I dispositivi economici e i dispositivi finanziari.
Quale educazione per l’approdo al valore
Il valore della vita non dipende dalla sua durata: il valore è attuale, la vita è attuale e non è mai vissuta né tanto, né poco. Chi ritenesse di averla vissuta e si basasse sul ricordo di ciò che ha vissuto, negherebbe la vita, negherebbe l’attuale della vita, si impedirebbe il valore della vita, che non è la somma di ciò che è stato. Il valore della vita viene dall’intersezione del simbolo e della lettera, dunque di ciò che sta sui bordi della pulsione, intersecando l’intervallo. La medicologia parla di qualità della vita in relazione all’attesa di vita e in questo modo si riferisce alla morte, introduce nella vita il criterio mortifero, ossia della fine. La vita è senza attesa, esige l’attuale, l’istante, il dettaglio. La vita esige la domanda e la rivoluzione, il rivolgimento della domanda in direzione del valore. Questo rivolgimento è senza conoscenza, senza certezza.
In nessun modo l’incertezza può giustificare la contemplazione della domanda, auspicandone l’autopsia, alla ricerca della certezza e della sua conferma. Perché mai la domanda dovrebbe presumere la conoscenza, la finitezza, la certezza, ossia dovrebbe porre al riparo dal rischio di verità? La verità non è già data, non è ontologica ma è un effetto del tempo, come il senso, come il sapere. La domanda trova soddisfazione correndo questo rischio, non stando al riparo da presunti pericoli. A correre questo rischio è la domanda, non qualcuno. Chi presumesse di dovere stabilire, pensare, decidere se correre o non correre il rischio, è chiaro che si trova in una soggettività in cui grava l’idea del pericolo, ossia l’idea di fine, di finitudine. Questa è la cosiddetta malattia mentale, che è la rappresentazione, le svariate rappresentazioni di sé, della significazione di sé in quanto soggetto di buona volontà, soggetto sincero, soggetto buono, soggetto delle buone intenzioni, soggetto disposto anche a dire la verità. Soggetto della fantasmagoria algebrica, ossia dell’oscillazione fra positivo e negativo, e soggetto della rappresentazione geometrica tra inizio e fine. Quello che viene chiamato “malattia mentale” altro non è se non una moralizzazione della pulsione e cioè il tentativo di trattare la pulsione con il criterio della ragione sufficiente, inserendo la pulsione in un sistema finito di soggettività e di rappresentazione. Quindi togliendo, abolendo l’idioma e la logica della parola, il modo della parola, il tempo della parola che sono la logica, il modo, il tempo della vita. Tolto il tempo, tolta la logica, tolto il modo della parola, abbiamo il sistema: il sistema naturale, il sistema umano, il sistema finito.
“Non c’è più sistema” è il teorema dell’intellettualità: è un teorema da cui procede il modo del fare senza più paura. La paura è l’appiglio di chi indugia, di chi si giustifica, di chi delega, di chi attua ogni remora, ogni riserva rispetto al progetto, al programma di vita, accampando talvolta una carenza di conoscenza, talaltra una carenza di tempo o perfino una carenza di vita. Chi per la vecchiaia, chi per l’eccessiva giovinezza, chi per un’assenza di esperienza, ognuno ci mette del suo per giustificarsi, per consolarsi, per confermarsi nell’indugio, nel rimando, nel rinvio. Dunque occorre il modo della parola, il tempo della parola, il ritmo della parola, ossia del modo in cui ciò che si ricerca, ciò che si fa, giunge a scriversi. Questo è il ritmo: l’assenza d’inerzia, di automaticismo, di predestinazione. Il ritmo è una proprietà del dispositivo pulsionale. La pulsione, rivolgendosi verso la cifra, esige il ritmo nell’attuazione dei dispositivi opportuni. Dunque non il ritmo cosmico, il ritmo dell’universo, il ritmo delle stelle, il bioritmo, il ritmo di Tizio e quello di Caio, ma il ritmo pulsionale, ritmo di quel che si fa, il ritmo di quel che si cerca. Il ritmo nella combinatoria tra ricerca e impresa. Non il ritmo dello spettatore, non il ritmo dell’attesa, non il ritmo dello stare a vedere che cosa accadrà. L’attesa, l’attendismo, il rimando, la delega, tutto ciò è senza ritmo. La domanda trova il suo ritmo nell’ipotesi di avvenire, dunque nell’ipotesi della ricerca e dell’impresa, nell’ipotesi pragmatica, nell’ipotesi sintattica, nell’ipotesi frastica lungo cui sorga la formulazione di un progetto e di un programma e questa formulazione si scriva, in modo che il progetto e il programma possano attuarsi, compiersi, approdare al valore attraverso la varietà e la differenza delle cose che si dicono, che si fanno, che si scrivono, che si cifrano, in un processo intellettuale e non in una stasi intellettuale. In un processo che va da corpo e scena alla loro combinazione nella cifra, quindi dall’apertura, dalla questione aperta fino alla cifra. Processo, non corso naturale ma processo intellettuale che esige quindi l’attuazione di dispositivi e non lo stare a aspettare, lo stare a guardare, lo stare a vedere come quando si dice: “Aspettiamo, qualcosa accadrà!”