Hänsel e Gretel
Incominciamo il corso La lettura delle fiabe. Il materiale del corso proviene da oltre vent’anni di ricerca intorno alla scienza della parola, dalla psicanalisi quale esperienza della parola originaria, dall’analisi e dalla clinica della parola. Gli scopi del corso sono molteplici in direzione della formazione, dell’insegnamento e di ulteriori acquisizioni dell’esperienza della parola originaria.
Il corso fornirà indicazioni per l’itinerario di ciascuno e per l’esperienza in corso per ciascuno, nel suo ambito e nel suo ambiente; non fornirà una tecnologia o una tecnica, ma contributi all’esperienza di ciascuno. Questo corso insiste, in particolare, sulla lettura di alcune fiabe e del loro materiale clinico, per cogliere le indicazioni, le sezioni, i segnali che da ciascuna fiaba provengono, per verificare se ci sia e quale sia il messaggio di queste fiabe che, molto frequentemente, sono entrate e entrano nell’idea di educazione.
È consuetudine raccontare le fiabe ai bambini. Quale messaggio procede dalle fiabe che man mano leggeremo? Qual è la lezione che ne viene? Come leggerle? Come raccontarle? Perché raccontarle? Quindi, c’è l’importanza del racconto. Non tutto ciò che si dice è racconto. Il racconto ha uno statuto particolare. Perché qualcosa entri nel racconto occorre un dispositivo particolare, un dispositivo intellettuale, un modo e uno sforzo particolari. Dire qualunque cosa non è racconto, non è raccontare.
Nella mia esperienza di psicanalista si tratta proprio del racconto: come ascoltare il racconto che altri fa. Quale dispositivo perché vi sia racconto, perché vi sia chi non si accontenti di dire qualunque cosa, di sciacquare i panni sporchi in Arno, come diceva Manzoni, che non sarebbe racconto. Occorre distinguere il racconto dal pettegolezzo, dal lamento, dalla lingua comune. La lingua del racconto non è la lingua comune, si tratta di giungere al racconto: perché vi sia racconto, occorre l’itinerario di cifra.
Che vi sia itinerario è anche la questione dell’educazione, perché non si tratta dell’uomo comune e della donna comune, ma dello statuto intellettuale dell’uomo e della donna. Nessuno nasce già uomo o nasce già donna, se non nel senso naturalistico del termine. Si tratta di divenire donna, di divenire uomo, ossia di divenire intellettuale, di divenire artista, di divenire educatore, di divenire insegnante, di divenire, cioè, statuto intellettuale. Questa è la scommessa che lo psicanalista compie, con ciascuno che scommetta con lui; questa è anche la scommessa dell’educatore, dell’insegnante, perché chi si trovi nella sua esperienza non abbia come destino quello animale, ossia la morte, come sostanza, come destino comune, come sorte. In particolare per l’insegnante, per l’educatore, per il genitore, per i genitori, si tratta di non trovarsi a fare dell’allevamento, ma che ci sia effettivamente educazione, cosa piuttosto difficile.
Intorno all’educazione sono fiorite molte teorie, è sorta una disciplina, la pedagogia, che si è prefissata il compito di creare il bambino ideale, il bambino buono, bravo e bello. Qual è il bambino della pedagogia, il bambino bravo, bello e buono? È il bambino morto. L’unico bambino che può incarnare l’ideale pedagogico è il bambino morto. Ogni altro bambino esige invece intendimento, attenzione, ascolto, per cogliere e intendere quel che si dice nel suo percorso e per non impartire luoghi comuni, superstizioni, moralismi, personalismi, credenze e via dicendo. Alcuni hanno creduto che, per parlare ai bambini, occorresse rivolgersi loro nella loro lingua.
Ma qual è la lingua dei bambini? Esiste una lingua che sia esente dalla parola, dai modi della parola, dalla procedura della parola? Esiste una lingua che sia priva di quello che Freud chiamava il lavoro onirico? Ebbene, la risposta è no. Non c’è questa lingua naturale che i bambini potrebbero o dovrebbero parlare, perché anche i bambini parlano nella lingua artificiale che è la lingua della parola originaria, di cui si tratta d’intendere e di cogliere la logica, la particolarità e la qualità. Xx Come ascoltare, per esempio, il racconto che un bambino fa, le cose che un bambino dice? Occorre innanzi tutto ascoltare i termini, i modi della parola. Occorre non ignorare in che modo la parola agisca, in che modo la parola funzioni, in che modo la parola si disponga nel discorso, perché il discorso è effetto della parola e non viceversa. Non c’è il discorso già confezionato e già costituito, quindi il discorso del bambino, il discorso dell’adulto, il discorso di Tizio o il discorso di Caio, ma c’è la parola con i suoi modi, la sua logica, e il discorso è l’effetto della combinazione della logica e della qualità della parola.
Bisogna dunque intendere che il racconto è qualcosa che accade: non è il racconto di ciò che è accaduto, non è il racconto di ciò che è stato; il racconto non è un necrologio, non riguarda il passato, non riguarda il fatto. Anche il così detto accaduto, ciò che viene chiamato il vissuto, entra nei giri e nei raggiri della parola, e dunque si espone a una trasformazione, a un’altra cosa, a un’effettualità che consente al fatto di dissiparsi, se c’è un dispositivo linguistico, di ascolto, di parola. Quindi non si tratta di accordare al vissuto una grande importanza. Il vissuto altro non è che una fantasia. È una fantasia personalistica dove domina il soggetto, la soggettività, una certa idea di sé o dell’Altro, un certo modello di sé o dell’Altro, modello che comunemente risente di un animale fantastico, si ispira a un animale fantastico e lo riproduce.
Le caratteristiche di ciò che la psicologia chiama il vissuto sono infatti la drammatizzazione, la personalizzazione, la sentimentalizzazione, quindi la mentalizzazione, ossia la mentalità, la riproduzione di una mentalità. Mentalità, intendo, come modo dell’animalizzazione, di adeguamento a quell’animale che Aristotele ha sancito essere la forma eminente di uomo comune, con il suo motto, con il suo sillogismo. Quando dico che la forma eminente di personalizzazione è la soggettività, intendo dire che la soggettività è un modo di abolire la logica della parola, di togliere la particolarità da quel che si dice per inscriverla in un luogo comune, in un discorso comune, cioè in forma di animalità, di animale senza parola. La soggettività è una forma di autonomia, autonomia dalla parola, dalla logica, un modo di riaffermare la propria animalità. Questa è la soggettività. Dunque l’educazione non deve mirare a riprodurre o a istituire un soggetto autonomo dalla logica, ma propriamente il contrario: deve mirare a formare uno statuto intellettuale, a avviare un itinerario di ricerca, deve mirare a fornire un messaggio che resti, con i criteri che valgano per la vita, non per la trasformazione dell’animaletto in animale adulto, da animale piccolo a animale grande.
Si tratta, per ciascuno, della tensione linguistica, della tensione intellettuale, quella che Freud chiamava la pulsione. Tensione linguistica, ossia anche istanza di qualità, perché ciascuna cosa non esiste in quanto tale, ma ciascuna cosa, ciascuna parola tende a qualificarsi, tende alla qualità, tende a divenire caso di qualità. Ma, perché questo avvenga, occorre un dispositivo. Non è automatico. Senza la tensione linguistica domina la preoccupazione, l’affanno, il malumore, il fastidio, la sintomatologia, la psicopatologia, la mentalità. Cioè, senza tensione linguistica, ciascuna cosa diventa malattia o psicofarmaco.
Cosa vuole dire? Che ciascuna cosa è ritenuta in grado di portare bene o di portare male, di fare bene o di fare male. Senza la tensione linguistica domina, cioè, la farmacopea del bene o del male. “Questo mi farà bene?”. “No, ti farà male, non farlo! Fai invece questo, che ti farà bene!”. E sorge così la paura, la paura del bene o la paura del male; sorgono così le prescrizioni e i divieti, sorge così l’abolizione dell’educazione a favore del catalogo delle prescrizioni e dei divieti, a favore del catalogo degli psicofarmaci della mentalità. Una volta instaurata questa mentalità, sorge un certo economicismo mentale, all’insegna del non fare questo o quello, in nome del bene o in nome del male. Questo è lo spreco, lo spreco della vita. Lo spreco della vita lo possiamo anche chiamare il risparmio mentale, ossia l’adeguamento a una mentalità, in nome del bene o in nome del male e, detto in altro modo, in nome della presunta propria origine. Lo spreco intellettuale, lo spreco della vita, è l’altro nome della predestinazione. Dice un proverbio siciliano che chi nasce tondo non può morire quadrato. Ecco, chi aderisce a questo proverbio ha fatto spreco della vita, cioè vive in nome della morte, della predestinazione, di una sorte che ritiene sia già segnata.
La credenza nella predestinazione, checché se ne possa dire, è diffusissima. Contrariamente a quanto ciascuno possa asserire, è la credenza più condivisa e trova molte vie, molti modi per affermarsi. Quando qualcuno dice che non può fare una cosa, che non è in grado, che non è all’altezza, che non se la sente, che non sa come fare, che non può fare, che non deve fare, è perché ha aderito alla predestinazione, che gli impone di non fare, in quanto soggetto predestinato.
Predestinato da che cosa? Dall’origine che crede di avere. Per ciascuno la questione non è di sapere già fare, di potere fare o di dovere fare, ma di fare. Fare che cosa? Ecco, che cosa fare? E fare come? Che cosa fare è la prima questione, come fare è la seconda. E, per stabilire cosa fare e come fare, occorre un dispositivo per fare, un itinerario e, nell’itinerario, dispositivi. Questo è il modo per mettere in questione le credenze, le fantasie, le fantasticherie, sopra tutto i ricordi, i ricordi dell’origine, i ricordi del passato come ricordi dell’origine, come ricordi di copertura dell’animalità, ossia dell’origine comune con qualcuno.
“Ma mio padre era così!”. “No, mio padre non era così!”. “Io questo lo posso fare, perché mio padre era così”. “Questo non lo posso fare, perché mio padre non era così. Mia madre, invece, era così. Dato che mia madre era così, io questo lo posso fare o non lo posso fare”. “Dato che mio padre è morto di quella malattia, anch’io morirò di quella malattia, quindi questo non lo posso fare”. Oppure: “Devo fare questo per dimostrare…”, eccetera eccetera. Tutti modi con cui si realizza il cerchio della morte, in nome dell’origine e della sua riproduzione. Mantenere questa credenza diventa, per taluni, l’impegno di tutta la vita. Anziché mettere in questione questa credenza, c’è chi profonde la sua vita per dimostrare che, no, è proprio così e che, essendo nato in quelle condizioni, da quella famiglia, ebbene, deve anche morire in quelle condizioni, in quella famiglia. Questo è il naturalismo, dove non c’è parola, dove non ci sono effetti di parola, dove non c’è tensione linguistica, dove le cose sono “tali”. Così erano, così sono e così saranno, senza dispositivo, senza itinerario, senza tempo. Se togliamo l’itinerario, se togliamo il tempo, se togliamo il dispositivo, abbiamo la soggettività, il soggetto immutabile, ossia l’animale predestinato alla morte, pari pari. Questo è il modo più comune di pensare: non è il caso particolare, è il modo comune di pensare.
Un’indicazione che viene dall’esperienza analitica è che l’esperienza intellettuale, l’esperienza della parola, è l’esperienza dell’inesauribilità del racconto. Dato che le cose non sono “tali”, non c’è modo al racconto di esaurirsi, perché il processo di qualificazione non è mai finito. Ma questa è un’esperienza che pochissimi hanno la fortuna di fare. Pochissimi. Rarissimi casi. Perché tutta l’impostazione del discorso occidentale va in direzione della realizzazione dell’essere, della realizzazione.
“Io mi sento realizzato da questo”. “Io non mi sento realizzato da questo. Devo cercare di realizzarmi”. “Devi cercare di realizzarti”. “Vedi di realizzarti! Non mi sembri ancora realizzato”. Ma che cos’è questa realizzazione? Non c’è chi si possa realizzare se non immobilizzandosi. Cosa vuole dire realizzarsi? Rendersi reali. Ma la stessa realtà è fantasmatica. E il reale è l’impossibile dell’avere e l’impossibile dell’essere. Come potere realizzarsi? Forse animalizzandosi, compiendo il cerchio della morte, del ritorno al punto di partenza, cosa possibile solo in una necropoli, cioè in abolizione del tempo. Qual è la mitologia massima di chi persegue questo ideale di realizzarsi? Stare bene. “Devo realizzarmi per stare bene”. Stare bene per fare cosa? Rilassarsi. “Devo stare rilassato, morto, rilassatissimo, inerte”. Benessere, benessere assoluto, la morte. [Si sente un sospiro in sala. N.d.r.] C’è proprio da sospirare infatti, perché ognuno ha la sua ricetta. Poco fa ero al bar a prendere un caffè: arriva una signora, amica della barista, la quale aveva non si sa bene quale acciacco e l’amica le ha subito suggerito la tecnica per stare bene, una procedura di massaggi di sua conoscenza, per stare bene. “Ma no, guarda, io non è che proprio…”. “No, no, questo ti fa bene. Questo ti fa bene, così ti rilassi”. Perfetto, il rilassamento per stare bene. I giovani di oggi in che direzione vanno? In direzione di fare che cosa? Prima di tutto stare bene, poi, una volta che starò bene, potrò decidere cosa fare. Benissimo! E quando starai bene? Mai! Cosa vuole dire stare bene? Essere privi di inquietudine? Privi di tensione linguistica intellettuale? Allora è proprio la morte, la morte bianca. Questo è il messaggio dell’educazione di oggi? Il benessere? Stare rilassati? È questa la questione che l’educatore, l’insegnante, l’intellettuale oggi non possono non porsi, se non a condizione di fare l’allevatore di animali, animali fantastici, cioè di zombies, di morti viventi.
Si tratta di reinventare oggi la pedagogia, in nome non di un discorso come causa, di un discorso preconfezionato che sancisca sulla base della predestinazione come dovere essere, ma sulla base della parola, della logica della parola e della qualità della parola. Vuole dire anche reinventare lo statuto di insegnante, di educatore, di genitore, perché, chiaramente, non si tratta di riversare su chi ci sta dinanzi le proprie angosce, i propri moralismi, i propri tics, i propri fastidi, le proprie superstizioni e religiosità, ma di attraversarle, di trovare lo statuto intellettuale di questi così detti vissuti, che dovrebbero orientare il cammino in direzione del cerchio; occorre, per chi ci si trova, uscire dal cerchio. E, per uscire dal cerchio, non ci sono tanti modi, c’è il modo della parola.
Non è vero che, come affermato dal business del benessere, vivere è uguale a stare bene. Per nulla. Chi si impegna a stare bene non vive, non vive affatto: riproduce giorno per giorno la morte che ha in mente, la sua mentalità rispetto alla morte, cioè muore ciascun giorno. Non c’è vita possibile per chi si impegna a stare bene, perché stare bene non è che l’altra faccia dello stare male e tra le due cose non c’è molta differenza: prevale lo “stare”, prevale un’idea di morte. Che sia buona o no, sempre morte è. C’è differenza tra l’eutanasia e un’altra morte? C’è differenza tra la buona morte e la cattiva morte? No, non c’è nessuna differenza: è morte, una volta accettata la quale, non c’è vita. Si tratta invece di trovare i termini e i modi della vita. Questa sì è un’impresa, lì sta la difficoltà, e non è per tutti, non è facile. Chi pensa che debba essere facile, si frega. Si frega, perché vive nelle recriminazioni, nei ricatti, nelle rivendicazioni, quindi nell’ideologia della vendetta, della colpa e della pena, che sono sempre modi della morte, modi di negazione dell’istanza intellettuale, della tensione linguistica. Sono sempre modi della riproduzione dell’animale fantastico chiamato soggetto, soggetto autonomo: “Io rivendico la mia autonomia, io devo fare quello che voglio. Sono io a decidere!”. Io chi? Con quale criterio? In base a che cosa? Con quali norme, regole, motivi? In direzione di che? Con quale progetto? Senza progetto la stessa educazione come può stabilirsi? Diventa un prontuario di comportamenti. In nome di che cosa? In vista di che cosa? In direzione di che cosa? Anche i bambini, se viene tolto il progetto di vita, in direzione di che cosa dovrebbero vivere? Per riprodurre papà e mamma? Per riprodurre la loro idea di origine? È una questione.
È questo che occorre indagare, tra le altre cose, per esempio, nelle fiabe. Ne abbiamo scelte otto fra le più note: alcune dei fratelli Grimm, alcune di Andersen, alcune di Perrault, confrontando la versione tedesca e francese, giusto per intendere il messaggio e se non ci sia una certa morale che verrebbe affermata dalle fiabe, da certe fiabe; da quelle fiabe in particolare che sono le più famose, le più diffuse, le cosiddette fiabe popolari, in determinati contesti culturali, letterari. Allora cominciamo oggi con una fiaba dei fratelli Grimm, i noti fratelli Grimm, Jacob e Wilhelm, due fratelli vissuti a cavallo tra il ‘700 e l’‘800.
Ritengo che non ci sia chi ignori la fiaba di Hänsel e Gretel. C’è chi ne ha sentito già parlare, penso. La rileggiamo, così ne percorriamo lo svolgimento. C’è chi ha portato il libro delle fiabe? Ci vorrebbe la versione tratta dalla lingua originale. Questa è la raccolta curata da Italo Calvino pubblicata da Einaudi. Leggiamo.
Davanti a un gran bosco abitava un povero taglialegna, con sua moglie e i suoi due bambini; il maschietto si chiamava Hänsel, e la bambina, Gretel. — Quindi Giovanni, Giovannino e Margherita — Egli aveva poco da mettere sotto i denti, e quando ci fu nel paese una grave carestia, non poteva neanche più procurarsi il pane tutti i giorni. Una sera, che i pensieri non gli davano requie, — brutta cosa i pensieri di sera! Quando non danno requie, sopra tutto se non c’è un dispositivo in cui questi pensieri possano incontrare un’altra disposizione, un altro statuto delle cose — ed egli si voltolava inquieto nel letto, disse sospirando alla moglie: “Che sarà di noi? come potremo nutrire i nostri poveri bambini, che non abbiam più nulla neanche per noi?”. — Quindi, il papà si preoccupa per i bambini — “Senti, marito mio, — rispose la donna — domattina all’alba li condurremo nel più folto della foresta: accendiamo loro un fuoco e diamo a ciascuno un pezzetto di pane; poi andiamo al lavoro e li lasciamo soli: i bambini non ritrovano più la strada per tornar a casa, e ce ne siamo sbarazzati”. — È semplice. Per la signora è facile: li porta nel bosco e li lascia lì — “No, moglie mia, — disse l’uomo — questo non lo faccio: come potrei aver cuore di lasciare i miei figli soli nel bosco! Le bestie feroci verrebbero subito a sbranarli”. — Ecco, subito, il bosco abitato da bestie feroci. Si tratta qui del bosco, la scena truce. Non stanno davanti alla città questi signori, stanno davanti al bosco — “Pazzo che non sei altro, — diss’ella — allora dobbiamo morir di fame tutti e quattro; non ti resta che piallare le assi per le bare”. — Subito decisa, fantasia di morte immediata per tutti. Dice: “Dobbiamo morire tutti. Meglio che muoiano solo loro; noi, così, ci possiamo salvare”. — E non lo lasciò in pace finché egli acconsentí. — “Ma quei poveri bambini mi fan pietà!” — disse l’uomo.
Per la fame, neppure i due bimbi potevan dormire, e avevano udito quel che la matrigna diceva al padre.
Ecco, qui adesso è “matrigna”. Prima erano il taglialegna, sua moglie, e i suoi due bambini. In italiano, effettivamente, non è chiaro, in tedesco sarebbe più preciso di chi sono i bambini. Questi sono i bambini del taglialegna. Si tratta della matrigna. Perché i bambini, che per la fame non potevano dormire, hanno udito quel che la matrigna diceva al padre. Sono i bambini che hanno udito quel che la matrigna diceva al padre. Ma qui si tratta di ciò che dice la moglie al marito o di ciò che sentono i bambini nell’altra stanza? E che cosa sentono i bambini nell’altra stanza quando i genitori parlano? Che cosa sentono? Sentono che i genitori si vogliono sbarazzare di loro. Ma dunque si tratta di una fantasia dei bambini? Il fatto è una fantasia dei bambini? Il fatto della matrigna è per caso una fantasia dei bambini?
Gretel piangeva amaramente, — quindi è Gretel che sente il presunto discorso della matrigna al padre. È Gretel — e disse ad Hänsel: “Adesso per noi è finita”. “Zitta, Gretel, — disse Hänsel — non affannarti, ci penserò io”. E quando i vecchi si furono addormentati, si alzò, si mise la giacchettina, aprì l’uscio da basso e sgattaiolò fuori. Splendeva chiara la luna — Hänsel mica si lascia abbattere subito così, come Gretel: “Morti, moriamo tutti, subito finita”. No: lui apre, e già vede la luna, mica il bosco con le bestie feroci. La luna! — e i sassolini davanti a casa rilucevano come monete nuove di zecca…
Cioè, per Hänsel c’è un’altra scena, non la morte promessa dalla sorella, promessa dalla matrigna. Dice: “Un momento! Quale morte, quale fine?”. È un’altra scena.
…Hänsel si chinò e ne ficcò nella taschina della giacca quanti poté farne entrare. Poi tornò dentro e disse a Gretel: “Sta’ di buon animo, cara sorellina, e dormi pure tranquilla: Dio non ci abbandonerà”.
Cioè aveva istituito già un dispositivo, un dispositivo secondo il quale la provvidenza era già in atto, per cui Dio non ci abbandonerà: non perché si affida alla speranza che qualcosa accada, ma perché avvia un dispositivo per la provvidenza.
E si rimise a letto. Tranquillo, perché ha una direzione da seguire, mica l’idea di morte da cui rimanere atterrito, come la sorella.
Allo spuntar del giorno, ancor prima che sorgesse il sole, la donna andò a svegliare i due bambini: — quindi si tratta prima della moglie del taglialegna, poi della matrigna, ora della donna — “Alzatevi, poltroni, andiamo nel bosco a far legna!”. Poi diede a ciascuno un pezzetto di pane e disse: “Eccovi qualcosa per mezzogiorno, ma non mangiatelo prima, non avrete nient’altro”. Gretel mise il pane sotto il grembiule, perché Hänsel aveva in tasca le pietre. Poi s’incamminarono tutti insieme verso il bosco. Quando ebbero fatto un pezzetto di strada, Hänsel si fermò e si volse a guardar la casa; così fece più e più volte. Il padre disse: “Hänsel cosa stai a guardare e perché rimani indietro? Su, muoviti!”. “Ah, babbo, — disse Hänsel — guardo il mio gattino bianco, che è sul tetto e vuol dirmi addio”. La donna disse: “Sciocco, non è il tuo gatto; è il primo sole, che brilla sul comignolo”. — Realista la signora. Non è il gattino, vi dico io cos’è — Ma Hänsel non aveva guardato il gattino: — è evidente — aveva buttato ogni volta sulla strada uno dei sassolini lucidi che aveva in tasca. — Quindi, si girava, apparentemente a guardare la casa, ma per attuare il suo dispositivo, che era quello di lasciare un sassolino — Arrivati in mezzo al bosco, disse il padre: “Adesso raccogliete legna, bambini; voglio accendere un fuoco, perché non geliate”. Hänsel e Gretel raccolsero rami secchi e ne fecero un bel mucchietto. I rami furono accesi e quando si levò alta la fiamma, la donna disse: “Adesso mettetevi accanto al fuoco, bambini, e riposatevi, noi andiamo a spaccar legna nel bosco. Quando abbiamo finito, torniamo a prendervi”. Hänsel e Gretel rimasero accanto al fuoco e a mezzogiorno mangiarono il loro pezzetto di pane. E udendo colpi d’accetta credevano che il babbo fosse vicino. Ma non era l’accetta, era un ramo, che egli aveva legato a un albero secco e che il vento sbatteva di qua e di là. Eran là, seduti da un pezzo, e alla fine i loro occhi si chiusero per la stanchezza ed essi si addormentarono profondamente. Quando si svegliarono, era già notte fonda. Gretel si mise a piangere e disse: “Come faremo a uscire dal bosco!”. Ma Hänsel la consolò: “Aspetta soltanto un poco, finché sorga la luna, poi troveremo bene la strada”.
Hänsel non si perde d’animo, ciascuna circostanza va per affrontarla. Non si abbandona al catastrofismo, all’idea del negativo, ma si rivolge al modo opportuno per affrontare la difficoltà che si pone dinanzi.
E, quando sorse la luna piena, prese per mano la sua sorellina e seguirono le pietruzze, che brillavano come monete nuove di zecca e mostravan loro la via. Camminarono tutta la notte e allo spuntar del giorno arrivarono alla casa paterna. Bussarono alla porta, e quando la donna aprí e vide che erano Hänsel e Gretel, disse: “Cattivi, perché avete dormito tanto nel bosco? Credevamo che non voleste più tornare”. Ma il padre si rallegrò, — quindi subito “cattivi”. Materna la signora, materna, punitrice, severa. “Cattivi!”. — tanto l’aveva accorato lasciarli così soli. Non passò molto tempo e la miseria tornò ad invadere la casa; una notte i bambini udiron la matrigna dire al padre: — quindi ancora una volta i bambini odono la matrigna, che dice al padre — […] “Si è di nuovo mangiato tutto…”.
Ecco la fine, la fine delle cose; le cose finiscono. Il cerchio, dove le cose finiscono.
“C’è ancora una mezza pagnotta, poi è finita”. I bambini devono andarsene; li condurremo più addentro nel bosco, perché non ritrovino la strada: per noi non c’è altro scampo”. L’uomo si sentì stringere il cuore e pensò: “Sarebbe meglio che dividessi il tuo ultimo boccone con i tuoi bambini”. Ma, checché dicesse, la donna non gli dava retta, e lo sgridava e lo rimproverava: Chi dice A deve dire anche B, e perché aveva ceduto la prima volta, egli dovette cedere anche la seconda.
Padre debole che sottostà alla matrigna e che, avendo ceduto una volta, cede anche la seconda. Eh, chi accetta la morte una volta, l’accetta poi per sempre. Chi accondiscende una volta, dice: “Beh, per questa volta acconsento, per questa volta accetto, per questa volta cedo, per questa volta mi lascio andare, ma solo per questa volta” e poi la successiva anche, e quella dopo ancora. Un padre che si lascia andare, dunque.
Ma i bambini erano ancora svegli e avevano udito quei discorsi. Quando i vecchi dormirono, Hänsel si alzò di nuovo, per andare, come l’altra volta, a raccogliere sassolini; ma la donna — questa volta non si lascia mica fregare come prima — aveva chiuso la porta — quindi una difficoltà in più — e Hänsel non poté uscire. Ma consolò la sua sorellina, dicendo: “Non piangere, Gretel, dormi pure tranquilla: il buon Dio ci aiuterà”.
Nel senso che dice: “adesso ne escogito io un’altra. C’è una difficoltà nuova, e adesso vediamo un po’ come fare”.
Sul far del giorno, la donna fece alzare i bambini dal letto. Ebbero il loro pezzetto di pane, ma era ancora più piccolo dell’altra volta. Sulla strada del bosco, Hänsel lo sbriciolò in tasca, e spesso si fermava e buttava una briciola in terra. “Hänsel, perché ti fermi a guardarti attorno? — disse il padre, — cammina!”. “Guardo il mio piccioncino che è sul tetto e vuol dirmi addio”, rispose Hänsel. “Sciocco, — disse la donna — sempre severa, correttrice — non è il tuo piccione, è il primo sole che brilla sul comignolo”. Ma Hänsel un po’ per volta gettò tutte le briciole per via.
La donna condusse i bambini ancor più addentro nel bosco, dove non eran mai stati in vita loro. Accesero di nuovo un gran fuoco e la madre disse: “Restate qui, bambini, se siete stanchi, potete dormire un po’: noi andiamo a tagliar legna nel bosco e stasera, quando abbiamo finito, veniamo a prendervi”. A mezzogiorno, Gretel divise il pane con Hänsel, che l’aveva sparso per via. Poi si addormentarono e passò la sera, ma nessuno venne dai poveri bambini. Si svegliarono solo a notte fonda, e Hänsel consolò la sorellina, dicendo: “Aspetta, Gretel, che sorga la luna: allora vedremo le briciole di pane che ho sparso; ci mostreranno la via di casa”. Quando sorse la luna, si alzarono, ma non trovarono piú neanche una briciola: le avevano beccate i mille e mille uccellini, che volano per campi e boschi. Hänsel disse a Gretel: “Troveremo la strada lo stesso”.
Hänsel non si perde d’animo, non si lascia vincere dallo sconforto, dalla paura. Hänsel non ha paura, questa è la questione.
Ma non la trovarono. Camminarono tutta la notte e ancora un giorno, da mane a sera, ma non uscirono dal bosco, e avevano tanta fame, perché avevan solo un po’ di bacche trovate per terra. Eran così stanchi che le gambe non li reggevano più; si sdraiarono sotto un albero e si addormentarono. — E così vanno avanti — Era già la terza mattina, da quando avevan lasciata la casa del padre. Ricominciarono a camminare, ma si addentravano sempre più nel bosco, e se non trovavano presto aiuto, sarebbero morti di fame. A mezzogiorno, videro su un ramo un bel uccellino bianco come la neve; cantava così bene che si fermarono ad ascoltarlo. Quand’ebbe finito, aprì le ali e volò davanti a loro ed essi lo seguirono, finché giunsero ad una piccola casa e l’uccellino si posò sul tetto. Quando furono ben vicini, videro che la casina era fatta di pane e coperta di focaccia; ma le finestre erano di zucchero trasparente. “All’opera! — disse Hänsel — faremo un ottimo pranzo. Io mangerò un pezzo di tetto e tu, Gretel, puoi mangiare un pezzettino di finestra: è dolce”. Hänsel si rizzò, stese la mano in alto, e staccò un pezzo di tetto, per sentire che gusto aveva; e Gretel s’accostò ai vetri e cominciò a spilluzzicarli. Allora una voce sottile gridò dall’interno:
“Rodi, rodi, morsicchia, la casina chi rosicchia?” I bambini risposero: “Il vento, il venticello, il celeste bambinello”, e continuarono a mangiare…
[…] Ma d’un tratto la porta si aprì e venne fuori pian piano una vecchia decrepita, che si appoggiava a una gruccia. Hänsel e Gretel si spaventarono tanto, che lasciarono cadere quel che avevano in mano. Ma la vecchia dondolò la testa e disse: “Ah, cari bambini, chi vi ha portato qui? Entrate e rimanete con me, non vi succederà niente di male”. — E già annuncia quello che accadrà — Li prese entrambi per mano e li condusse nella sua casetta. Fu loro servita una buona cena, latte, frittelle, mele e noci; poi furono preparati due bei lettini bianchi, e Hänsel e Gretel si coricarono e credevano di essere in paradiso.
Improvvisamente la vita era diventata facile, una bella vita facile con la casina da mangiare, una bella cena. La vecchia fingeva di essere benigna, ma era una cattiva strega, che insidiava i bambini e aveva costruito la casetta di pane soltanto per attirarli. Ora, terribile, è una fiaba del terrore, dove c’è nel bosco una casetta con una vecchina che attira i bambini, e per fare cosa? Quando un bambino cadeva nelle sue mani, l’uccideva, lo cucinava e lo mangiava…
Un messaggio educativo eccellente! Cosa c’è nel bosco? Nel bosco c’è la vecchina che attira i bambini, li ingrassa, li uccide, li cucina e se li mangia. È un bel bosco quello lì, ma in effetti siamo in Germania. Cosa poteva esserci nel bosco in Germania? Cosa, in Germania, la patria di Institor e Sprenger? Voi lo sapete chi siano Institor e Sprenger? “Noi, inquisitori della Germania…”, così incomincia il Malleus Maleficarum, il Martello delle streghe, il manuale della Santa Inquisizione. Nel bosco, in Germania, cosa poteva esserci? La strega, che altro? Quindi la vecchietta, quando un bambino cadeva nelle sue mani, l’uccideva, lo cucinava e lo mangiava…
…e per lei quello era giorno di festa. — C’è modo e modo di considerare la festa — Le streghe hanno gli occhi rossi e la vista corta, — è chiaro che anche i fratelli Grimm risentono dell’opera di Heinrich Institor e Jacob Sprenger e, quindi, sanno come dev’essere fatta una strega: ha gli occhi rossi e la vista corta — ma hanno un fiuto finissimo, come gli animali, — eh, ti pareva! — e sentono l’avvicinarsi di creature umane. E quando si avvicinarono Hänsel e Gretel, ella rise malignamente e disse beffarda: “Sono in mio potere, non mi scappano più”. Di buon mattino, prima che i bambini fossero svegli, si alzò, quando li vide riposare, così dolcemente, con le gote rosse e tonde, mormorò fra sé: “Diventerà un buon boccone!”.
Di buon mattino, che cosa accade? Accadono le cose più nefande. Di buon mattino la strega li guarda e dice: “diventerà un buon boccone”.
Afferrò Hänsel con la mano rinsecchita, lo portò in una stia e lo rinchiuse dietro un’inferriata; e per quanto egli gridasse, non gli giovò. Poi essa andò da Gretel, la svegliò con uno scossone e gridò: “Alzati, poltrona, porta l’acqua e cucina qualcosa di buono per tuo fratello, che è là nella stia e deve ingrassare. Quando è grasso, voglio mangiarmelo”. Gretel si mise a piangere amaramente, ma fu tutto inutile, dovette fare quel che voleva la cattiva strega.
Ora, al povero Hänsel, cucinavano i cibi più squisiti, ma Gretel non riceveva che gusci di gambero. Ogni mattina la vecchia si trascinava fino alla stia e gridava: “Hänsel, sporgi le dita, che senta se presto sarai grasso”. Ma egli le sporgeva un ossicino e la vecchia, che aveva gli occhi torbidi, non poteva vederlo, credeva fossero le dita di Hänsel, e si stupiva che non volesse proprio ingrassare.
Lei sentiva l’ossicino, voleva che il dito si ingrassasse. Chissà di che dito si trattava, il dito che doveva gonfiarsi, ingrassarsi.
Dopo quattro settimane, visto che Hänsel era sempre magro, perse la pazienza e non volle più aspettare. “Su, Gretel, — gridò alla fanciulla, — porta l’acqua, svelta; grasso o magro che sia, domani ammazzerò Hänsel e lo cucinerò”. Ah, come pianse la povera sorellina, quando dovette portar l’acqua! e come le scorrevano le lacrime sulle guance! “Buon Dio, aiutaci! — implorava. — Ci avessero divorato le bestie feroci nel bosco! Almeno saremmo morti insieme”. — Eh, che bel vantaggio! — “Risparmiati il piagnisteo, — disse la vecchia, — non serve a nulla”. — Eh sì, non ha neanche torto — Di buon mattino Gretel dovette uscire, appendere il paiolo con l’acqua e accendere il fuoco. “Prima di tutto bisogna cuocere il pane, — disse la vecchia: — ho già scaldato il forno e impastato”. Spinse fuori la povera Gretel, fin presso il forno, da cui già svampavano le fiamme. “Cacciati dentro, — disse la strega, — e guarda se è ben caldo, perché possiamo infornare il pane”. E mentre Gretel era dentro, avrebbe chiuso il forno per farla arrostire e mangiarsela anche lei. Ma Gretel capì la sua intenzione — qui, Gretel capisce — e disse: “Non so come fare: — non so fare io, non so — come faccio a entrarci?”. “Stupida oca, — disse la vecchia, — l’apertura è abbastanza grande; guarda, potrei entrarci anch’io”. Arrancò fin là e sporse la testa nel forno. Allora Gretel, con un urtone, la spinse dentro, chiuse lo sportello di ferro e tirò il catenaccio. Uh! che urla orribili gettò la strega! Ma Gretel corse via e la maledetta strega dovette miseramente bruciare. — Cosa può fare una strega in Germania nella foresta, se non bruciare? — Gretel corse difilato da Hänsel, aprì la stia e gridò: “Hänsel, siamo liberi, la vecchia strega è morta!”. Allora Hänsel saltò fuori, come un uccello quando gli aprono la gabbia. — C’è tutto un animale: c’è l’oca, c’è l’uccello… — Con che gioia si saltarono al collo, si baciarono e fecero capriole! E siccome non avevan più nulla da temere, entrarono nella casa della strega, e dappertutto c’erano forzieri pieni di perle e di pietre preziose. “Sono ancor meglio dei sassolini! — disse Hänsel, — e mise in tasca tutto quel che poté entrarci. E Gretel disse: “Anch’io voglio portarne a casa un po’” e si riempì il grembiulino. “Ma adesso andiamo via, — disse Hänsel, — dobbiamo uscire dal bosco della strega”. Dopo aver camminato un paio d’ore, giunsero a un gran fiume. “Non possiamo attraversarlo, — disse Hänsel, — non vedo né ponte né passerella”. “E non c’è neanche una barchetta, — rispose Gretel, — ma là nuota un’anitra bianca; se la prego, ci aiuterà a passare”. E gridò:
“Anatrino, corri! Hänsel e Gretel qui soccorri. Nessun ponte passa il fiume, prendici dunque sulle bianche piume”.
E l’anatrino si avvicinò; Hänsel gli salì sul dorso e disse alla sorellina di sederglisi accanto. “No, — rispose Gretel, — sarebbe troppo pesante per l’anitra; ci trasporterà l’uno dopo l’altro”. Così fece la buona bestiola; e quando furono felicemente arrivati dall’altra parte, dopo un breve tratto di strada, il bosco divenne loro sempre più familiare e alla fine scorsero di lontano la casa del loro babbo. Allora si misero a correre, si precipitarono nella stanza e si appesero al collo del padre. L’uomo non aveva più avuto un’ora lieta da quando aveva lasciato i bambini nel bosco, ma la donna era morta. Gretel rovesciò il suo grembiulino, sicché le perle e le pietre preziose saltellarono per tutta la stanza, e Hänsel vi aggiunse a manciate il contenuto della sua tasca. Così finiron tutti i guai e i tre vissero insieme felici e contenti.
La mia fiaba ti ho detto. Laggiù corre un sorcetto; prendigli il pelliccione e fatti un berrettone.
Così termina la fiaba, che più terribile non si può. Una fiaba del terrore, una fiaba che si tesse attorno al matricidio, la cui morale è che i tre vivono felici e contenti, morta la madre. Padre debole, madre che viene fatta fuori dalla bambina; bambina che fa fuori anche la strega. Madre, matrigna, strega. La bambina buona, la madre cattiva, madre matrigna, madre strega. Madre, bambina, un’anfibologia della madre, una madre che viene sentita, dalla bambina, dire che li vuole abbandonare, che li vuole mettere a morte. E allora cosa fa? Restituisce pane per focaccia, ossia fa fuori la strega, ossia fa fuori la madre, madre ritenuta strega, ritenuta cattiva, madre che nella versione di strega propone le cose facili: lo zucchero, la focaccia, il pane, cioccolato, mele, noci, latte, frittelle, tutte cose buone. Improvvisamente tutto facile. E la vecchia che fingeva di essere buona era in realtà cattiva, e la madre che fingeva di essere buona era in realtà cattiva.
C’è qui un’anfibologia e una dicotomia. Le cose che sembrano buone sono in realtà cattive. E su tutte queste cose, che possono essere o buone o cattive, aleggia la minaccia di morte. E poi ci sono le perle e le pietre preziose, che vengono date al padre, quasi una forma di pagamento. Gretel, che uccide la strega, consegna le perle al padre. Questo è un dettaglio non trascurabile della fiaba.
É il segno dell’incesto, è il pagamento dell’incesto avvenuto: “Così finiron tutti i guai e i tre vissero insieme felici e contenti”. Nel regno della morte, cioè nell’incesto avvenuto. Tolta la madre, Gretel compie l’incesto, ovvero il matricidio; compie l’incesto con il padre, ossia realizza il matricidio. Si tratta di un fantasma materno di matricidio, in nome del quale Gretel compie una sorta di risarcimento al padre. Ma come trova questo risarcimento? Dove lo trova? Le perle, le monete, come le trova? Le trova nella via facile. Ora c’è un’estrema e radicale differenza fra Hänsel e Gretel, perché Gretel ode i genitori parlare nella stanza accanto. Dunque, i genitori parlano tra loro e Gretel ritiene che parlino dei bambini e che i genitori vogliano sbarazzarsi dei bambini. Quale bambino non ha pensato talvolta che la mamma non è la mamma, il papà non è il papà e che mamma e papà potrebbero abbandonarli?
Questa favola dice che il bambino tedesco non è immune da questo pensiero e che, sentendo mamma e papà parlare nell’altra stanza, fantastica che mamma e papà lo vogliano abbandonare. Hänsel non condivide questo pensiero, non si associa, non ha la stessa fantasia, ma, posto dinanzi alla questione, s’industria, elabora una strategia. Per Gretel, l’unica strategia è fare fuori la madre; il suo pensiero è che bisogna fare fuori la madre per stare finalmente insieme al papà e a Hänsel. Quindi, per Gretel si tratta di una fantasia d’incesto, che si volge poi in una forma di prostituzione. Occorre dire che la prostituzione altro non è se non la realizzazione di una fantasia di incesto. Perciò, per Gretel si tratta del modo facile di trovare perle e pietre preziose da dare, da consegnare al padre. In cambio di che cosa? Della sua complicità per avere lasciato fare fuori la madre.
Questa è la fantasia attorno a cui si svolge questa fiaba: una fantasia di matricidio a cui si combina la fantasia di incesto. Una fantasia di via facile per superare le difficoltà, che si realizza togliendo di mezzo la madre; la madre vista come ciò che si frappone rispetto al benessere, allo stare bene, dato che il padre è debole, non c’è. Qui, il padre non è padre: è un fanfarone, un fratello maggiore, un poveretto che ha sempre il cuore strizzato, gli piange il cuore, gli si strizza il cuore, tutto un cuore macilento e lascia fare qualunque cosa, cioè è un padre senza autorità.
Qui si svolge la fantasmatica del matricidio da parte della fanciulla, si svolge la fantasmatica dell’anfibologia della madre, cioè della madre ritenuta animale fantastico, che può essere buona o malvagia, che può essere madre o matrigna, che può essere madre o strega. Bene e male sono assunti e entrano nell’esperienza, e vengono attribuiti alle cose e alle persone, come forma dell’Altro. Qui non c’è il racconto da parte di Gretel. Gretel dice a Hänsel: “Vogliono farci questo e questo”. Hänsel non si pone la questione di ascoltare, di fare sì che questo entri nel racconto; prende la cosa realisticamente, però nei termini di istituire un dispositivo, di attuare una strategia. In realtà Hänsel non aderisce all’idea del bene e del male. Lui, se c’è da andare nel bosco, ci va; se c’è da entrare nella casa, lo fa; se c’è da prendere i sassolini, lo fa. Cioè, Hänsel non aderisce al fantasma di morte, che invece è assolutamente partecipato da Gretel. Gretel, aderendo al fantasma di morte, ipotizza una famiglia mortifera: questa è la famiglia vista da Gretel! È chiaro?
Questa fiaba svolge una fantasia, il fantasma materno di Gretel: cioè è l’idea che Gretel ha della famiglia e delle cose, rispetto a cui non c’è nessun intervento, né da parte del padre, né da parte della madre, né da parte del maestro, né da parte dell’educatore, da parte di nessuno. Sono la fantasia di morte e la fantasia di assassinio che Gretel “ha in testa”; è la sua mentalità della famiglia che si afferma per via di un’idea di bene o di male attribuita alle cose, alle persone, all’esperienza. Tolta la relazione originaria, le cose diventano o buone o malvagie, e quindi occorre attrezzarsi per contrastarle con lo stesso metro, opponendo al fantasma di morte un fantasma di assassinio. Qui c’è tutta la morale inquisitoriale e è tratteggiata la morale dell’inquisitore, in assenza di parola, in assenza di transfert e del processo di qualificazione. Io ho una fantasia e la applico alla prima occasione. Gretel ha questa fantasia e, alla prima occasione, sentendo papà e mamma che parlano: “Ebbene — dice — parlano di me e vogliono compiere quel che io ho in mente”. Questo dice la fiaba.
Si può leggere in ben altro modo, ossia nella totale inesistenza del fatto. Gretel non si sposta mai da casa e si sveglia la mattina dopo che ha fatto questo sogno, durante il quale ha sognato di venire abbandonata dalla mamma e di farla fuori. È il racconto di una fantasia, dove non c’è il fatto, però c’è una logica; dove c’è il fantasma dell’incesto e c’è il fantasma della via facile: “Vai nel bosco, trovi la strega, la fai fuori, prendi le sue cose e le porti a casa”. E la difficoltà è superata, a prezzo di togliere e di abolire la madre, di togliere e di abolire la famiglia originaria. Perciò è molto interessante questa fiaba, perché dice chiaramente quali sono le conseguenze del padre debole, del padre senza autorità. Un padre debole, un padre che non consenta che l’autorità si instauri, “autorizza” il matricidio, per dire così. “Autorizza”, tra virgolette, ma è come se rendesse il matricidio possibile, e se ne facesse complice.
È una fantasia di matricidio, di messa a morte della madre, e in questa fantasia non c’è l’Altro, l’Altro irrappresentabile, e ciascun incontro è l’incontro con l’Altro negativo: c’è la matrigna, c’è la strega, ci sono gli animali cattivi, cioè la negazione dell’Altro. Certo, negato il figlio, anche l’Altro è negato, e si afferma solamente il nome del nome. È un passaggio che adesso è un po’ celere, magari la volta prossima lo consideriamo più in dettaglio, avvalendoci anche del materiale di Cappuccetto Rosso e anche delle riflessioni che ciascuno di voi può fare in questi giorni e portare già la settimana prossima.
Come dire che Gretel si sente originata in qualche modo, trova la sua origine, localizza la sua origine, e nulla è più insopportabile di un’origine localizzata. Perché? Perché chi localizza l’origine si fa segno di quell’origine e, facendosi segno, si introduce nella predestinazione. E questo è insopportabile. Però, pure nella sua insopportabilità, se non trova modo di elaborarsi e di venire attraversata come questione, si riproduce.
Come si riproduce? Nelle sue due facce possibili: conformandovisi o ribellandovisi. Sia la conformazione, il conformismo, l’adeguamento, sia la ribellione, sono due modi di confermare una cosa. Viene confermata sia che io mi adegui sia che io mi ribelli. La ribellione è un segno della consacrazione, cioè che quella cosa non è qualificata, non trova qualifica, resta tale, quindi è resa sostanza. La realizzazione è questa: fare di qualcosa sostanza.
Bene, con questo concludiamo.
Prima conferenza della serie La lettura delle fiabe