I termini della scommessa
Il brainworking è indicativo del gerundio. Il brainworking si instaura essendosi instaurato il gerundio, cioè, il cervello non è il mezzo del lavoro o lo strumento del lavoro, ma il cervello è il dispositivo del lavoro, dispositivo di attuazione di ciò che occorre fare gerundivamente. Non è una questione di possibilità o di volontà, ma di occorrenza e, pertanto, del modo di formulare la proposta senza fare la parodia delle finalità sociali o sanitarie dell’intervento. Il servizio intellettuale sta anche nel modo dell’intervento, ma non finalizzato a questo o a quel problema, a questo o a quel male, a questa o a quella difformità. La questione è quella dell’intero, la questione è quella della direzione intellettuale; questo è ciò cui attiene il brainworking. E perché si instauri occorre quanto meno avere attraversato e dissipato il debito presunto, verso l’origine, verso la famiglia presunta di origine, verso la sostanza dell’origine con la conseguente idealità di fine, con la conseguente finalità di bene, con la “conseguente finalità”. A che scopo? A che fine? A fine di bene! La questione essenziale è la dissipazione dell’idea di sostanza in ogni rappresentazione e dell’idea di soluzione di un problema, che è conseguenza dell’idea di sostanza, rendendo sostanza sia sé sia l’Altro.
La parola è originaria, in principio è la parola, non in principio c’è la società, la famiglia, l’idea di sostanza, di bene, di male, di alternativa, di alternanza, le magagne, i problemi e poi, una volta raggiunto il benessere, ci si può rivolgere a questa o a quella intrapresa, a questa o a quella finalità di bene. In principio è la parola; quindi, in principio non è la malattia, in principio non è il male, in principio non è il problema, in principio non è il discorso occidentale, in principio non stanno i servizi sociali, in principio non è l’ospedale.
In principio è la parola con la sua particolarità, con la sua struttura, con i suoi modi. Non è che alla parola si arriva per metempsicosi, per migrazione delle anime, per ascesi, per espiazione. No! Non si arriverà mai alla parola per via di meditazione, di idealizzazione, è assurdo e vano credere che si possa arrivare alla parola attraverso la pratica di riti misterici, religiosi, espiatori, penitenziali o penali. Tutto ciò impedisce che vi sia parola, tutto ciò è volto a un ideale ecumenico di sofferenza che si chiama socialità, ma nulla ha a che vedere con la parola.
In principio è la parola e per cogliere l’essenzialità di questo occorre praticare l’assoluzione, non la soluzione, ma l’assoluzione, l’absolutio, che non è l’assoluzione da un peccato o da una colpa che fonda un principio ordinatore, o che restituisce la purezza che era stata tolta. Non è nemmeno la restituzione della verginità con l’espiazione, con la purificazione, con le abluzioni, con la pratica della sofferenza; la verginità è una proprietà del tempo, non personale, nonostante una certa propaganda chirurgica.
L’assoluzione è la formulazione del teorema che assolve, e indica che non c’è mai stato il peccato o la colpa che si presume debbano essere puniti o espiati. L’assoluzione indica che nessuna ombra del peccato o della colpa può gravare sulla domanda, sul cammino, sul percorso, sull’itinerario della domanda dall’apertura alla sua cifra. L’ombra è l’indice dell’inconciliabile del due, dell’inconciliabile dell’apertura, non è il segno dell’alternanza tra la luce e l’ombra, è l’indice dell’inconciliabile, cioè dell’impossibile alternanza fra la luce e la tenebra. Ponendo l’ombra come l’alternanza o l’alternativa tra la luce e la tenebra, allora diventa peso, negatività, pericolo dovendo rispettare il segno dell’alternanza o dell’alternativa fra la luce e la tenebra, dovendo, per così dire, rispettare la funzione di uguale, dovendo bilanciare l’idea di appartenenza, dovendo mediare la funzione sociale. A questo giunge l’ombra se viene significata dall’alternanza e dall’alternativa, cioè se è considerata secondaria alla luce, secondaria alla tenebra, all’alternanza e all’alternativa fra la luce e la tenebra. L’ombra è originaria, è l’indice dell’inconciliabile di luce e tenebra.
Pertanto, nessuna possibile mimesi della colpa e del peccato, nessun mimetismo per ribadire l’appartenenza, la consanguineità, la consustanzialità, la parentela, la comunanza dell’origine. Dissipare la soggiacenza all’idea di colpa e di peccato, di penitenza e di pena, è essenziale per l’instaurazione dello statuto intellettuale. Fino a che permane la credenza di dovere mediare, bilanciare, dosare, mimetizzare l’origine, la colpa, il peccato, di dovere giustificarsi rispetto a questo, farne l’economia, mantenendone una certa quantità accettabile, cercando di eliminarne l’eccedenza, quindi mantenendo la fantasmatica relativa a questo, ebbene, tutto ciò impedisce l’instaurazione della parola e impedisce l’instaurazione della questione intellettuale.