. Il ritmo procede dall’incominciamento: qualcosa incomincia, segue il ritmo, ma non un ritmo qualunque. Nulla di animale, nulla di naturale, nulla di cosmico. Ritmo pulsionale, ritmo intellettuale. C’è chi dice: “Non so da dove cominciare. Io farei, direi, proporrei, ma non so da dove cominciare. Se qualcuno mi dicesse da dove cominciare, allora io potrei, potrei anche cominciare”. L’incominciamento non è una facoltà, è pulsionale, è funzionale. Qualcosa incomincia, qualcosa debutta, qualcosa si precisa, qualcosa si fa, qualcosa si scrive non lungo una via retta, non lungo una via preordinata, ma lungo ciò che Freud ha qualificato come la vicissitudine: le vicissitudini della pulsione, il cui andamento non è soggetto a un criterio morale di bene o di male. La vicissitudine non è economicistica, non è soggetta al criterio del risparmio energetico. La pulsione non è energetistica. Tolto l’incominciamento, allora è la stanchezza. Accanto a quella prerogativa che Aristotele aveva individuato, noi potremmo aggiungerne un’altra: ogni umano è stanco. Ogni umano, ogni essere umano è stanco e che cosa cerca? Il riposo. Cerca di riposarsi e cosa fa? Prima lavora e poi si riposa e ha bisogno di questa nozione di riposo per giustificare la stanchezza.
C’è un riposo che, tuttavia, non esige la stanchezza per attuarsi: riposo non energetistico, che non procede dall’energia, che non esige la giustificazione della stanchezza, cioè della soggettività. Nessuno sa dove sia l’incominciamento, dove stia, come sia, ma la nominazione comincia a instaurarsi da lì, la nominazione con i suoi dispositivi di qualificazione, di narrazione, di cifratura.
Dunque il processo intellettuale esige la qualificazione e la valorizzazione. Ma perché possano intervenire la qualificazione e la valorizzazione occorre l’analisi, occorre che sia dissipata la credenza tanto nella sostanza quanto nel soggetto, allora può instaurarsi un dispositivo. Ma se prevale l’idea di sé, l’idea di essere, l’idea di finitezza, l’idea di fine, tutto questo impedisce l’instaurazione del dispositivo.
Non qualunque iniziativa è dispositivo, non qualunque iniziativa volta a dimostrarsi tale, volta a confermarsi nella significazione di sé, nell’idea di sé, nella rappresentazione di sé è un dispositivo. Innanzitutto, il dispositivo è temporale, sessuale e quindi senza il prima e il dopo a dover rappresentare la successione. L’idea di successione è l’idea di genealogia, è idea di morte. Chi si rappresenta come successore, si rappresenta come figlio morto del padre morto, cioè si rappresenta con le caratteristiche proprie al cadavere e quindi si rappresenta in un processo di cadaverizzazione, in un mimetismo cadaverico. L’analisi, accanto alla questione della dissipazione della credenza nella sostanza o nel soggetto, comporta pure la dissipazione del mimetismo, ossia della realizzazione della fantasia di appartenenza a una stirpe, a una genealogia, a una famiglia animale attraverso l’assunzione di alcune caratteristiche negative che dovrebbero confermare questa appartenenza. Occorre capire che l’ereditarietà è il nome della soggettività. L’idea dell’ereditarietà viene dalla sospensione dell’analisi e dall’assunzione della credenza genealogica. Ogni genealogia è mortale, è mortifera: va dall’origine alla fine. Ogni mimetismo rappresenta l’assunzione della genealogia e a questo porta. Chi si pone come successore riesce nella rappresentazione della genealogia in quel mimetismo che porta a confermare il dato negativo, come dato che conferma l’identità genealogica. Questa è la cosa su cui ciascuno può riflettere e indagare per giungere a qualificare la vita nel suo gerundio. Il gerundio è senza genealogia, è semplice! Il gerundio e il gerundivo sono senza genealogia, senza origine e senza fine. Il gerundio è nell’istante. Differente è trovarsi nella rappresentazione spaziale e cronologica del tempo sotto la minaccia di fine e trovarsi invece nel gerundio, nel gerundio che non finisce, che, dunque, non comporta la rappresentazione di quando finirà, di come finirà.
È chiaro che non è questione di convincersi, questione di volontà, tanto meno di buona volontà. È questione di ritmo, di modo, di idioma, grazie a cui non c’è più “prima” e “dopo”, non c’è più l’idea che prima devo capire cosa, chi veramente sono, i miei limiti, le mie potenzialità, le mie propensioni, le mie inclinazioni, le mie predestinazioni, i miei oroscopi e poi, una volta capito tutto questo, finalmente potrò fare la scelta giusta. Già siamo nella palude dell’alternativa, come se si potesse fare il passo falso, il passo sbagliato, la scelta sbagliata. “Eh, una volta che avrò capito tutto questo, allora potrò stabilire un’ipotesi di avvenire. Perché prima devo sapere per essere sicuro, per essere certo, per non sbagliare!”. Il fatto è che l’avvenire non è mio, né tuo, né suo, non è di qualcuno, non è nei termini della padroneggiabilità. È l’avvenire della pulsione, della scrittura, di ciò che si scrive, di ciò che si qualifica, di ciò che si valorizza. È l’avvenire senza essere, senza l’essere, senza l’ontologia. È dove si pone la questione di divenire intellettuale, divenire cifra, divenire dispositivo di valore, divenire psicanalista in un certo periodo dell’esperienza, divenire cifrante, divenire brainworker, divenire art ambassador, divenire statuto intellettuale, che è statuto di valore nel gerundio. Facendo quel che occorre fare, non aspettando di fare per paura di sbagliare: questa è una paura morale, che viene dalla moralizzazione della pulsione. È l’assunzione di una superstizione che pone l’alternativa tra il bene e il male. Non si tratta di essere buoni, di essere bravi, di essere giusti, di fare la cosa giusta; si tratta di divenire statuto intellettuale e questo esige due aspetti dell’esperienza: la teorematica e l’assiomatica. Che cos’è la teorematica? È ciò che dell’analisi si scrive, l’analisi stessa è un teorema, e come questo teorema si scrive. Come l’analisi si scrive rispetto all’idea di fine, all’idea di sostanza, all’idea di soggettività, ai vari risvolti, alle varie fantasmagorie, è la teorematica, non nei termini di un sapere consolidato, ma nei termini della prova, prova di realtà, prova di verità, e nei termini del gerundio: facendo, scrivendo, parlando, qualificando. Nulla è mai qualificato, ciascuna cosa esige di qualificarsi, nulla è mai già qualificato. La teorematica è inscritta in un processo di scrittura. La teorematica è ciò che dell’analisi si scrive e a sua volta tende a scriversi, si scrive. Questo processo di scrittura è inesauribile, è infinito: nulla è già dato, nulla è già passato, nulla è già analizzato, nulla è già qualificato, nulla è già stato. Questa è l’istanza intellettuale, il modo intellettuale, mentre la teorematica accompagna il processo di qualificazione. Senza tabula rasa, senza il ritorno alla tabula rasa; quel che si scrive non è mai scritto, ma non si cancella. Quello che si acquisisce non è mai acquisito, ma non si cancella. In ciascun caso, ciascuna volta importa il dettaglio. L’idea della tabula rasa, della cancellazione, l’idea che ciò che si è qualificato e si è scritto possa essere cancellato, distrutto, tolto, perso è una variante del fantasma materno che pone l’accento sulla distruzione come possibile, come reale, cioè come transitiva: la distruzione transitiva. Carthago delenda est, diceva Catone. “Ogni cosa può o deve essere distrutta”, questo predica il soggetto materno seguace del fantasma materno, seguace di una distruzione transitiva, ossia senza pulsione. Freud ha coniato il termine “pulsione di distruzione” con cui indicava la tensione a scriversi della frase; la frase è la struttura della resistenza. La pulsione di distruzione non è l’istinto, la volontà, il pericolo di distruggere tutto, di farsi prendere la mano e distruggere tutto, di poter cancellare tutto, la pulsione di distruzione non è la malattia mentale, tutt’altro. La pulsione di distruzione è proprio la dissipazione della malattia mentale, della soggettività, dell’idea di credersi soggetto limitato, mancante, carente. È ciò con cui la pulsione di morte si precisa. La pulsione di morte non è l’idea di morire, non è la volontà di morire. Tutto ciò è nella rappresentazione delle soggettività, è psichiatrico. Pulsione di morte, pulsione di distruzione sono due proprietà della pulsione sul versante frastico, dunque chiama in causa la scrittura: come la frase si scrive, come il significante si scrive, come la ricerca si scrive e non può non scriversi.
La teorematica è un aspetto essenziale dell’itinerario, che procede con le acquisizioni che ne vengono e sta accanto all’assiomatica, che è il frutto della valorizzazione dell’esperienza, senza più denigrazione, senza più degradazione, ma dove conta il gradus, dove conta il valore, dove conta il modo con cui ciascuna cosa approda al valore; non esposta alla possibilità del bene o del male, va in direzione del valore. È chiaro, nessun soggetto può giungere a questo, perché questo esige la fede, la fede pragmatica, lo spirito, la fede nella riuscita, non la paura del bene o del male.
La teorematica partecipa della clinica, della teoria della clinica, e è indispensabile perché la clinica si scriva. Legge, etica, clinica sono tre compimenti per la struttura: struttura sintattica, struttura frastica, struttura pragmatica. La struttura si scrive, essa stessa si scrive: non è, ma si scrive e, scrivendosi, si avvale dell’elaborazione rispetto al fantasma e del dettaglio clinico. Non del caso generale, non del caso standard, del dettaglio clinico! La teoria della clinica è un aspetto dell’esperienza e della formazione che nella nostra esperienza è stata introdotta da Armando Verdiglione sin dall’inizio, ben differenziandosi, ben distinguendosi da quanto in altre esperienze veniva chiamato la supervisione, l’analisi di controllo, il controllo, niente di tutto questo. La teoria della clinica non è un modo di verificare e incanalare la pratica, ma è un modo della formazione, un modo della qualificazione, un modo per intendere l’esigenza della narrazione. Intendere qual è il modo della narrazione clinica non ha nulla a che vedere con la psicopatologia che dovrebbe certificare uno stato d’essere, ma riguarda invece come ciascuna cosa, ciascun dettaglio, narrandosi, si qualifica e si valorizza. Ciascun dettaglio si valorizza non da sé, non da solo, non per virtù divina, ma nel processo intellettuale, nel processo in cui la clinica è giunta a un compimento e è essenziale per la cifratura. La clinica non comporta nessuna sanzione morale, ma indica un modo, indica l’intervento dell’oggetto e del fantasma per cui qualcosa si scrive in quel modo. Nulla di più, nulla di meno, ma non è poco. È dunque con la teorematica che può cogliersi l’esigenza dell’intervento analitico, intervento clinico, intervento cifratico. La cifratica è il gerundio della ricerca, gerundio dell’impresa, gerundio della vita.
Attraverso questo panorama, possiamo cogliere di che cosa si tratti nell’economia e nella finanza. Era da qui che intendevo partire per l’incontro di questa sera ma, data la totale assenza di preparazione da parte vostra, ho dovuto partire da molto più lontano, da lontanissimo. È da qui che dovremmo partire, e invece qui arriviamo, perché, come intendere la questione dell’altrove senza la teorematica, senza la cifratica, senza la struttura temporale, senza cui economia e finanza sono del tutto avulse dalla parola, estranee alla parola? Senza ciò, l’economia e la finanza diventano una sistematica, diventano criteri e modi dell’accumulo, del risparmio, dello spreco. Invece economia e finanza indicano che non c’è spreco nella pulsione.
Verdiglione ha qualificato economia e finanza come l’altrove della parola. L’altrove non è così frequentemente reperibile nella manualistica economica e finanziaria, però è proprio esplorando e elaborando questa formulazione che noi possiamo capire e intendere in che modo l’impresa esiga l’economia e la finanza in questi termini, senza l’esigenza della fobia dell’impresa, della paura dell’impresa, della fobia dell’economia, della fobia della finanza, del tabù della vendita, che trae con sé il tabù dell’economia e il tabù della finanza. Il tabù interviene lì dove vige la spazializzazione, dove vige una superstizione, dove il gerundio è sospeso, dove ci sia chi tenta di poter voltarsi indietro a guardare, a vedere, a misurare, a misurarsi, a pontificare su quello che c’è stato, che è avvenuto o non è avvenuto, misurando i risultati rispetto alla durata, all’idea di fine, all’idea di sé, allo standard, senza la valorizzazione. Il valore non è né grande né piccolo: il valore è assoluto.
Nona conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto