma del vampiro, come fantasma del soggetto che padroneggia la verità. Tre fantasmi che indicano l’abolizione impossibile del sembiante, cioè dell’oggetto che, nella parola, causa il godimento, il desiderio e la verità.
Queste fantasmatiche, come ci mostrano le fiabe che abbiamo letto, sono in questione per quel che riguarda la rappresentazione della famiglia cosiddetta di origine: non c’è famiglia di origine che non venga rappresentata secondo le modalità dettate da questi tre fantasmi. Famiglia in cui ci sarebbe un despota, famiglia in cui ci sarebbe un tiranno, famiglia in cui ci sarebbe un vampiro, almeno. Di volta in volta può variare chi sarebbe il despota, il tiranno e il vampiro.
Prima di proseguire con altre notazioni, direi che possiamo leggere anche l’ultima fiaba, in modo da tenere conto anche di questa per alcune considerazioni che possono riguardare certamente la questione della famiglia. Mi pare chiaro che ciò attorno a cui ruotano queste fiabe è in particolare modo la famiglia, intesa come famiglia d’origine, quindi caratterizzata da alcuni segni, modalità, caratteristiche che possono oscillare dal negativo al positivo, e che sfocia tuttavia in una famiglia come famiglia originaria, famiglia come traccia. Ciascuna fiaba si conclude non secondo quella che sarebbe la predestinazione della caratteristica negativa, anzi indica che quella predestinazione è una credenza: la conclusione di ciascuna fiaba è altra rispetto alla premessa. Da qui l’interesse della lettura. È questo che ci dà modo d’intendere come la premessa sia la credenza soggettiva che si dissipa lungo l’itinerario. È nel percorso, nel cammino, nell’itinerario di qualificazione che si dissipa la credenza soggettiva dell’animale fantastico, cioè di potere essere o che qualcun altro possa essere anfibologico, ovvero esposto alla possibilità del bene o del male, dell’alto o del basso, del positivo o del negativo, del grasso o del magro. Ciascuna fiaba ci dice qual è l’itinerario dell’educazione, dove va l’educazione.
Dove va l’educazione? Va verso l’originario, verso la dissipazione di ogni possibile credenza nell’alternativa tra ciò che è diadico. Non c’è educazione, dove funziona la dicotomia ossia l’impossibile scissione di ciò che è ossimorico. Non c’è educazione se s’instaura l’alternativa esclusiva tra la vita e la morte, tra il bene e il male. Non c’è nessuna educazione se s’instaura l’intolleranza, il razzismo, l’idolatria, la superstizione.
L’educazione è in direzione della dissipazione di queste fantasmatiche inerenti la padronanza, la soggettività e l’idea di un possibile esercizio del controllo sulle cose, a scapito dello sforzo intellettuale, del rischio di vita, del rischio d’impresa, dell’intraprendenza, dell’intrapresa, dell’allestimento di dispositivi. È abbastanza semplice verificare se in un certo contesto c’è educazione o no. Sicuramente lo si può escludere laddove vi sia soggettivismo, idolatria, superstizione, nelle sue varie figure. Fa parte di questa modalità della superstizione anche credere nel despota, nel tiranno e nel vampiro; credere nel padre despota, nel figlio tiranno, nella madre vampiro, per esempio, o nel figlio vampiro, nella madre despota, nel padre tiranno. Possono esserci varie configurazioni, varie idee in proposito. Ciascuna di queste indica che c’è un percorso da fare, per non vivere da schiavo, perché ciascuna di queste idee non è altro che un’idea di schiavitù. Despota, tiranno e vampiro sono tre figure del padrone e quindi tre modi del farsi schiavo. Schiavo di che cosa? Della vita e della morte come sostanza, schiavo della circolarità, del cerchio, della genealogia, della predestinazione. Possiamo chiamarla in tanti modi, ma si tratta sempre della schiavitù.
Ecco, allora leggiamo la fiaba Il brutto anatroccolo, di Cristian Andersen.
C’era una volta un pollaio e in questo pollaio c’era la mamma anatra che covava i suoi ovetti. Uno, in particolare, era più grande degli altri, però lei lo covava lo stesso. Arriva il momento in cui si schiudono le uova, nascono gli anatroccoli bellissimi, ma un uovo non si schiude; un’altra anatra viene a dare un’occhiata all’uovo grande che non si schiude mai, dicendo che, probabilmente, è un uovo di tacchina e non vale la pena di scaldarlo, di covarlo ancora, perché anche a lei una volta è successa una cosa simile e questo uovo l’ha lasciato perdere.
Il pollaio è terribile, è un’immagine che ricorre in tutta la storia, perché quando nasce anche l’anatroccolo brutto, grigio e diverso dagli altri, deve andare insieme a tutti gli altri nel pollaio dove c’è una specie di giuria, dove bisogna presentarlo agli animali del cortile. E c’è un’oca gigantesca che ha uno straccetto rosso attaccato a una zampa, che è una specie di giudice, la persona più importante del pollaio. Quindi, per questo anatroccolo, poi, rimane per tutta la vita la questione del pollaio come posto in cui è nato e dove tutti lo beccavano, lo denigravano e gli davano le botte.
Il pollaio come il luogo della genealogia, il luogo dell’accettazione. Perché bisogna essere accettati nel pollaio, è fondamentale per ogni buon pollo. Per ogni rampollo è fondamentale essere accettato nel pollaio di riferimento Qui dice, appunto, che c’era il castello, ai cui piedi c’era una palude.
Insomma nasce ‘sto anatroccolo, la mamma lo accetta, gli vuole bene lo stesso e dice: “Insomma, secondo me non è un piccolo di tacchina, perché nuota come gli altri e anche un pochino meglio, quindi vuole dire che è senz’altro mio anche se un è po’ diverso. Si farà col tempo”. Poi, oltre tutto, è un maschio e dunque, anche se è bruttino, non importa: l’importante è che sia grosso, questo è il concetto. Però, andando avanti con i giorni, anche i fratellini rifiutano questo anatroccolo, lo beccano, lo buttano via, insomma, la mamma si augurerebbe…
C’è un dettaglio, qui, che sarebbe invece il caso di non trascurare. Allora: ci sono le uova che si schiudono, nascono i vari anatroccoli e incominciano a guardarsi attorno tra le foglie verdi.
[…] E la mamma li lasciò guardare quanto volevano, perché il verde fa bene agli occhi. “Com’è grande il mondo!” esclamarono gli anatroccoli. Infatti ora avevano molto più spazio di quando stavano chiusi nell’ovo. “Credete che il mondo sia tutto qui? — disse la madre — Il mondo è ben più grande: arriva dall’altra parte del giardino, sino al podere del parroco; là io non ci sono ancora mai stata.” Ognuno si rappresenta il mondo secondo le proprie misure. “Ci siete tutti? Tutti uniti, per benino? — e fece per alzarsi: — No, non siete tutti; l’ovo più grosso è sempre qui. Quanto ci vorrà ancora? Davvero che questa volta ne ho quasi abbastanza”. Questo è un dettaglio non trascurabile.
Condanna! “Davvero che questa volta ne ho quasi abbastanza”, come dire che il primo pensiero è di farlo fuori. È un pensiero abortista. Il brutto anatroccolo, perciò, è la conseguenza di un’idea di aborto. Di chi è questa idea? Dell’anatroccolo. Attribuito però alla madre. Che, quindi, ha fatto qualcosa per farglielo pensare? Ancora non sappiamo, però leggiamo.
“Davvero che questa volta ne ho quasi abbastanza!” e si rimise a covare. — “Dunque, come va!” — domandò una vecchia anitra venuta a farle visita. — La vicina — “Va, che va per le lunghe con uno di questi ovi!”, disse l’anitra che covava”.
Dunque ancora ci sarebbe l’idea di smettere, di farla finita.
“Non ci si scorge ancora nemmeno uno screpolo. Ma bisogna tu veda gli altri: — eh, gli altri sì che… gli altri sì che sono proprio… — sono i più belli anatrini che io abbia mai veduti”.
Sembra toscana questa fiaba; c’è una costruzione sintattica e frastica che sono del dialetto toscano.
“Tutti il loro padre, quel mariuolo, che nemmeno è venuto una volta a trovarmi!”.
Il padre mariuolo, però i più belli anatrini sono tutti il loro padre, mariuolo. Questo è un secondo dettaglio non trascurabile: il padre mariuolo.
“Lasciami vedere quest’ovo che non vuole scoppiare, — replicò l’altra. — Bada a me, sarà ovo di tacchina. È toccata a me pure una volta, e ti so dire che ho avuto il mio bel da fare con quei piccoli: avevano una paura dell’acqua…”.
Il ricordo, il ricordo dell’altra volta, perpetua la paura.
“Per quanto chiamassi e sbattessi le ali, non ne venivo a capo. Fammi vedere. Sì, sì, è un ovo di tacchina”.
L’esperta: uno sguardo, un’occhiata, occhio clinico, diagnosi. Un’occhiata e la diagnosi: “Sì, uovo di tacchina. La cura? È semplice: come ho fatto io”.
“E tu lascialo fare, e insegna piuttosto a nuotare agli altri piccini”. — Tu, quello lì, lascialo per conto suo — “Ormai ci starò un altro poco — rispose la mamma — ci sono stata tanto, che poco più, poco meno…”.
Sempre l’eventualità di lasciare perdere fa capolino.
“Bontà tua!”, fece la vecchia; e se ne andò. Finalmente anche l’ovo si aperse. “Pip, pip!”, disse il figliolo, e scappò fuori. Era grande, grande e bruttissimo. L’anitra lo guardò bene. “È terribilmente grosso, — disse, — nessuno degli altri è così: fosse mai davvero un piccolo tacchino?”.
E già comincia a vederlo tacchino. La vicina le ha detto che è tacchino.
“Si fa presto a vedere. Ma nell’acqua ha da andare, dovessi buttarcelo dentro io”.
Dovessi! Deve andare nell’acqua? Perché? È scritto, predestinato, deve andare nell’acqua.
Il giorno dopo il tempo era magnifico: il sole splendeva caldo tra il verde. Mamma Anitra fece la sua comparsa al fossato con tutta la famiglia. Plasch! e saltò nell’acqua…
[…] e l’uno dopo l’altro gli anatrini saltarono dentro. L’acqua si richiuse sul loro capo, ma ben presto essi tornarono a galla, e si misero a nuotare: le gambe si muovevano da sé, e tutti andavano benone: anche il brutto anitroccolo bigio nuotava con gli altri.
“No, non è tacchino — disse la mamma — vedete come sa adoprar bene le gambe, come fila diritto! Quello è figlio mio. In fondo non è poi brutto, a guardarlo bene. Qua, qua! — fece poi: — Venite, ora, e imparerete a conoscere il mondo. Vi presenterò alla corte; ma statemi sempre vicini, per non farvi schiacciare, e guardatevi dal gatto!”.
La mamma, prodiga di attenzioni, precauzioni: “Attenti, ai pericoli, c’è il gatto, gli altri vi schiacciano, state attenti. Non è tacchino, beh, meno male, è proprio figlio mio”. Dunque tutta la stirpe viene presentata alla società, avviene l’ingresso in società, la presentazione della genealogia.
E vennero nel cortile delle anitre. C’era un chiasso tremendo, perché due famiglie si disputavano una testa d’anguilla, la quale poi toccò al gatto. “Vedete? Così va il mondo”, disse Mamma Anitra, e si leccò il becco, perché anche a lei sarebbe piaciuta la testa d’anguilla.
Così avviene la presentazione, come diceva la nostra amica Martin, alla vecchia anitra e a tutte le altre anitre intorno, e ognuno disse la sua.
[…] “Vedete qua! Anche questa truppa ci capita! Come se non fossimo già troppi!”.
Arrivano gli albanesi, arrivano quelli dal Kosovo. “Ah, anche questi arrivano, come se noi non fossimo già abbastanza”. Uguale.
“Oh, che è quel brutto coso bigio laggiù? Non possiamo tollerare una simile bruttura!”. E un’anitra gli piombò addosso, e lo beccò sul collo.
“Lasciatelo stare, — disse la madre — non fa male a nessuno”.
“Sì, ma è così grande e così diverso dagli altri, — disse l’anitra che l’aveva morso — che bisogna le buschi”.
“Avete una bella famiglia, Mamma Anitra! — disse la vecchia col nastrino rosso alla zampa — Sono tutti bei figlioli, eccetto quel povero disgraziato lì. Vorrei che poteste rifarlo”.
“Ahimè, Eccellenza, — eh, ahimè — questo non è possibile! — disse Mamma Anitra. — “Non è bello, ma è di buonissima indole, — lo giustifica subito — e nuota magnificamente, come tutti i suoi fratelli; starei quasi per dire che nuota meglio. Credo che col tempo migliorerà, o, almeno, finirà di crescere. È stato troppo nell’ovo, per questo non è venuto bene”.
È perché succhiava troppo latte, è perché dormiva troppo, anzi dormiva troppo poco, mangiava troppo poco, no, mangiava troppo, per quello adesso è così, perché allora…
E la madre gli batté sul dorso ed incominciò a lisciarlo. — Pat, pat, poveretto! Eh, poveretto! Su, coraggio — Del resto, — continuò, — è un maschio, e quindi poco importa. — Eh, già! — Prevedo, anzi, che diverrà robusto; — se non è bello, almeno sarà robusto — se la cava già abbastanza bene…”. “Gli altri anatrini sono molto graziosi, — disse la vecchia — fate come se foste a casa vostra, e se per caso trovate una testa d’anguilla portatemela pure”.
E fecero infatti come se fossero a casa loro. Ma il povero anitroccolo, ch’era uscito ultimo dall’ovo, ed era tanto brutto, s’ebbe i colpi di becco, gli assalti e le beffe delle anitre e dei polli.
“È troppo grande!”, dicevano tutti; e il tacchino, ch’era nato con gli sproni e perciò s’immaginava d’essere imperatore, si gonfiò come un bastimento che spiegasse le vele, fece la ruota, divenne tutto rosso nel capo e gli si avventò. Il povero anitroccolo non sapeva che fare né dove scappare. Si sentiva avvilito d’essere tanto brutto da servire di zimbello a tutta la corte.
Così passarono i primi giorni, e poi andò di male in peggio. Il povero anitroccolo era scacciato da tutti, e persino i suoi fratelli gli usavano mille sgarbi, e dicevano: “Magari il gatto t’ingoiasse una buona volta, brutto che sei!”.
E la madre sospirava: “Ah, fossi tu lontano mille miglia!”.
Le anitre lo beccavano, i polli gli si avventavano e la ragazza della fattoria, che veniva a portare il becchime, lo respingeva, col piede. Egli allora scappò davvero, e spiccò il volo al di là della siepe; gli uccelli fuggirono spauriti dai cespugli e s’alzarono nell’aria.
E cosa succede poi? Nell’attimo in cui lui scappa via e gli uccelli volano, lui pensa subito: “Scappano via perché sono così brutto, ho fatto paura anche agli uccelli”. Questa è proprio una genealogia impressa in questo povero anatroccolo.
[…] “Ah, ma nuotare, che delizia! — replicava l’anitroccolo. — Che delizia rinfrescarsi il capo sott’acqua”.…
[…] “Sì, dev’essere proprio una bella gioia! — disse la gallina ironicamente: — Diventi matto, ora? Domanda un po’ al gatto, che è il più savio tra quanti io conosca, se gli parrebbe un piacere saltar nell’acqua e nuotare! Di me, non parlo… Domandalo, se vuoi, anche a sua Eccellenza”.
Quindi ci sono i vari pareri.
[…] “Voialtri non mi capite!” — disse l’anitroccolo. — “Se non ti si capisce noi, chi dunque t’ha da capire? Non vorrai già essere più sapiente del gatto e della padrona. Di me, ti dico, nemmeno voglio parlare. Non farmi lo schizzinoso, bambino; non ti mettere grilli per il capo. Ringrazia il tuo Creatore per tutto il bene che ti ha concesso. Non sei capitato in una stanza ben riparata, e in una compagnia, dalla quale non hai se non da imparare? Ma sei un cervello sventato, e non c’è sugo a ragionare con te. A me, tu puoi credere, perché ti voglio bene; ti dico certe verità che ti feriscono, ma da questo si conoscono i veri amici! Vedi d’imparare a fare l’ovo, a buttar fuori scintille e a far le fusa!”.
“Credo che me ne andrò a girare il mondo”, disse l’anitroccolo. “Buon pro ti faccia!”, disse di rimando la gallina. Dunque se ne va, e cosa accade poi?
