I cigni selvatici
Ci addentriamo oggi in quest’altra fiaba di Hans Cristian Andersen, I cigni selvatici, dove troviamo Elisa.
Lontano da qui, là dove si recano le rondini quando qui abbiamo l’inverno, vi era un re, che aveva undici figli e una figlia, Elisa. Quindi erano dodici. Erano undici figli maschi e una figlia, Elisa.
Gli undici fratelli, che erano principi, andavano a scuola con la stella sul petto e la sciabola al fianco; — erano le insegne principesche, la stella e la sciabola — scrivevano su una lavagna d’oro con una punta di diamante e sapevano recitare tanto bene a memoria quanto senza; si sentiva subito che erano principi. La sorella Elisa stava seduta su un piccolo sgabello fatto di specchi e aveva un libro illustrato che era costato la metà del regno. Oh, questi bambini stavano tanto bene, ma essere sempre così, non doveva!
Il padre, che era il re di tutto il paese, sposò una regina cattiva, che non era affatto buona con i poveri bambini.
Già qui abbiamo l’impostazione di riferimento. Il padre sposò una regina cattiva.
Fin dal primo giorno, se ne resero perfettamente conto.
I bambini, fin dal primo giorno, si resero conto che la regina era cattiva.
Dappertutto al castello si faceva festa — dunque c’è il castello, c’è il padre, la regina, i bambini, dappertutto c’è festa — e i bambini, così, giocavano ad avere ospiti; — nel castello i bambini giocavano — ma, invece di dare loro tutti i dolci e tutte le mele al forno che potevano mangiare, la regina diede loro solamente un po’ di sabbia in una tazza da tè, dicendo che potevano fare finta che fosse altra cosa. La settimana dopo — questo, i primi giorni, in cui è arrivata la regina — mandò la sorellina Elisa in campagna da alcuni contadini e non passò molto tempo che fece credere al re — la regina — tante di quelle cose sui poveri principi, che egli non si interessò più a loro.
Questa è l’ambientazione, è l’ambiente in cui incomincia la fiaba. È importantissimo. Questa ambientazione è essenziale per lo svolgimento della fiaba. Se così non fosse, non ci sarebbe questa fiaba. Allora, questi principi, che sono qui in questo ambiente, non possono essere gli stessi di un’altra fiaba dove c’è un altro ambiente; non sono gli stessi principi, non possono esserlo, perché questi principi sono così qui e non sono gli stessi di un’altra fiaba, di un’altra storia, perché non è lo stesso ambiente, non è lo stesso ambito, non ci sono le stesse caratteristiche che ci sono qui; sono queste caratteristiche, presunte, a dare corso alla fiaba. È importante questo, perché qui c’è il padre, c’è la regina, ci sono i bambini, ci sono i fratelli, c’è la sorellina, c’è il castello, ma non c’è la madre. In questo apparato fantastico non c’è la madre, ma c’è la regina cattiva, dunque c’è l’altra madre, la regina cattiva.
Che cosa accade in un apparato dove non c’è la madre? Sentiamo. Accade che la regina cattiva dice cose per cui il re non si interessa più ai figli.
“Volatevene via, per il mondo e cavatevela da soli! — disse la cattiva regina — Volate via come grandi uccelli senza voce!”.
Senza voce! Questo è un dettaglio non secondario. Poi vediamo che quest’aspetto della voce ritorna nel corso della fiaba. Senza voce! Come accade che qualcuno debba o possa perdere la voce? In seguito a che cosa qualcuno può perdere la voce? Eppure accade. Improvvisamente, tizio si sveglia al mattino e non ha più la voce. Capita spesso. Dice: “Mah, ho preso un colpo d’aria, non ho più voce. Sarà stato un colpo d’aria”. Qui, propone un’altra possibilità, non dovuta al colpo d’aria ma al colpo di mamma.
“Volatevene via per il mondo e cavatevela da soli! Via, come grandi uccelli senza voce!”, disse la cattiva regina, ma non riuscì a fare tanto male quanto avrebbe desiderato.
Quindi la regina desidera il male, vuole il male per i principi, per i fratelli.
I principi diventarono undici splendidi cigni selvatici.
C’è una maledizione, che comporta il “senza voce”, la maledizione con cui, improvvisamente, i fratelli diventano animali.
I principi diventarono undici splendidi cigni selvatici. Con uno strano grido volarono via dalle finestre del castello sorvolando il parco e il bosco.
Così accade durante la notte. Perché…
Era ancora mattina molto presto quando passarono vicino alla casa dove la sorella Elisa stava dormendo nel salotto del contadino.
Dunque Elisa è cacciata già dal castello, dorme nel salotto del contadino e, quando si sveglia, si trova in questa situazione: che i fratelli non ci sono più e sono diventati uccelli senza voce.
Si librarono sopra il tetto, girando il lungo collo e battendo le ali, ma nessuno li sentì né li vide; dovevano continuare, in alto verso le nuvole, lontano nel vasto mondo, volarono in mezzo ad un grande bosco scuro che si estendeva fino alla spiaggia. La povera piccola Elisa stava nella casa del contadino a giocare con una foglia verde, non aveva altri giocattoli; e fece un buco nella foglia, attraverso il buco, guardò in alto verso il sole e le sembrò allora di vedere — che cosa? — gli occhi limpidi dei suoi fratelli e ogni volta che i raggi del sole brillavano sulla sua guancia, pensava a tutti i loro baci.