L’analisi con l’assoluzione non è mediazione fra la credenza e la verità, non è l’accettazione della verità rivelata, della verità dell’Altro, non è la scoperta della corretta versione dei fatti, la scoperta della natura o della realtà, di come sono veramente andate le cose, o di come si sono svolti i fatti! L’analisi non è ripristino, non è, né favorisce la coscienza di sé, non è la coscienza di una visione del mondo, non è, né ha da consentire, la consapevolezza di sé o dell’Altro, la consapevolezza del bene o del male, la consapevolezza della finalità della vita, del senso della vita. L’assoluzione né instaura, né ha da favorire un principio identitario o egualitario.
L’analisi procede dall’anoressia intellettuale, dalla accettazione della parola originaria. Pensare che possa attuarsi una conversione alla parola, per salvazione, per guarigione, per convinzione, per soluzione, è assurdo, è una forma di pregiudizio psichiatrico. Credere questo è pregiudizio psichiatrico, ossia è credere nella liberazione, nella salvazione, nella salvezza. La psicoterapia, invece, tenta il riordino del passato per consentire un’altra ipoteca sull’avvenire rispetto a quella che si credeva di avere.
L’analisi è la teorematica, la formulazione del teorema che indica che la credenza nel negativo, nel male, nella malattia, nella soggettività, nell’origine, nella mortalità non c’è più. La teorematica dissipa il vittimismo nei confronti del così detto traumatico, che è ciò con cui ogni purismo e ogni radicalismo istituiscono il soggetto come debole, ammalabile, quindi da proteggere, da difendere, da curare, da educare, da guarire perché sia salvato e non si perda. Come dice la preghiera? “Perché la sua anima non vada perduta”. Cosa dicono gli psichiatri? “Perché il paziente non si perda, non si perda di vista”. È la stessa ideologia della salvezza.
La parola è originaria, con la sua ricerca e la sua impresa, e la ricerca non è per stabilire quale sia il principio primo o iniziale, ossia il principio ordinatore del sistema. Non c’è sistema. L’ipotetica scelta tra il principio primo e il principio iniziale è pensata per dirimere ogni dubbio, per abolire il dubbio, per abolire il modo del due e credere di potere seguire un metodo ordinatore certo, che faccia da guida nelle scelte. È l’instaurazione del daimon come principio primo o iniziale, principio algebrico o geometrico, principio dell’immanenza o della trascendenza. Questa idea di un principio ordinatore è per potere abolire la parola e il tempo, e decidere in autonomia e in automaticismo, senza il cervello. L’ipotesi di un principio ordinatore, del principio primo o iniziale è l’ipotesi di un principio ideale che istituisca l’alternanza e l’alternativa: l’alternanza fra il bene e il male, l’alternativa fra l’amico e il nemico; alternanza e alternativa, abolendo il due, istituendo la contrapposizione fra alternanza e alternativa, abolendo il tre, favorendo l’alternativa tra amico e nemico, fra la colpa e il premio, fra il castigo e il premio, tra la colpa e il peccato.
Tutto ciò non è attribuibile né alla società, né alla fatalità, né all’origine, né al destino, né alla fortuna, né alla sfortuna. È questione intellettuale. La questione è in che modo l’attuazione della parola entra nel progetto e nel programma di vita, quanto alla domanda e al suo destino. In che modo la logica della nominazione, la particolarità della parola, interviene nel ragionamento senza più concessioni al pettegolezzo, alla logica dell’alternanza e dell’alternativa, senza più la linguistica della colpa e della pena, senza più l’alternativa fra penitenza e pena, senza più la sistematica psicologica o pedagogica, senza la metodica religiosa, ideologica o medicologica? Senza tutto ciò s’instaura il brainworking, il dispositivo intellettuale con i suoi servizi, servizi intellettuali.
La parola non è misterica, né misteriosa e ogni indugio rispetto al pettegolezzo, al discorso di padronanza, indugio addotto o giustificato da un’ipotetica difficoltà, incomprensibilità, ignoranza della parola, del due, del tre, dello zero, dell’uno, dell’Altro, tutto ciò è adesione al discorso comune. Ogni indugio è adesione al discorso comune, ogni indugio è complicità con il discorso comune, adesione e complicità ai principi dell’alternanza e dell’alternativa, ai principi che sono regolati dall’accettazione dell’idea di colpa, di peccato, di penitenza, di pena, di redenzione e di salvezza come fondamenti della vita.
La questione è: quale posizione nella vita? Qual è la posizione intellettuale? Da dove viene la provocazione nella parola? Viene dall’oggetto e la provocazione nella domanda viene dalla posizione dell’oggetto. Non si tratta di essere la provocazione per qualcuno, ma di cogliere la questione della provocazione rispetto all’instaurazione della domanda e di non delegare questo al destino o agli apparati.
Il brainworking non è ideale, né è misterico o misterioso, non è frutto di conoscenza, ma è l’attuazione del servizio intellettuale, l’attuazione del servizio che procede nel dispositivo della parola. Brainworking: servizi e dispositivi, non accettazione fatalistica di quello che accade nel mondo, ma accettazione della parola, accoglimento della parola. L’anoressia intellettuale è l’accettazione della parola, non il respingimento della parola a favore di questo o quel personalismo, ma accettazione della parola.
Nel brainworking non si tratta tanto del servizio di consulenza, termine che nulla ha a che vedere con le proprietà della parola, ma che piuttosto evoca l’applicazione di schemi psicologici, di metodi statistici, comportamentali, di algoritmi fondati sulla probabilità, sulla possibilità, sulla conoscenza dei bisogni veri, reali, presunti, sulla media e tante altre frivolezze del genere. Il brainworking indica la direzione, propone dispositivi, attua dispositivi. In ciascuna circostanza, con ciascun interlocutore, si tratta della direzione alla qualità della vita, direzione dell’impresa, direzione della ricerca, direzione della domanda, pone in risalto la domanda e che ciascuna cosa non procede fatalisticamente per chissà quale probabilità, possibilità o fatalità. Si tratta, quindi, della direzione della vita, dell’impresa, dell’azienda, del dispositivo e questo esige l’esperienza della parola, non già la formazione medica, psicologica, sociologica o chissà che. Esige l’esperienza della parola, l’esperienza delle particolarità della parola, del numero della parola. Provocare la domanda è la questione essenziale perché vi sia scambio, interlocuzione, perché vi sia teorematica di ciò che sembra scontato, banale, sostanziale.
Brainworking: provocazione alla direzione della domanda, provocazione al servizio intellettuale della parola, provocazione ai dispositivi di parola, provocazione per la direzione alla qualità, quindi alla salute, alla ricerca, all’impresa, alle proprietà e alle virtù della parola; alla riuscita non per illuminazione, non per magia, non per ipnosi, ma per brainworking.
Sono questi i termini, oggi, della scommessa sulla parola, con la parola, per la parola, la scommessa intellettuale, la scommessa di vita per ciascuno, per la soddisfazione, per la riuscita, per la qualità, per la salute. Questa è l’esigenza dello statuto intellettuale, questa è la cosa seria; l’unica cosa seria è questa. Questa è la partita da giocare e solamente giocando la partita si vince, chi si astiene può contare su un premio di consolazione, e come premio di consolazione avrà la sua espiazione, la sua pena, la sua penitenza. Qui si tratta della chance della parola, la chance di ciascuno, la nostra chance. Senza riferimento a precedenti, predecessori o a quant’altro. Il riferimento è l’oggetto della domanda per ciascuno; occorre dare prova che sia in atto la domanda.
È come dire che c’è da fare. C’è da fare! Non è come dice qualcuno: “Non abbiamo niente da fare”, qui c’è da fare e quindi facciamo! Questa è l’occasione, senza rimandi, senza rinvii, nello specifico della parola, nel dispositivo di parola, nella linguistica della parola. Questa è la partita. E, come notava qualcuno, il brainworking non è una questione teorica, ma è la pragmatica della questione intellettuale, la pragmatica del servizio intellettuale. Non è una questione teorica o da imparare, non è una questione di conoscenza, o universale, o universitaria. È chiaro questo?
La parola non ha luogo, né un luogo puro, né un luogo radicale, né un luogo giusto, né un luogo convenzionale, né un luogo congruo: è senza luogo. Pertanto, non c’è da avere paura, impossibile avvicinarsi alla parola ideale, al luogo ideale, al modo ideale, al principio ideale, all’essere ideale. Sono chiare le implicazioni di questo? È del tutto vano coltivare un’immagine ideale di sé o dell’Altro, aspettare di raggiungere l’immagine ideale di sé, il luogo ideale di sé, la capacità ideale di sé. È chiaro questo? Se non è chiaro, urge il chiarimento! Per chi coltiva e giustifica l’attendismo a favore di un’idealità da raggiungere, tutto è perduto. Tutto quello che pensava di potere perdere è perduto, è già perduto. Quindi, che aspettare? Aspettare cosa? Esitare perché?
Tredicesima conferenza della serie Una lingua nuova. La lingua della parola