[…] scappando a traverso ai cespugli, sulla neve caduta di fresco; e là rimase così spossato, che pareva stesse per morire. Ma qui la storia diverrebbe proprio troppo malinconica, se vi avessi a raccontare tutti i patimenti e la miseria, che l’anitroccolo dovette sopportare in quel crudo inverno. Stava accoccolato tra le canne della palude, quando il sole ridivenne caldo e splendente, e le allodole tornarono a cantare. Venne una magnifica primavera, ed egli poté spiegare di nuovo le ali, che erano divenute più forti e lo reggevano ora molto meglio. Prima che egli stesso sapesse come, si trovò in un grande giardino — ecco, l’altra scena. Non è più nella palude. Non c’è più la palude, non c’è più il cortile delle anatre, non c’è più l’inverno, non c’è più ghiaccio, non c’è più la morte, ma un giardino — dove i meli erano in piena fioritura, dove i lillà spandevano un dolce odore, allungando le verdi rame pendule sin sopra ai ruscelli ed ai canali che lo traversavano. Che bellezza quel giardino! Che freschezza di primavera! E proprio dinanzi a lui sbucarono, tra il fitto del fogliame tre splendidi cigni candidi, e si accostarono nuotando: con le ali leggermente arruffate, venivano scivolando agili e maestosi sull’acqua… L’anatrino riconobbe gli splendidi animali e fu preso da una strana angoscia. “Voglio volare sin là, presso gli uccelli regali” — ecco, sono diventati uccelli regali. Non regali regali, regali regali — “mi morderanno e mi faranno morire, per avere osato, io, così brutto, accostarmi ad essi. Meglio ucciso da loro che perseguitato dalle anitre, beccato dai polli, respinto dalla ragazza della fattoria, per patire poi tutto quel che ho patito durante l’inverno!”. E volò sino all’acqua e poi nuotò verso i candidi cigni, i quali accorsero ad ali spiegate.
“Uccidetemi!”, disse la povera bestiola e chinò il capo verso lo specchio dell’acqua aspettando la morte… Ma che cosa vide mai nell’acqua chiara? Vide sotto di sé la sua propria immagine; e non l’immagine d’un brutto uccello tozzo e grigiastro, orribile a vedersi, ma quella di un candido cigno. Che importa l’esser nati nel cortile delle anitre, quando si esce da un uovo di cigno?
Che importa l’essere nati nel cortile delle anitre quando si esce da un uovo di cigno?
Ora sì che si sentiva perfettamente felice, compensato di tutte le miserie e le disgrazie passate. Ora egli comprendeva tutta la sua felicità, e sapeva apprezzare lo splendore che si vedeva d’intorno. E i grandi cigni lo circondavano e lo lisciavano col becco. Vennero nel giardino alcuni bambini: gettarono pane e grano nell’acqua, ed il più piccolo gridò: “Uno di nuovo! Ce n’è uno di nuovo!”. E gli altri bambini, tutti contenti: “Sì, ecco che n’è venuto un altro!”. E batterono le manine, e si misero a ballare, e corsero a chiamare il babbo e la mamma; e buttavano pane e biscotti nell’acqua, e tutti dicevano: “Il nuovo è il più bello, il più bello di tutti, così giovane, così maestoso…”. Ed i cigni più vecchi si inchinavano dinanzi a lui.
Allora la timidezza lo prese: divenne tutto vergognoso, e nascose il capo sotto l’ala; provava un certo che… non sapeva neppur lui quel che provava. Era sin troppo beato; ma nient’affatto superbo, perché il cuore buono non è mai superbo. Pensava quanto era stato perseguitato e schernito; ed ora sentiva dire da tutti che era il più bello tra quei bellissimi uccelli! I rami dei lillà si chinavano sull’acqua verso di lui; il sole splendeva caldo e lo ristorava. Arricciò le penne, allungò l’esile collo e si rallegrò dal profondo del cuore:
“Non avrei mai sognato una gioia simile, quand’ero ancora un brutto anitroccolo!”.
E così si conclude la fiaba del Brutto anitroccolo.
Cioè, o bello o brutto. Quindi, “il più bello” è già nella genealogia, nell’alternativa, è già nel processo di filiazione, in cui il confronto non è con l’assoluto, non è con il punto più alto, ma è con i figli. È già nell’accettazione della morte, e infatti la scena è una scena mortifera, dove tutti vogliono il suo male, dove la famiglia è famiglia malefica, la madre è madre malefica, infatti è scappato. La madre avrebbe potuto anche stancarsi e lui avrebbe potuto non nascere. Questa non è una fantasia della madre, è una fantasia del figlio.
Qui si tratta del brutto anatroccolo come del figlio inscritto in una genealogia e dunque del figlio senza resurrezione, cioè del figlio che può morire, dove ogni gesto, ogni accadimento è sotto il segno della morte, dove ogni cosa che accade è un pericolo di morte. Tutta la scena è una scena del negativo, è una scena del male, dove l’altro è nemico, è ostile, è aggressore, dove la madre è abortista e il padre è mariuolo. È proprio una famigliaccia. I fratelli belli, bellissimi, bravi, buoni; la madre abortista; il padre mariuolo. In questa genealogia non c’è dispositivo, c’è la scena del negativo, dove si tratta di essere il più bello, per meritare l’amore, o il più brutto, per meritarsi tutte le angherie. Il più bello o, l’altra faccia, il più brutto. Ma l’idea del “il più bello” e del “il più brutto” sono una conseguenza della famiglia maledetta, della famiglia negativa, cioè della genealogia del negativo, dove ciascun segno è segno del male.
La questione è quella di venire accettato dalla corte, dell’essere accettato, diciamo così, dalla società. Fantasia dell’accettazione, dunque del conformismo o dell’anticonformismo, fantasia che sorge sempre come modo di mantenere il cerchio e il segno dell’origine. Se vengo accettato, allora il segno è positivo; se non vengo accettato, allora il segno è negativo. Fantasia di accettazione, ossia fantasia di genealogia e anche di predestinazione. Ma a un certo punto questa scena non c’è più, questa mitologia del negativo non c’è più, questa famiglia maledetta non c’è più. Come mai?
Non ci sono i fratelli. In quanto belli, più belli, non ci sono i fratelli, e i fratelli non sono fratelli, sono rappresentazioni dell’Altro, come Altro negativo, come Altro ostile. Il punto è proprio questo, che in questa fantasmatica il padre è assente: “Il padre, mariuolo, non è venuto nemmeno una volta a trovarmi”. Il padre è assente e dunque non ci sono nemmeno i fratelli, perché il frater è un modo della certificazione. Il frater, cioè, l’altro figlio. E l’altro figlio certifica il padre. Ora, qui, il padre è assente e dunque non ci sono fratelli, ma rappresentazioni dell’Altro, rappresentazioni del negativo e dunque i fratelli sono cattivi. Ma, in quanto cattivi, è negato il fratello e è negato il padre, cioè è consacrata la genealogia attraverso la negazione del padre e del fratello. Il fratello, in quanto alter filius, non è né buono né cattivo. È frater, e perciò si dispone nell’amicizia, nell’alleanza, si dispone nel dispositivo. Nella fiaba non c’è, perché è negato il padre e è negato il frater. Quelli che vengono chiamati fratelli, in quanto malvagi, non sono fratelli; è una rappresentazione dell’Altro che, in quanto rappresentato, è tolto. L’Altro è Altro irrappresentabile.
L’Altro è l’alterità assoluta. L’alterità è irrappresentabile. Non posso dire com’è l’alterità, perché, nel momento in cui la prefiguro, non è più alterità, diventa sostanzialità. Allora, in questo caso, il fratello cattivo non è più fratello, è tolta l’alterità, la differenza e si tratta di rappresentazioni del negativo, cioè dell’altro se stesso. Il fratello cattivo è la rappresentazione della specularità propria, negato il funzionamento della parola, perché il figlio è il significante che funziona. Basta leggere sant’Agostino per accogliere questa cosa. Il fratello è il filius, in quanto significante che funziona, non ha nessuna caratteristica del positivo o del negativo. Il funzionamento è funzionamento in direzione della qualifica, non è positivo o negativo. Procede dal positivo-negativo, procede dall’ossimoro. Il padre buono o il padre malvagio è la negazione del padre; il figlio buono o il figlio malvagio è la negazione del figlio, perché è tolto l’Altro, cioè è tolta l’alterità, la differenza, la differenza assoluta, perché viene posta un’ideologia della sostanza, invece dell’attribuzione alle cose di ciò che pertiene alla diade.
La diade, cioè l’ossimoro, non è un attributo delle cose. Le cose non sono positive o negative, perché positivo-negativo non è un attributo delle cose. Non c’è cosa che possa essere positiva o negativa, perché positivo-negativo è l’apertura su cui le cose si stagliano. Le cose si stagliano sull’apertura, non sono apertura, né hanno le caratteristiche dell’apertura. Come dire che, se questo bicchiere si staglia sulla bottiglia, non può avere le caratteristiche della bottiglia. Positivo e negativo è ciò da cui, possiamo dire, viene questa cosa. Allora positivo-negativo sta nell’apertura, non è attributo delle cose. Le cose funzionano a partire da questo positivo-negativo, non possono a loro volta risultare positive o negative, perché vanno verso la loro qualificazione. E la qualificazione non è un aggettivo delle cose, ma è la loro struttura, cioè, a partire dall’apertura, le cose entrano nella temporalità. Entrando nella temporalità, le cose si qualificano, si precisano, giungono al loro caso. Ecco, positivo e negativo non sono nella temporalità: sono in un’altra logica, che è una logica diadica, mentre la logica del funzionamento è singolare triale. Ora, la questione dell’anatroccolo è che non c’è conciliazione tra il bello e il brutto, tra l’alto e il basso. Alto-basso, bello-brutto, positivo-negativo rappresentano l’inconciliabile della relazione, che mai può diventare relazione sociale, cioè conciliazione, accettazione e, infatti, impossibile venire accettato, farsi accettare.
Questo dice la fiaba. Impossibile farsi accettare come il più bello, come il più brutto o come né bello né brutto. Impossibile farsi accettare. Farsi accettare è il tentativo di mediare l’inconciliabile, vorrebbe dire accettare la genealogia, l’origine localizzata, quindi accettare il cerchio. È proprio questo che la fiaba indica come impossibile. Nel momento in cui interviene l’audacia, quando a un certo punto dice: “Uccidetemi per aver osato”, ovvero nel momento in cui non è accettata questa mitologia della significazione dell’origine, la scena del negativo si dissipa. E di che cosa si accorge il brutto anatroccolo?
Di non esserlo mai stato! Come dire che, nel corso del suo itinerario, giunge al teorema, alla formalizzazione dell’assenza del negativo come possibilità: cioè non c’è più il brutto anatroccolo. Non per metamorfosi, non perché prima era brutto e poi diventa bello, ma perché non c’è mai stato il brutto anatroccolo, se non come credenza di una rappresentazione del negativo. Nel corso dell’educazione, il brutto anatroccolo constata i termini della propria fantasmatica e può dire che il brutto anatroccolo non c’è più. Non c’è più, perché? Perché non c’è mai stato. Non perché prima c’era e poi è stato “trattato”, o ha incontrato una metamorfosi: non c’è più perché non c’era mai stato.
Questa è la questione dell’analisi, con la relativa dissipazione di una credenza. Non c’è più il male, non c’è più il negativo, non c’è più la malattia, non perché prima c’era e poi si converte in un’altra cosa, ma perché non c’era neanche prima, se non in termini di una credenza, di una fissazione di qualcosa rispetto a una mitologia, rispetto a una fantasmatica, che evidentemente non consentiva una certa formalizzazione.
Ora, siccome qui si tratta dell’identità dell’anatroccolo, cioè dell’identità del figlio, qualunque identità attribuita al figlio è un’identità negativa, è un’identità inaccettabile. Non c’è identità attribuita al figlio che possa venire accettata, perché il figlio è per sua natura differente. Il figlio è differente, attribuirgli l’identità è inaccettabile. Questa è la questione.
Siamo alle prese con una circolarità, cioè che la famiglia in questione, lì dove un bambino raccontasse di questa fantasia che forse lui in realtà è un trovatello, che quelli non sono i suoi genitori, oppure che ha sognato questa cosa, dice che gli viene attribuita un’identità che non accetta. Pertanto lui non è figlio loro, quelli non sono i suoi genitori, è lì, ma non discende da loro. Già in questo c’è qualcosa di assolutamente strutturale, di originario, nel senso che papà e mamma non sono il padre, non sono la madre, cioè non ricoprono lo statuto originario, nella parola, del padre come funzione e della madre come indice del tempo, indice del malinteso, indice della comunicazione che non si realizza mai, che non si realizza nella comprensione, nella chiusura del messaggio o del discorso. La madre è anche indice del malinteso, indice di un discorso che non si chiude, di una intesa che non giunge mai a chiudersi. nella parola. Nella parola, perché la “nostra” società sembra invece inseguire questo miraggio, questa possibilità; ritiene che effettivamente ci sia un’unione simbiotica tra la mamma e il suo bambino. E non è così perché, se si realizzasse, il bambino non troverebbe più modo di parlare, perché sarebbe soffocato da questa idea di simbiosi, sarebbe assolutamente imprigionato in un mondo senza parola. Quindi la madre è lo statuto del malinteso, è l’indice del malinteso. È per questo che allora c’è madre e, se c’è madre, le cose non finiscono e allora ciascuno può intraprendere, perché la madre è l’indice dell’infinito. Se invece c’è la mamma, che impedisce, che vincola, che prescrive, che proibisce, che vieta, che dice: “Guarda, questo è così. Tu sei qua, tu sei mio figlio, mio figlio deve fare così, tu qua, tu sei il brutto anatroccolo, tu sei il brutto anatroccolo però sei robusto” oppure il padre che prescrive: “Mio figlio deve fare così, perché lui porta il nome mio”, allora non c’è più la famiglia originaria. C’è una cappa genealogica dove il destino è già assegnato. Non c’è un dispositivo, non c’è un itinerario possibile, perché c’è un’identità che dev’essere mantenuta passo passo. Allora che passi sono, se questi passi devono mantenere un’identità già data? E questa identità, che identità è? È una prigione.
Il discorso ossessivo ritiene che non possa esservi conclusione, perché questa conclusione corrisponderebbe alla fine, e dunque viene evitata. Per padroneggiarla, allora viene evitata la conclusione e s’incominciano tante cose, ma nessuna viene portata a conclusione. Anzi, c’è molta facilità di cominciare tante cose e di non concluderne nessuna. Invece il discorso isterico teme di non concludere, per questo non incomincia mai. Tende a non incominciare mai, perché teme di non potere concludere per una fantasmatica inerente l’incesto. Quindi non incomincia, rimanda sempre, perché c’è l’estrema difficoltà nell’incominciare, temendo di non potere concludere. Il discorso ossessivo, al contrario: grande facilità di incominciare e la difficoltà sta nel concludere e non conclude mai. Le questioni stanno qui, nella mitologia inerente il padre e la madre. Non in quanto forme di malattia, ma per una logica che trova una prevalenza quale logica del fantasma, per una credenza di potere o di dovere esercitare una padronanza e un controllo sull’eventualità positiva o sull’eventualità negativa. Per un verso, il discorso isterico non incomincia temendo di non concludere, quindi c’è un’eventualità negativa, per cui c’è un’anticipazione del negativo e non c’è l’incominciamento. Il discorso ossessivo è il contrario, per così dire: grande facilità di incominciare, perché ritiene che non ci sia problema. Il problema viene dopo, all’atto di dovere concludere, e siccome la conclusione potrebbe rivelarsi negativa, allora non c’è conclusione; a un certo punto lascia perdere, non conclude, perché la conclusione sancirebbe, realizzerebbe una fantasmatica e, rispetto alla presunta identità che verrebbe dalla cifra, rinuncia, rinuncia alla cifra stessa, rinuncia a concludere, si astiene.
Ma questi sono dettagli più clinici, su cui magari ci soffermeremo nel prossimo corso, dato che questo, ormai, l’abbiamo terminato in questo istante.
Tutto ciò anche per dire che le implicazioni, che vengono dalla lettura di queste fiabe, quindi anche dalla lettura del testo della storia di ciascuno, sono cliniche, cioè vanno in direzione della clinica, vanno in direzione della cifratura. È con la clinica che procede l’educazione stessa. Un’educazione che non si avvalga della clinica, che non individui la logica che è in atto in un certo itinerario, non assolve il suo compito.
L’educazione esige un dispositivo clinico e la formazione clinica, altrimenti risulta una somma di applicazioni e di convenzioni sociali; non è più educazione, è il cortile dell’oca, con strepito, schiamazzo, confusione, mirante all’accettazione della propria identità sociale. L’identità sociale è quella che il brutto anatroccolo non può accettare. Fino a che questa identità sociale gli viene attribuita, è brutto anatroccolo, è reietto, è escluso, è ribelle, cioè è nel disagio. È nel disagio, che però non trova la sua articolazione, la sua via, il suo itinerario. Nel momento in cui il disagio trova il suo itinerario, il brutto anatroccolo non c’è più. E non sappiamo che cosa ci sia, perché non c’è più animale. A questo punto, non c’è più l’animale, non c’è più l’animale fantastico. Questo è il punto importante, che nessuno può più pensarsi come animale fantastico, cioè come esponente del bene o del male.
Ottava conferenza della serie La lettura delle fiabe