Quindi la fiaba si apre con una descrizione che sembra paradisiaca: ci sono i principi che vanno a scuola, la sciabola, la stella, la punta di diamante, la lavagna d’oro. Bravissimi! Dicono a memoria la recitazione, il re nel castello, la sorella aveva lo sgabello, il libro. Magnifico! Quasi un paradiso. Ma non può essere un paradiso senza la madre. Cosa diventa il paradiso tolta la madre?
I giorni passavano, uno identico all’altro. Quando il vento soffiava tra le grandi siepi di rose intorno alla casa allora sussurrava alle rose: “Chi può essere più bello di voi?”, ma le rose scossero la testa dicendo: “Elisa”. E quando la vecchia signora la domenica stava seduta sulla porta a leggere il libro dei salmi allora il vento voltava le pagine e diceva al libro: “Chi può essere più devoto di te?”. “Elisa!”, disse il libro dei salmi e quello che dissero le rose e il libro dei salmi era la pura verità.
Pura verità. Dunque c’è una verità pura e, se ce n’è una pura, potrebbe essercene anche una impura?
Quando ebbe quindici anni — nella mitologia nordica, quindici anni è una data importante — Elisa dovette tornare a casa.
Era stata mandata lì a crescere, però a quindici anni deve tornare a casa.
E quando la regina vide quanto era bella, provò per lei rabbia e odio; l’avrebbe trasformata volentieri in un cigno selvatico — aveva il pallino, questa regina, di trasformare in cigno — come i fratelli, ma non osò farlo in un primo momento, perché il re desiderava vedere la figlia.
Il re desidera vedere la figlia. Forse che il re ama la figlia? Non sappiamo, però desiderava vederla.
La mattina presto la regina andò nella stanza da bagno, che era costruita in marmo e ornata di morbidi cuscini e di tappezzerie meravigliose, e prese tre rospi, li baciò e disse ad uno di loro: “mettiti sulla testa di Elisa quando si farà il bagno in modo che lei diventi indolente come te! Mettiti sulla sua fronte, — disse all’altro — in modo che possa diventare brutta come te, così ché suo padre non la riconosca! Riposati vicino al suo cuore, — sussurrò al terzo — fa sì che abbia un’anima così cattiva da farla soffrire!”.
Qui interviene un altro animale fantastico: il rospo, che può anche fare diventare negativo quel che è positivo. A questo serve l’animale anfibologico, a trasformare in negativo quel che è positivo, a circolarizzare le cose.
Poi mise i tre rospi nell’acqua limpida, la quale prese subito un colore verdastro — l’acqua è limpida, ma ci mette il rospo. E, subito, viene contaminata, diventa subito uno schifo — chiamò Elisa, la spogliò e la fece scendere nell’acqua e mentre lei si immergeva, uno dei rospi si mise nei suoi capelli, l’altro sulla sua fronte e il terzo sul petto, ma Elisa non sembrò accorgersene per niente; appena si alzò, tre papaveri rossi galleggiarono nell’acqua; se gli animali non fossero stati velenosi e baciati dalla strega, si sarebbero trasformati in rose rosse, tuttavia si tramutarono in fiori, stando così sulla sua testa e vicino al suo cuore; Elisa era troppo devota e innocente perché la magia potesse avere effetto su di lei.
Quindi, non su chiunque può avere effetto la magia. Questo la dice lunga sui fratelli, che invece vengono trasformati in cigni. I fratelli sì, Elisa no. Come mai? Forse, questi fratelli non erano così devoti, così innocenti. Su di loro la magia ha effetto. Su Elisa no. Prendiamo nota di questo dettaglio e lo appuntiamo. Vediamo poi come intenderlo.
Quando la regina cattiva vide questo, la spalmò di succo di noce in modo che diventasse completamente di colore marrone scuro, le strofinò il bel viso con una pomata puzzolente e fece sì che le si scompigliassero i capelli; non era possibile riconoscere la bella Elisa. — Quindi non c’è più riconoscimento — Quando dunque suo padre la vide, si spaventò profondamente e disse che quella non era sua figlia.
E cominciano i guai, i veri guai cominciano adesso: il padre non riconosce la figlia. Non c’è riconoscimento da parte del padre, il quale si spaventa pure, la vede e si spaventa.
In generale, nessuno poté riconoscerla, tranne il cane da guardia — il cane la riconosce. Dicevamo qualcosa sugli animali fantastici e sugli animali domestici, qualche lezione fa, e sulla funzione dell’animale domestico, in particolare del cane. Il cane la riconosce, fa, per così dire, la funzione del padre, fa le veci di padre questo cane, che la riconosce — e le rondini, ma quelli erano animali poveri e non avevano voce in capitolo.
Anche loro senza voce. Allora, a questo punto della storia, a questo punto della scena, la povera Elisa, è diventata povera anche lei.
Allora la povera Elisa pianse pensando ai suoi undici fratelli che erano tutti via.
È povera a questo punto: non ha più i fratelli, non ha più il padre, la madre non l’ha mai avuta. È proprio il soggetto della povertà.
Addolorata, uscì piano piano dal castello, camminò per l’intera giornata attraverso campi e pantani per poi entrare nel bosco.
Tolta la madre, tolto il padre, tolto il figlio, non c’è più nessun orientamento. Vaga, per entrare nel bosco.
Non sapeva dove era diretta…
Non c’è più nessuna direzione, nessun dispositivo, nessun contesto. Vaga e entra nel bosco; nel bosco, cioè proprio nell’assenza totale di direzione, di orientamento, di indicazione, di dispositivo.
Non sapeva dove era diretta, ma provò tanto dolore e tanta nostalgia dei fratelli, anche loro probabilmente, erano stati cacciati via dal castello come lei, ella avrebbe cercato di ritrovarli.
Ecco la fantasia della cacciata, la cacciata dal paradiso. Come avviene la cacciata dal paradiso? Per quale combinazione di cose? Qui, è indicato con una certa chiarezza. Elisa esce dal castello, non viene cacciata, ma pensa che anche i fratelli siano stati probabilmente cacciati, anche loro come lei, ma lei esce dal castello perché è addolorata. È un altro dettaglio su cui appuntare l’attenzione e poi verificheremo anche questo.
Era stata poco nel bosco quando venne la notte; aveva smarrito completamente la strada e il sentiero.
Era nello smarrimento totale, senza padre, senza madre, senza fratelli, senza casa, senza direzione. Nel bosco, senza strada e senza sentiero.
Allora si sdraiò sul morbido muschio, recitò la sua preghiera della sera e appoggiò la testa contro un ceppo. Tutto era così tranquillo, l’aria era tanto mite, e qua e là sull’erba e sul muschio, brillavano più di cento lucciole come un fuoco verde; quando con la mano toccò uno dei rami, gli insetti lucenti caddero giù su di lei come stelle cadenti.
Tutta la notte sognò i fratelli; giocavano di nuovo, come bambini, scrivendo con la punta di diamante sulla lavagna d’oro e leggendo il bel libro illustrato che era costato mezzo regno; ma sulla lavagna non scrivevano più, come un tempo, soltanto cerchi e aste, no, scrivevano le imprese più temerarie da loro compiute, tutto quello che avevano visto e vissuto; e nel libro illustrato tutto era animato, gli uccelli cantavano e gli uomini uscivano dal libro parlando ad Elisa e ai suoi fratelli, ma quando lei girava pagina, saltavano di nuovo dentro per non creare disordine nelle immagini.
Quando si svegliò, il sole era già molto alto; in realtà non lo poteva vedere, i grandi alberi spiegavano i loro rami in una rete densa e fitta, nella quale i raggi giocavano come un velo d’oro portato dal vento.
[…] Sentiva lo scroscio dell’acqua che sguazzava, in quanto vi erano molte sorgenti che confluivano tutte in un laghetto che aveva il fondo di sabbia più splendido.
E, dunque, guidata dai rumori del bosco, arriva al lago, dalle acque limpidissime. Lì, entra nell’acqua e, appena entra nell’acqua, si specchia.
[…] Appena vide il proprio viso si spaventò terribilmente, tanto era marrone e brutto, ma quando bagnò la sua manina e si strofinò gli occhi e la fronte, la pelle bianca trasparì di nuovo, allora si tolse tutti i vestiti per andare nell’acqua fresca; una figlia di re più bella di lei non esisteva in questo mondo.
Qui è curiosa una certa adiacenza con un altro mito, se vi ricordate, di cui abbiamo parlato qualche volta, il mito di Ajasé.
Questo mito giapponese, detto anche il mito del perdono, racconta che la regina, avendo saputo da un vecchio indovino che il figlio che sarebbe nato avrebbe causato la sua vecchiaia e la sua bruttezza, dato che lei era molto bella, quindi l’avrebbe deturpata, decide di ucciderlo, però, quando nasce, non lo uccide. Ajasé non viene ucciso. Quando viene a sapere che la madre voleva ucciderlo, si ricopre di piaghe, di croste e puzza, puzza moltissimo, emana un odore intollerabile, per cui nessuno riesce a stragli vicino e rischia di morire. La madre va a curarlo, solamente la madre affronta quella vista schifosa, quell’odore nauseabondo e lo cura. Allora Ajasé perdona la madre, la madre perdona Ajasé e Ajasé guarisce. È curiosa l’adiacenza tra questa fiaba danese e questo mito giapponese, dove la questione madre si pone in un certo modo.
Quando fu di nuovo vestita e aveva intrecciato i suoi lunghi capelli, andò fino alla sorgente che zampillava, bevve dalla propria mano e continuò a entrare nel bosco senza sapere dove stesse andando. — Quindi continua a vagare senza orientamento con tanti pensieri — Pensava ai suoi fratelli, pensava al buon Dio che probabilmente non la voleva abbandonare; …
Il buon Dio, contrariamente a altri. Anche qui abbiamo un’anfibologia del padre, il padre buono e il padre malvagio; il padre malvagio che non la riconosce, che l’abbandona, e un padre buono che probabilmente non la voleva abbandonare, anzi, cosa fa?
…lui fece crescere le mele selvatiche del bosco per dare da mangiare agli affamati; lui le fece vedere un tale albero, i cui rami si piegavano sotto il peso dei frutti. Elisa fece la sua cena, mise dei sostegni sotto i rami e penetrò poi nella parte più buia del bosco. Tutto era così tranquillo che sentiva i propri passi, sentiva ogni piccola foglia appassita che si accartocciava sotto ai suoi piedi; non si vedeva un solo uccello, nemmeno un solo raggio di sole poteva penetrare attraverso quella fitta rete dei rami; gli alti tronchi si trovavano così vicini l’uno all’altro che quando lei guardava in avanti, le sembrava essere accerchiata da una grata di travi dopo l’altra; oh, qui vi era una solitudine che non aveva mai conosciuto. In questo bosco cupo, oscuro, con i tronchi vicinissimi, i rami intricatissimi, in cui c’era un accerchiamento, Elisa non ha paura. Non ha paura.
La notte diventò tanto buia; non una sola lucciola brillava dal muschio. Addolorata, si sdraiò per dormire; le sembrò allora che i rami degli alberi sopra di lei si scansassero e che il Signore la guardasse con occhi miti…
Quindi c’è qualcuno che la guarda, che veglia su di lei.
…e gli angioletti facessero capolino sopra la testa e sotto le braccia del Signore. Quando si svegliò la mattina non sapeva se l’aveva sognato o se era veramente così.
Nel bosco, tuttavia, permane l’idea del padre. Il padre non è abolito completamente. C’è una certa idea del padre.
Fece qualche passo in avanti e incontrò allora una vecchia che aveva un cesto pieno di bacche, la vecchia gliene offrì alcune. Elisa le chiese se aveva visto attraversare il bosco a cavallo undici principi.
“No, — disse la vecchia, — ma vidi ieri undici cigni con corone d’oro in testa che nuotavano giù per il ruscello qui vicino!”.
E condusse Elisa più in avanti fino ad un pendio ai piedi del quale serpeggiava un ruscello…
E Elisa s’incammina per il ruscello alla ricerca dei fratelli e arriva al mare, nel grande mare aperto.
Dunque, dal bosco al mare. Esce dal bosco. Con questi incontri, con queste idee, esce dal bosco; per un ruscello arriva al mare. Mare bellissimo. Non c’è più la bruttura, non c’è più la puzza, ma il mare.
[…] Contemplava gli innumerevoli ciottoli sulla sponda; l’acqua li aveva tutti levigati. Il vetro, il ferro, i sassi, tutto quello che era stato portato a riva era stato modellato dall’acqua, aveva preso forma dall’acqua che però era più morbida delle sue mani delicate. “L’acqua continua instancabilmente a lavorare e così le cose dure finiscono con lo smussarsi, io sarò altrettanto instancabile! Grazie per il vostro insegnamento, voi, limpide onde che sempre siete in movimento; un giorno, me lo dice il cuore, mi porterete dai miei cari fratelli!”.
Elisa è lì, di fronte al mare di cui osserva le variazioni, i cambiamenti e, a un certo punto, il sole comincia a tramontare e, allora, cosa vede?
[…] Vide undici cigni selvatici con corone d’oro sulla testa, essi si dirigevano verso la costa, volando uno dietro all’altro; sembravano un lungo nastro bianco.
È il tramonto, il sole scende, e anche i cigni scendono. Elisa osserva dove scendono e si avvicina al punto in cui atterrano.
[…] Nel momento in cui il sole sparì sotto l’acqua, cadde all’improvviso il manto di piume ed ecco gli undici meravigliosi principi, i fratelli di Elisa.
Al tramonto, nel momento in cui il sole va sotto la linea dell’orizzonte, al crepuscolo, i cigni ritornano principi.
Lei lanciò un urlo; perché sapeva che erano loro — sapeva che erano loro. Lei non li riconosce, sapeva che erano loro — sebbene fossero molto cambiati — quindi non sono gli stessi che ha lasciato al castello, sono molto cambiati — sentiva che dovevano essere loro; e saltò nelle loro braccia, li chiamò per nome e loro furono così felici quando videro e riconobbero la loro sorellina, che ora era tanto grande e bella. Risero e piansero e ben presto capirono quanto era stata cattiva con tutti loro la matrigna.
C’è la matrigna allora. Ah, ma allora la madre c’è! Però è matrigna! Quanto era stata cattiva con tutti loro la matrigna.
“Noi fratelli — disse il maggiore — voliamo come cigni selvatici fino a quando il sole è nel cielo; quando tramonta riprendiamo la nostra parvenza umana”.
Dunque ci sono due momenti: il giorno e la notte. Durante il giorno, quando il sole è nel cielo, “voliamo come cigni selvatici; quando tramonta riprendiamo la nostra apparenza umana”. C’è il momento del tramonto in cui qualcosa avviene.
“Ecco perché al tramonto” — al tramonto, né prima e né dopo, esattamente lì — “dobbiamo sempre stare attenti ad avere un appoggio per i piedi,” — al tramonto devono avere i piedi poggiati per terra — “perché se in quel momento voliamo su tra le nuvole, cadiamo inevitabilmente giù nell’abisso…” — su, giù, da su a giù. O su o giù. Che cosa accade se sopra o sotto sono posti davanti? Che si può cadere da su a giù. Diventa una possibilità, la possibilità, da su, di cadere giù, l’alternativa esclusiva. —
“…essendo di nuovo uomini. Noi non viviamo qui; vi è un paese altrettanto bello al di là del mare”.
C’è un altrove dove noi viviamo. Non viviamo qui, dove c’è la possibilità dell’abisso. No. Altrove.
“Ma la strada per andarci è lunga, dobbiamo attraversare il vasto mare e non c’è nessuna isola lungo il percorso per passare la notte”.
Una strada lunga, difficile, con una questione di vita o di morte. Non c’è nessuna isola dove passare la notte e, la notte, c’è il pericolo di cadere giù.
“Soltanto un piccolo scoglio solitario che spunta al largo; è grande quel tanto da permetterci di riposare uno accanto all’altro; se il mare è mosso, l’acqua schizza in alto sopra di noi; però ringraziamo il Signore per avercela data. Lì passiamo la notte avendo la nostra forma umana, senza lo scoglio non potremmo mai rivedere la nostra patria, poiché utilizziamo i due giorni più lunghi dell’anno per la nostra fuga”.
Quindi ci sono alcune condizioni. La strada è lunga, però c’è lo scoglio e, nei due giorni più lunghi dell’anno, quando il giorno è lungo e la notte è breve, allora riescono a arrivare allo scoglio per passare lì la notte.
“Soltanto una volta all’anno ci è permesso di visitare la nostra casa paterna, possiamo rimanerci undici giorni, sorvolando questo grande bosco da dove possiamo scorgere il castello in cui siamo nati e dove abita nostro padre, il grande campanile della chiesa dov’è seppellita nostra madre”.
Dunque, la madre è morta. Ecco, tolta la madre, tutta una serie di traversie.
“Qui gli alberi e i cespugli sembrano appartenere alla nostra stirpe, qui i cavalli selvaggi corrono nelle pianure come li abbiamo visti nella nostra infanzia; qui il carbonaio canta i vecchi canti che accompagnavano le nostre danze da bambini, qui è la nostra patria, verso la quale ci sentiamo attratti e qui abbiamo ritrovato te, cara sorellina! Possiamo rimanere qui ancora due giorni, poi dobbiamo sorvolare il mare per raggiungere un paese meraviglioso ma che non è la nostra patria! Come facciamo a portarti con noi? Non abbiamo né una nave, né una barca!”.
Quindi c’è un altro paese, meraviglioso, lontano dalla casa del padre, lontano da dove sono nati, lontano da dove è seppellita la madre.
“Come posso salvarvi?” — disse la sorella. — E parlarono fra loro quasi tutta la notte, sonnecchiando soltanto poche ore.
Elisa fu svegliata dal rumore delle ali dei cigni che sibilavano sopra di lei. I fratelli si erano di nuovo trasformati e volavano in grandi cerchi e alla fine si allontanarono, ma uno di loro, il più giovane, rimase indietro; e il cigno posò la sua testa sul grembo di Elisa e lei accarezzò le sue bianche ali; passarono tutta la giornata insieme. Verso sera ritornarono gli altri e quando il sole fu tramontato stettero lì nella loro forma naturale.
Si pone la questione del modo in cui andare con i fratelli, in cui attraversare il mare. Allora intrecciano una rete con dei rami e, posta Elisa sulla rete, cominciano a volare, verso il paese meraviglioso. Volano tutta la giornata, a tutta velocità, come una freccia; però sta arrivando il tramonto e non si vede lo scoglio, perché il volo, nonostante tutto, era lento, dato che c’era questo peso da portare, questa sorella da trasportare.
[…] Elisa, angosciata, vide il sole tramontare e ancora non si scorgeva lo scoglio solitario in mezzo al mare; le sembrava che i cigni battessero le ali con più forza. Ahimè, era lei la causa del loro volo troppo lento; una volta tramontato il sole, sarebbero diventati esseri umani, sarebbero caduti nel mare e annegati. Disse allora una preghiera al Signore dal più profondo del suo cuore, ma non vedeva ancora nessuno scoglio.
La fine sembra vicina e, per di più, s’avvicina anche la burrasca, una nuvola nera che si avvicina sempre di più. È proprio la fine.
[…] I forti colpi di vento annunciarono una tempesta; le nuvole formarono un’onda continua e minacciosa, che avanzò, densa come il piombo; i lampi si susseguirono. — Proprio è la fine — Ora il sole era proprio sul bordo del mare.
Cioè siamo proprio all’ultimo minuto, direbbe qualcuno, all’ultimo momento.
Il cuore di Elisa palpitava…
E ancora non si vede lo scoglio. Cosa fanno i cigni? Smettono di volare? Smettono di battere le ali? No. Continuano, continuano a volare.
…ed ecco che i cigni scesero con tanta rapidità che credette di cadere; ma ora planarono. Il sole era per metà dentro l’acqua…
Si annuncia un bagno? Ma no!
…soltanto allora Elisa scorse il piccolo scoglio sotto di lei, sembrava non più grande di una foca che mette la testa fuori dall’acqua.
Perciò c’è anche la foca, un altro animale fantastico che si aggiunge.
Il sole tramontò molto rapidamente; ora era grande soltanto come una stella; ed ecco che il suo piede toccò la terraferma, il sole si spense come l’ultima scintilla della carta bruciata dalle fiamme; vide i fratelli tenersi per il braccio tutti intorno a lei; ma più spazio di quello necessario per loro e per lei non c’era davvero.
Proprio al momento opportuno, al momento che occorreva, proprio lì, lo scoglio c’è. Sembra una versione della manna, questo scoglio. Proprio nel momento in cui serve lo scoglio, lo scoglio c’è. Certo, se avessero smesso di battere le ali cominciando a lamentarsi, a fasciarsi la testa, a dire: “Oh, non c’è lo scoglio!”, non ci sarebbero arrivati e, invece, arrivano.
Trascorrono la notte sullo scoglio e al mattino ripartono, riprendono il viaggio e, dopo un po’, arrivano a un paese dove c’è un castello e Elisa chiede se quello è il posto in cui doveva andare. No, dicono i fratelli, non è il posto giusto. Qui vive la Fata Morgana, in un paese in continua trasformazione. Infatti il castello che prima era di ghiaccio, poi diventa una serie di chiese, ora diventa mare e lì nessun essere umano poteva andare e, a un certo punto, attraversando questo paese della Fata Morgana…
[…] il fratello più giovane, mostrandole la sua stanza da letto, disse: “Vediamo quali saranno i tuoi sogni questa notte!”. “Magari potessi sognare il modo di potervi salvare!”, disse; e questo pensiero la prese totalmente; pregò con tutta la sua anima il Signore di aiutarla…
E lì, allora, mentre sogna, le sembrò di volare nel castello della Fata Morgana che assomigliava stranamente alla vecchietta incontrata nel bosco, anche se adesso la Fata Morgana era bellissima, però aveva qualcosa della vecchietta. Le dice:
[…] “I tuoi fratelli possono essere salvati! — disse — ma tu hai coraggio e perseveranza? È vero che il mare è più morbido delle tue mani e nonostante ciò modifica i sassi duri, ma non sente il dolore che le tue dita sentirebbero; non ha un cuore, non vive quell’angoscia e quel tormento che tu devi patire”.
I patimenti vengono spesso dal cuore. Ci sono tanti patimenti che vengono dal cuore, così dice la Fata Morgana. Quindi, sono patimenti fantastici.
“Vedi quest’ortica che ho in mano! Ve ne sono molte intorno alla grotta dove tu dormi; solo quelle e quelle che crescono sulle tombe del cimitero, sono buone”. — C’è ortica e ortica. Ci sono quelle che crescono davanti alla grotta e quelle davanti alle tombe — “Quelle dovrai raccogliere, anche se ti bruceranno la pelle tanto da farti venire le bolle; calpesta le ortiche con i piedi, così otterrai il lino; dovrai attorcigliarlo per ricavare undici maglie corazzate a maniche lunghe, dovrai gettarle sugli undici cigni selvatici e l’incantesimo sarà rotto”.
Allora, come salvare i fratelli? Filando un lino speciale ricavato dalle ortiche. Ma quali ortiche? Alcune particolari piante che crescono davanti alle spelonche e sopra le tombe.
“Ma ricordati bene che, dal momento in cui inizierai questo lavoro e fino a quando non sarà compiuto, anche se dovessero passare degli anni, non dovrai parlare”.
Ecco che ritorna la questione. “Non dovrai parlare”.
“La prima parola che pronunci trapasserà come un pugnale mortale il cuore dei tuoi fratelli; la loro vita dipende dalla tua lingua. Ricordati bene tutto questo!”.
E nello stesso istante toccò la mano di Elisa con l’ortica; fu come un fuoco rovente ed Elisa si svegliò. Era pieno giorno e vicino a dove aveva dormito, c’era un’ortica uguale a quella che aveva visto nel sogno.
Elisa s’inginocchia e ringrazia il Signore, comincia a iniziare il lavoro e raccoglie queste ortiche.
[…] Con le mani delicate acchiappò le orribili ortiche, erano come fuoco; le vennero grandi bolle sulle mani e sulle braccia, ma lei soffriva volentieri se questo serviva a salvare i cari fratelli. Calpestò ogni ortica con i piedi nudi e attorcigliò il verde lino.
Quando il sole tramontò, arrivarono i fratelli… — che la vedono così e dicono: “Ma cosa combini?” — […] e pensarono — cosa pensarono i fratelli vedendola in quello stato? — che fosse un nuovo incantesimo della matrigna cattiva.
I fratelli pensano sempre alla matrigna. Non hanno altro pensiero che la matrigna. E la matrigna, dato che è matrigna, può solo dare incantesimi negativi.
Ma, quando videro le sue mani capirono che invece stava lavorando per loro e il fratello più giovane pianse e nei punti in cui caddero le sue lacrime lei non sentì dolore e sparirono le bolle brucianti.
Elisa passò la notte ad eseguire il suo lavoro, perché non poteva trovare pace prima di aver salvato i cari fratelli.
È chiaro che a questo punto c’è una missione da compiere e non c’è pace prima di avere compiuto la missione.
[…] Mai il tempo era volato via tanto velocemente. Una maglia era già pronta. Adesso iniziava la seconda.
Ne deve fare undici. Mentre è lì che lavora nella grotta, a un certo punto cosa accade? Sente un trambusto, rumori, suoni di corno, abbaiare di cani; arriva un cane, ne arriva un altro, un altro ancora, tutta una muta di cani e, dietro ai cani, chi c’è? Chi c’è dietro ai cani? Un re. Dietro ai cani, chiaramente sta un re. Non può essere altrimenti. È un re bellissimo, il quale vede Elisa che lavora e le dice: Cosa fai qua nella spelonca? Vieni a casa mia. Come ti chiami, chi sei? Elisa, zitta, non dice niente. E allora, dato che lei non dice niente, lui la prende e se la porta a casa.
[…] “Desidero soltanto fare la tua felicità! Un giorno mi ringrazierai!”, e poi corse via tra le montagne…
Elisa arriva alla reggia del re, e viene vestita di abiti bellissimi, perle nei capelli, guanti delicati sulle dita bruciate.
[…] Quando si presentò in tutta la sua magnificenza, la sua bellezza fu così abbagliante che la corte s’inchinò ancora più profondamente dinanzi a lei e il re la proclamò sua sposa: nonostante l’arcivescovo scuotesse la testa, mormorando che la bella fanciulla del bosco era probabilmente una strega che accecava i loro occhi e incantava il cuore del re.
Quindi c’è il re, ma accanto al re c’è l’arcivescovo. Il re dice sì, l’arcivescovo dice no. Sembra proprio una maledizione.
Ma il re non ascoltò tutto questo, fece suonare della musica, fece portare i piatti più prelibati e fece danzare attorno a lei le più belle ragazze ed Elisa fu accompagnata attraverso giardini profumati in sale sontuose; ma sulle sue labbra non passò un sorriso e nei suoi occhi vi era il dolore come se fosse stato ricevuto in eredità per sempre.
Ci sono le ragazze bellissime, ma Elisa è la più bella, la più bella di tutte.
Il re aprì una piccola stanza vicino a quella in cui Elisa doveva dormire…
Fa in modo che questa stanza sia attrezzata come la grotta dove l’ha trovata, affinché possa pensare di trovarsi a casa sua, in quanto il re pensa che la grotta fosse la casa naturale di Elisa. C’è sempre un’idea della natura, di come dev’essere la natura, la dimora naturale, il modo naturale, l’ambiente naturale.
[…] “Qui puoi sognare di essere nella tua casa di prima! — disse il re — qui c’è il lavoro che tanto ti occupava allora; adesso tra tutta questa magnificenza, ti divertirai a ripensare a quei tempi”.
Appena Elisa vide quello che le stava tanto a cuore, un sorriso le passò sulle labbra e il sangue rianimò le sue guance; pensò alla salvezza dei suoi fratelli e baciò la mano del re che se la strinse al cuore e fece annunciare da tutte le campane la festa delle nozze. La bella fanciulla muta del bosco era la regina del paese.
Dunque va tutto bene! Il re è felice, contento. Elisa ha ricevuto il materiale, è nella reggia, destinata a sposarsi. Tutto bene! Ma, quando lì va tutto bene, ecco che allora entra in scena l’arcivescovo. Cosa fa l’arcivescovo?
[…] mormorò parole malvagie all’orecchio del re…
Dato che il re dice cose buone, l’arcivescovo dice quelle malvagie.
…ma queste non scesero fino al cuore, le nozze andavano celebrate.
Qui c’è un re che non si lascia incantare, non si lascia menare il cane per la reggia. Ha deciso di sposarla. Il matrimonio dev’esserci. Non è un reuccio. È un re, con tutti i dispositivi al posto giusto, un re col proprio castello, come si deve.
L’arcivescovo in persona dovette mettere la corona in testa e forzò di proposito lo stretto anello sulla fronte per farle male; ma c’era un anello ben più pesante intorno al cuore della ragazza, il dolore per i suoi fratelli. Elisa non sentì il dolore fisico.
Non c’è il dolore fisico. C’è il dolore, oppure la coscienza del dolore, e non sono la stessa cosa. Un conto è il dolore e un conto è la coscienza del dolore, ciò che comporta l’eredità, l’idea di un’eredità ricevuta. Elisa non sentì il dolore fisico. È interessante! C’è un altro dolore, quindi, che importa.
La sua bocca era muta, una sola parola infatti avrebbe tolto la vita ai suoi fratelli, ma nei suoi occhi c’era un profondo amore per il re tanto buono e bello, e che faceva tutto per farle piacere.
Non come quell’altro che invece non la riconobbe, che si era lasciato fuorviare dalla matrigna, dalla regina cattiva.
Con tutto il suo cuore divenne, giorno per giorno, sempre più affezionata a lui; — ecco, ha un cuore affetto da lui — oh, se soltanto si fosse potuta confidare con lui, dirgli la sua sofferenza! Ma doveva rimanere muta e, muta, doveva compiere il suo lavoro.
Ci sono delle particolari regole. Lei ha una missione e ha da compiere la missione. Ecco perché di notte si alzava di nascosto per andare nella sua stanzina, ornata come la grotta, a lavorare ai ferri una maglia dopo l’altra.
[…] ma quando iniziò la settima, non aveva più lino.
Alla settima maglia, finisce il lino un’altra volta. Allora cosa fa? Deve uscire dal castello, in cerca di lino. Non è che può spiegare che ha bisogno del lino, eccetera eccetera. No. Ritiene che non può dire, non può parlare. Perché? Perché il re non capirebbe, e perciò deve uscire dal castello, di notte. E dove va? Nella grotta non può andare, perché è lontana. C’è un unico posto vicino al castello. Ci sono due tipi di ortiche, quelle delle grotte e quelle delle tombe, e alla chetichella arriva al cimitero.
[…] Là vide su una delle più larghe pietre tombali un gruppo di lamie, delle orribili streghe, che si toglievano i vestiti, come per fare il bagno e poi scavavano con le loro lunghe dita magre nelle tombe recenti, tirando fuori i cadaveri e divorandone la carne.
Questo accade nelle lunghe notti danesi, nel nord, all’ombra dei cimiteri.
Elisa dovette passare vicino a loro ed esse fissarono il loro sguardo cattivo su di lei, — il malocchio — ma lei recitò la sua preghiera, — lei non si lascia distogliere dal malocchio. In questo caso ha la sua missione — raccolse le ortiche brucianti e le portò al castello.
Però, questo andare al cimitero non era passato inosservato, perché, mentre il re dormiva, l’arcivescovo vegliava. Che anfibologia sarebbe altrimenti se dormissero tutti e due? No. Se uno dorme, l’altro veglia. L’arcivescovo la vede. E cosa fa? Va dal re e dice che la regina non è una regina è una strega. Ma lei l’ha già letta, allora? Ha capito! Bravissima. È una strega, però il re abbiamo detto che è un re, proprio un re. Dice: “Sono palle, non ci credo”. Però, questo, continuava a dirgli: “Guarda che è una strega”, “Ma no che non è vero”, “Ma sì che è una strega”.
Il dubbio a un certo punto s’insinua e lui diventa un po’ cupo. Il re s’incupisce, perché “lavorato” da questa possibilità che la regina sia una strega. Intanto, le cose vanno avanti. Elisa continua a tessere, lavora alle maglie. Manca una sola maglia! Manca l’ultima maglia e finisce il lino, deve tornare al cimitero per raccogliere ancora ortiche. Però, questa volta, l’arcivescovo cosa fa? Lui che sempre veglia mentre il re dorme, va a chiamare il re e dice: “Vieni, vieni a vedere dove se ne va la strega”. Il re segue l’arcivescovo che segue Elisa e la vedono entrare nel cimitero, e lì vedono le streghe. A quel punto, il re dice: “Ah, non voglio vederla”. Chiude gli occhi per non vedere Elisa fra le streghe, pensando che lei sarebbe stata lì.
Quindi non vede che Elisa va a raccogliere le ortiche per fare altre cose, e è convinto che sia una strega. A quel punto, anche il re è convinto e dice: qui, bisogna prendere provvedimenti.
[…] “La deve giudicare il popolo!”. […] va arsa sulle rosse fiamme.
Il popolo è sempre per il rogo, chiaro! Altrimenti che popolo sarebbe? Viene messa in prigione. Anche in prigione, però, le tirano dietro le undici maglie e le ortiche, perché possa sdraiarcisi sopra. Elisa continua a tessere, anche in prigione, giorno e notte. Ma il giorno della sentenza non è che fosse chissà quando, era poco dopo. E arriva il giorno dell’esecuzione.
Non era ancora l’alba, il sole sarebbe sorto in un’ora e lei non ha ancora terminato, e i fratelli non ci sono. Ma arrivano i fratelli, perché volando avevano visto che Elisa era lì, avevano notato che c’era trambusto. Arrivano di notte, cioè sul fare del giorno, quando ancora non era sorto il sole. Bussano:
– “Dobbiamo vedere il re!”. – “Impossibile!”. – “Perché?”. – “Dorme, non si può svegliare, il re sta dormendo”. – “Ma no, guardi che è una cosa proprio urgentissima, questione di vita o di morte”. – “Ma no, qua…”. Arriva l’ufficiale delle guardie, il capo, il comandante. A quel punto, tutto quel trambusto sveglia il re, il quale chiede cosa stia succedendo. Arriva lì, i fratelli stanno per dire: “Sire…”, ma in quel momento il sole sorge e questi diventano cigni, e volano via, e dunque Elisa viene presa, messa su un carro e portata al rogo.
[…] le sue guance erano pallide come la morte, le sue labbra si muovevano piano piano, mentre le dita intrecciavano il lino verde; perfino nel cammino verso la morte non lasciò il lavoro iniziato, le dieci maglie giacevano ai suoi piedi, stava lavorando l’undicesima. La plebe la insultò.
[…] E tutti le vennero addosso volendo lacerarli; vennero allora, in volo, undici cigni bianchi, si posero attorno a lei sul carro sbattendo le loro grandi ali. Allora la folla, spaventata, si spostò ai lati.
“È un segno dal cielo, probabilmente è innocente!” Il popolo, ondivago: “Colpevole! Innocente!”. Così sono i giudizi del popolo. “È un segno del cielo, è un segno del diavolo, è un segno di questo o di quello”. Va a segni il popolo: segno del bene, segno del male. Così giudica.
“Probabilmente è innocente”, sussurrarono in molti, ma non osarono dirlo a voce alta. Ora il boia la prese per una mano, allora lei gettò in fretta le undici maglie sui cigni e ecco che apparvero undici splendidi principi, ma il più piccolo aveva un’ala di cigno al posto di un braccio, perché alla sua maglia mancava una manica che lei non era riuscita a finire.
[…] “Ora posso parlare! — disse — sono innocente!”. E il popolo, che vide tutto ciò che era successo, si inchinò davanti a lei come davanti ad una santa.
Beh, sappiamo come accade, abbiamo il rendiconto televisivo di padre Pio.
Ma ella cadde priva di sensi tra le braccia dei fratelli, tanto forte era stato l’effetto su di lei della tensione, dell’angoscia e del dolore. “Sì, è innocente davvero”, disse il fratello maggiore, e allora raccontò tutto quello che era successo e mentre lui parlava, si propagò nell’aria un profumo, sembrava provenire da milioni di rose, perché ogni pezzo di legno sul rogo aveva messo radici e gli erano cresciuti dei rami; vi era una siepe profumata, tanto grande e alta con rose rosse; in cima c’era un fiore bianco e lucido, brillava come una stella; il re lo colse, lo mise sul petto di Elisa e lei si risvegliò con il cuore pieno di pace e di felicità.
E tutte le campane delle chiese suonarono da sole e gli uccelli vennero in grandi stormi; il ritorno al castello fu una processione nuziale come nessun re l’aveva mai vista.
E qui termina la fiaba di Elisa o, meglio, dei Cigni selvatici, cioè una bella fiaba. No?
Allora ci riflettiamo qualche giorno, dato che abbiamo anche superato le ore 19 e riprendiamo il discorso mercoledì prossimo.
Invito ciascuno anche a riflettere sul testo di questa fiaba e a porre, la prossima volta, la sua riflessione, la sua lettura, questioni che possono sorgere, interrogativi, in modo da potere riprenderne qualche elemento prima di passare a Il gatto con gli stivali, perché mi sembra ci siano tante belle cose in questa fiaba.
Quinta conferenza della serie La lettura delle fiabe