Chi intende. Quale programma?
Noi da anni abbiamo posto l’attenzione su questioni che riteniamo siano da affrontare in un contesto scientifico, dunque culturale e con le nostre pubblicazioni, le nostre riviste, atti di convegni, congressi e testimonianze di intellettuali di paesi differenti, cerchiamo di porre l’attenzione a una questione riguardante anche l’educazione, l’educazione alla qualità della vita, al modo di affrontare le difficoltà che ciascuno può incontrare. È chiaro che con la giustificazione della velocizzazione, dell’ottimizzazione, della scarsità di tempo disponibile viene scartato l’ascolto della questione che una persona che si reca dal medico pone. Il discorso viene, per lo più, frettolosamente concluso con la prescrizione farmacologica. Molto spesso la prescrizione farmacologica è un modo con cui il medico tampona la propria ansia, la propria inquietudine dinanzi a una richiesta non immediatamente comprensibile, perché non sempre è esplicita la questione che una persona pone quando va dal medico e enuncia qualcosa di un disagio. Il medico non ha attualmente quella formazione per prestare orecchio, per capire di cosa si tratti e quindi la questione viene risolta in termini di apparente richiesta e di reale somministrazione. Per il medico il discorso finisce lì, in particolare per il medico a cui si rivolge la maggior parte delle persone, il medico di base. C’è un problema che, apparentemente, è di quantità di somministrazione dei farmaci, in realtà è un problema di formazione del medico, un problema di qualità della conversazione, del colloquio che il medico può intrattenere con chi lo interpella. È un problema di educazione del cittadino che, a fronte di un disagio che avverte, non può essere ridotto a ritenere che a questo problema debba seguire immediatamente l’assunzione di qualcosa. A fronte di un problema c’è un ragionamento, c’è un’indagine da fare, bisogna capire di che si tratti. Con lo psicofarmaco si toglie questa possibilità di capire, questa possibilità di indagare che è, invece, l’unico modo effettivo per giungere a dissipare il motivo per cui si pone una domanda di aiuto. La domanda di aiuto è importante e non può essere semplicisticamente soddisfatta dalla chimica. Ciascuno che chiede aiuto, lo chiede per una questione intellettuale. Noi questo riteniamo e di questo abbiamo vari indizi. Certamente è una battaglia da fare, una battaglia che riguarda ciascuno e, in particolare, i giovani. Se non c’è un’educazione all’intellettualità verso i giovani, quello che sta accadendo attualmente, cioè il dilagare dell’assunzione di sostanze, non potrà certamente trovare nessuna articolazione, potrà solo incrementarsi. Si tratta di una constatazione e di un motivo in più per giungere a compiere questo progetto di sensibilizzazione e di coinvolgimento, che io credo debba rivolgersi verso la scuola, verso gli insegnanti, verso le istituzioni, verso i medici, verso ciascun cittadino, verso i genitori che non riescono a capire quando un ragazzo, sopraffatto da determinati problemi, anziché rivolgersi a loro per una indicazione, direttamente si rivolge al mercato della droga. Quindi il problema esiste, anche per quanto il presidente Grigoletto accennava poco fa sugli effetti secondari e nocivi dell’abuso di determinati farmaci. Ricordiamo che le benzodiazepine, per esempio, non solamente producono disturbi del sonno, ma i danni epatici non sono più ormai un mistero, danni epatici, danni renali, danni cardiaci. E poi non ci sono solo le benzodiazepine, ma anche i cosiddetti antidepressivi, la cui inefficacia ormai è acclarata.
È sicuramente un messaggio che occorre dare e ritengo che sia urgente stabilire una data, un modo per un convegno, un dibattito, quantomeno, che ponga la questione. In questo primo incontro di ripresa mi sembra anche importante porre la questione del contributo che ciascuno può dare alla qualità della vita, alla qualità dell’istituzione, alla qualità della città non limitandosi a assistere alle cose, ma intervenendo. La nostra associazione organizza incontri, dibattiti, favorisce la divulgazione di libri per la lettura, però auspica anche che vi sia un ulteriore coinvolgimento da parte di chi interviene a questi dibattiti, per collaborare a che vi sia una maggiore divulgazione, una maggiore diffusione delle notizie e degli avvenimenti stessi, anche per una esigenza di diffusione del messaggio e della formazione che procede dalla nostra esperienza. La questione procede dalla domanda, per ciascuno si tratta della domanda. Qual è la domanda in cui ciascuno si trova? Quali sono i termini della domanda e a che cosa si rivolge? In che modo la domanda si rivolge alla questione intellettuale? Questo esige un percorso, esige l’instaurazione di dispositivi; non c’è l’accesso diretto alla conoscenza, al sapere quali siano i termini del disagio che viene avvertito, di un’istanza che viene avvertita, quindi di un’esigenza. Non c’è l’accesso diretto al sapere. In ciascun caso si tratta di un’indagine, di indagare, capire quali sono i termini pulsionali. La questione della domanda è la questione della pulsione e ciò che importa rispetto alla domanda non è la risposta immediata, come abbiamo visto, che in alcuni casi è rappresentata dalla risposta farmaceutica. Ciò che la domanda pone è quindi l’elaborazione di un progetto e un programma di vita. Un progetto e un programma nella cui articolazione e nel cui svolgimento trovino dissipazione le rappresentazioni soggettive, cioè l’idea che ognuno ha di sé, che ognuno ha dell’Altro; idee, queste, che costituiscono limitazioni all’avvenire perché, anche se può sembrare curioso, nessuno ha di sé un’idea migliore di quello che sia. Ciascuno indulge invece a pensarsi molto più limitato, molto più impedito e non c’è chi conosca i propri talenti, che emergono nel momento in cui c’è l’occorrenza: allora, all’occorrenza, ciascuno può fare ricorso ai talenti che non sapeva di avere. Nessuno sa di avere dei talenti, se non quando intervengono pragmaticamente: certo non per magia, non per virtù divina, ma in un dispositivo intellettuale che consenta questo. Ecco la questione della direzione, ecco la questione dell’articolazione di un progetto e di un programma. Elaborare il progetto di vita e il programma di vita consente di dissipare anche la nozione di malattia mentale, cara alla psichiatria dell’Ottocento e che tuttora permane, come mitologia psichiatrica della così detta diagnostica. Anziché capire quale sia l’istanza, quale sia il bisogno, quale sia l’esigenza che qualcuno formula con la sua domanda, oggi l’impostazione medico-psicologica vigente è quella di diagnosticare il disturbo su base psicopatologica. Ma di che cosa si tratta nella psicopatologia? Si tratta di una codificazione che ha il miraggio ideale di risultare universale. Una codificazione universale di una serie di mali che dovrebbero venire attribuiti in ugual misura, nelle differenti parti del pianeta. Questa è la base della psicopatologia e la base della diagnostica oggi ricorrente con il famoso prontuario, noto come DSM III, poi aggiornato come DSM IV. Come notava Uwe Peters, ex direttore della clinica psichiatrica di Colonia, questo miraggio di una lingua universale dei disturbi e della diagnostica impedisce di cogliere la questione linguistica che invece c’è in ciascuna domanda. La questione importante è la questione della lingua, è la questione della parola. La parola con la sua logica, con il suo idioma e la lingua, che non è affatto universale, ma è per ciascuno altra lingua e lingua altra, quindi la lingua con cui le cose si dicono. Ma come si dicono? Non in maniera diretta, ma secondo questo idioma che è la logica particolare, che Freud ha chiamato inconscio, e che non è a cielo aperto. Occorre capire, occorre intendere, occorre affinare l’ascolto e a questo si rivolge la clinica della parola, che non è la diagnostica psicopatologica. È la clinica, cioè l’arte della piegatura, per capire a cosa si rivolge la domanda di ciascuno. È una questione in controtendenza. Mentre la diagnostica psichiatrica, che va verso l’universale, tenta di incanalare questioni differenti in un’unica formulazione diagnostica, per la psicanalisi si tratta proprio del contrario, di cogliere la specificità del singolo caso, perché è impossibile accomunare un caso a un altro. Qual è la particolarità che si enuncia nel singolo caso? Qual è la sua specificità? Qual è la direzione verso cui si tratta di rivolgere ciascuna domanda? Questa è la questione intellettuale, la questione della parola. Questione non nuova, per altro, già Gorgia, uno dei presocratici più interessanti, diceva: “Nulla è tale e, se nulla è tale, nulla è comprensibile da sé”. Ciò che dice Gorgia è interessantissimo e non a caso i presocratici sono stati poi soppiantati da Platone e Aristotele, che hanno invece codificato un’altra filosofia, quella del caso universale.
Nulla è tale e, se nulla è tale, nulla è comprensibile. Per capire occorre analizzare i vari elementi, occorre indagare; questa è dunque anche la questione dell’esigenza di formazione intellettuale che non può essere demandata ai cultori dell’universalità. Quindi, con Gorgia, anche noi diciamo “nulla è tale” e questa è la specificità dell’esperienza cifrematica, la cui formazione clinica, scientifica, artistica, culturale, mira a cogliere la sfumatura, la particolarità che si enuncia nella domanda di ciascuno. Dunque, si tratta di non indugiare in rappresentazioni generiche, generalistiche del disagio. Per ciascuno si tratta di decidere qual è il progetto, qual è il programma da seguire secondo la via pulsionale. Anche la cosiddetta “crisi”, a livello planetario, indica che questo è un momento intellettualmente importante, interessante per i vari settori. È un momento in cui una concezione generale di un sistema di riferimento si sta dissipando, si è dissipata. La questione della crisi è l’indice dell’assenza di sistema di riferimento. Che cosa indica la crisi? Indica che il tempo irrompe in ciascun atto e impedisce una sistematica e esige da ciascuno, quindi, lo sforzo intellettuale. Possiamo anche dire che la crisi indica l’esigenza per ciascuno dell’aritmetica, del numero, ossia della logica particolare. Che cosa dovrebbe garantire un sistema? Dovrebbe garantire la prevedibilità di quel che accade. Nel sistema, che è finito per definizione, importa la calcolabilità e la prevedibilità delle azioni, ma la pulsione non si lascia prevedere, l’inconscio non è prevedibile, nell’infinito della parola questa ipotesi filosofica non può avvenire. La questione dell’intellettualità è anche la questione dell’infinito: non dell’infinito potenziale, ma dell’infinito attuale. Ciascuna cosa si trova nell’infinito, e quindi esige un altro panorama rispetto all’idea di sistema. La questione esige un’elaborazione che riguarda anche il tempo. Che ciascun atto sia attraversato dal tempo comporta che non c’è una verità già data, comporta che nulla sia tale, perché in ciascun atto, in ciascun atto linguistico, in ciascun atto intellettuale, c’è l’intervento del tempo come taglio. Non il tempo come cronologia ma il tempo come taglio, che interviene e comporta la differenza assoluta. È qualcosa con cui non c’è abitudine: il tempo interviene a rompere qualsiasi abitudine. Nella logica predicativa, nella logica cui la filosofia ci ha educato, questo tempo come taglio non c’è. La psicanalisi non si oppone all’irruzione del tempo, ma ogni altra disciplina tenta di costituirsi come antidoto a questa nozione di tempo: ecco perché ciascuna disciplina mira a costituirsi in sistema. Ora la fisica, ora la matematica, ora la logica si trovano a constatare che questa ipostasi del sistema, che dovrebbe avere anche il fondamento che lo determina, è in realtà una costruzione ideale che consentirebbe la padronanza, la padroneggiabilità, la calcolabilità dell’avvenire. Noi non abbiamo questa possibilità di padroneggiare le cose, proprio perché il tempo non è padroneggiabile, l’atto non è padroneggiabile. Però possiamo indagare l’atto, possiamo capire, possiamo intendere: tutto questo può avvenire, nel gerundio, nel gerundio della vita. Non nell’ideale della vita, nel gerundio: vivendo, facendo, parlando, scrivendo, capendo, intendendo. Se non si instaura il gerundio, la vita rimane astratta, rimane un’idealità e ognuno può rappresentarsi come soggetto ipotetico. La questione del gerundio è la questione, effettivamente, del modo di vivere.
Come vivere? Vivendo. C’è chi vorrebbe sapere prima qual è il modo giusto di vivere, come fare per vivere a lungo, come fare per vivere bene. Questa presunzione di conoscenza possibile è la fortuna di tutti i maghi che ipotizzano di poter dare la risposta, e chi ci crede è perduto: impossibile sapere prima. La questione è che non si tratta di sapere; si tratta di capire, di osare, di formulare un’ipotesi di avvenire e di formalizzarla, praticarla e di portarla a compimento, senza indulgere e indugiare sull’idea che possa essere giusta o sbagliata. Perché quest’idea biforcuta comporta l’indugio, comporta l’alternativa, comporta l’attendismo. Siccome non c’è predestinazione, non c’è un destino già dato, per ciascuno si tratta di formulare l’ipotesi dell’avvenire e di portare questa ipotesi a compimento nel gerundio della vita, non ignorando che ciascuna ipotesi, man mano, si precisa. Non è che l’ipotesi sia tale e tale deve mantenersi, nulla è tale. Però occorre osare un’ipotesi, un progetto, un programma e compierlo. Questa è la questione intellettuale. L’educazione alla qualità procede da questo: se c’è chi crede nella predestinazione, se c’è chi crede nella superstizione, che può essere superstizione del bene e superstizione del male, allora questo soggetto è un ipotetico cliente o della droga sacramentale o della droga proibita. La droga sacramentale è lo psicofarmaco, la droga proibita è quella che viene spacciata dal mercato clandestino. Ma chi credesse nella predestinazione, ossia in un destino già dato, costantemente sarebbe sotto l’assillo di quella spada di Damocle che è l’idea di sbagliare, di quello sbaglio morale che impedisce di rivolgersi all’avvenire. È questa la superstizione che occorre elaborare, dissipare attraverso il lavoro intellettuale: l’idea che ognuno ha dinanzi a sé di una strada già segnata e che, uscendo da questa strada, potrebbe sbagliare. Questa è l’idea dello sbaglio morale. In realtà, noi non possiamo che sbagliare, nel senso dello sbaglio di conto, dello sbaglio di calcolo, dell’esigenza, a ogni passo, di rinnovare l’ipotesi dell’avvenire, l’ipotesi di ciò che occorre fare, perché nessuno può stabilire quale sia a priori, ma secondo l’occorrenza nella via pulsionale.
Noi constatiamo questo dalla nostra pratica e quindi, per ciascuno, importa il ritmo in ciò che fa, in ciò che dice, in ciò che ipotizza. Di che cosa si tratta nel ritmo? Si tratta del modo con cui ciò che si dice e ciò che si fa giunge a scriversi, giunge a compiersi. Questo è il ritmo che è secondo l’aritmetica, secondo il numero singolare e triale, cioè secondo quella logica particolare con cui si costituisce l’idioma. L’idioma è ciò che Freud ha chiamato l’inconscio: la lingua particolare, l’idioma particolare con cui le cose si dicono. Ciascuno, parlando, ignora ciò che dice perché, parlando, si dice molto di più di quello che si crede di dire. Occorre ascoltare questa eccedenza nell’equivoco, nella differenza, nel malinteso. È questa la difficoltà dell’ascolto, ma questo è lo specifico dell’esperienza psicanalitica e cifrematica. Per questo divenire psicanalista, divenire cifrematico, comporta una formazione infinita, una formazione che è costantemente in corso, che non ha un termine per poter dire: “Ecco, adesso sono psicanalista, sono cifrematico”. La formazione alla parola è una formazione incessante che si avvale costantemente di acquisizioni, perché nell’infinito non c’è sapere sull’infinito, ma c’è una produzione incessante di sapere effettuale. Questa è la virtù principale dello psicanalista, insieme alla generosità che impedisce di dire: “Sono arrivato, so, so già”. Questa idea è rovinosa per il professionista, per lo scienziato, è rovinosa per ciascuno che si trovi a svolgere un’attività, ma in modo assoluto per lo psicanalista perché, nel momento in cui ritenesse di essere arrivato, si troverebbe a non ascoltare più la sfumatura, a non ascoltare più quel che si dice tra le righe. Si metterebbe invece a origliare e a tradurre nel linguaggio convenzionale, ma, per questo, ci sono già le varie discipline. Mai la psicanalisi potrà diventare una disciplina, perché è un’esperienza specifica della parola originaria. La psicanalisi è stata mal tollerata dai vari regimi, e ancor di più oggi nell’esperienza cifrematica, proprio perché squarcia ogni ideologia, e non avalla nessuna psicoterapia, perché ha come suo orizzonte l’infinito delle cose, una verità che è sempre da trovare, una verità effettuale. La verità è effetto del tempo e non può essere ideologica, già data, cioè una verità fondamentale. È un’altra impostazione, è un’altra cosa. La psicanalisi è l’altra cosa, è la cosa intellettuale, rispetto a dottrine, ideologie, discipline note o meno note. Quindi, noi diciamo che, per quest’anno appena cominciato, la chance per ciascuno è quella di osare un’ipotesi dell’avvenire. Osare, quindi, un progetto, un programma. Osare dissipare l’idea che ognuno ha di sé e che lo avviluppa e provare a camminare nel cielo. Questo è l’augurio e la chance di quest’anno, per ciascuno. Noi siamo qui per osare questo. Abbiamo in calendario alcuni dibattiti e incontri con autori di vari paesi attorno a vari temi: prossimamente, ne faremo uno sul libro Questione cancro; ne seguirà un altro attorno a Medicina di vita e, proseguendo, un altro ancora attorno alla rivista “La cifrematica”, che è giunta al suo sesto numero. C’è anche l’ipotesi di una conferenza molto interessante attorno a Robert Schumann e i tredici giorni prima del manicomio, che sono stati vissuti in una combinazione tra musica e scrittura. Altre ipotesi si formuleranno, ma diciamo che per ciascuno c’è questa chance, c’è questa scommessa di osare un’ipotesi dell’avvenire che, forse, per qualcuno non è ancora giunta a formularsi in maniera chiara e noi puntiamo su questa eventualità.
Queste erano alcune proposte, alcune notazioni per lanciare il dibattito.
Ottava conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto