Cappuccetto rosso
Può accadere che una fiaba costituisca un pretesto per affrontare certe cose. Perché no? Questo è un aspetto che consideriamo sicuramente.
In questi giorni hanno telefonato molte persone per informarsi intorno a questo corso, perché hanno visto in ritardo la locandina, probabilmente perché è giunta dopo, e molte di queste persone ignoravano di cosa si trattasse quanto alla cifrematica: chiedevano che cos’è, cos’è la cifrematica, quali sono le sue caratteristiche. Dunque c’era una curiosità intorno a questo termine. Alcune persone lo cercano nel dizionario, però non lo trovano. Non lo trovano perché effettivamente è un termine recente; non recentissimo, nel senso che ha ormai una quindicina d’anni, però recente. Allora ritengo che sia anche il caso di indicare brevemente che cosa si tratti quanto a questo termine cifrematica, che cosa indica questa parola; parola che non indica una cosa sola, cioè non risponde alla modalità filosofica di dire che cos’è, ma indica piuttosto alcune caratteristiche. Cifrematica indica, in particolare, la scienza, la procedura e l’esperienza della parola originaria. Scienza, procedura, esperienza, ossia tre aspetti della parola, della parola originaria.
Scienza, procedura, esperienza. Questi tre aspetti indicano che non si tratta di una tecnologia, ma di qualcosa che esige un corso, un itinerario per acquisirne i termini. In particolare è questo terzo aspetto, l’esperienza, in cui consiste la psicanalisi. La psicanalisi è l’esperienza della parola originaria, esperienza che procede dalla logica particolare, dalla logica della parola. Logica della parola che possiamo anche indicare come logica del due e logica del tre, logica diadica e logica singolare triale. In particolare si tratta di una logica diadica, da cui procedono altre logiche singolari triali, e l’ambiente di questa logica è l’infinito, l’infinito attuale. Diciamo che la conseguenza della logica diadica, da cui procedono logiche singolari triali, è che non ci sono più l’inizio e la fine come figure della morte. L’inizio e la fine delle cose, nell’infinito, acquistano un altro valore, un’altra indicazione: non c’è più la sostanza delle cose, non c’è più la sintesi delle cose, quella ricomposizione nell’unità che la gnosi prescrive come fine, come conclusione prescritta. Ma in questa natura delle cose, in questa logica, in questa procedura, importa invece la ragione; quali sono le ragioni di vita, le ragioni di salute, le ragioni della distinzione, le ragioni della differenza, le ragioni dell’Altro. Le ragioni in direzione della qualità. Le cose non finiscono, ma vanno in direzione della qualità. Questo è il tragitto, l’itinerario. Quindi, importa l’esperienza originaria per ciascuno: esperienza di formazione, di acquisizione dei termini, dei modi, delle ragioni. In questo sta l’itinerario: itinerario di formazione, itinerario di acquisizione, itinerario dell’esperienza.
In questo itinerario risalta un’accezione nuova di clinica, la clinica della parola, clinica come compimento della scrittura. Clinica non già nell’accezione del catalogo dei beni e dei mali, in particolare dei mali soggettivi, ma clinica, [da clinein, verbo greco che significa “piegare”. N.d.r.] ossia quale piega ciascuna cosa incontra in direzione della sua qualifica, della sua qualità; dove l’anomalia non è da correggere a favore della normalità o a favore di una correzione, ma è da intendere, per cogliere la caratteristica, la peculiarità, il modo particolare con cui si rivolge alla qualità. Questa è la difficoltà, la difficoltà dell’ascolto, la difficoltà della ricerca. Dunque, in questa accezione di clinica, si dissipa il concetto di comportamento. Una delle tentazioni maggiormente in voga in quest’epoca è la tentazione sostanzialistica, ossia quella di potere acquisire la conoscenza per applicarla, la conoscenza delle cose per potere, in base a questa conoscenza, comportarsi, comportarsi in conseguenza della conoscenza.
La psicanalisi, la natura della psicanalisi, pone in questione proprio questa tentazione sostanziale, cioè di potere, per così dire, imparare il know-how, la conoscenza, e di applicarlo volta per volta, praticamente di sapere come fare a prescindere dal caso in questione, come se ogni caso potesse avvalersi della conoscenza. In questo senso, una delle indicazioni della psicanalisi è che non c’è conoscenza, ma il processo di acquisizione comporta un’effettualità del sapere, che di volta in volta è inedito, è nuovo; ciascun caso esige di venire considerato per la sua particolarità e per la sua qualità e per la novità che introduce.
È in questa direzione che leggiamo queste fiabe: non per trarne una morale, ma per cogliere, nel testo, nel materiale che propongono, alcune indicazioni riguardo a questa logica della parola. Dicevamo la volta scorsa che la fiaba di Hänsel e Gretel ha la struttura di una fantasia; la fantasia di una bambina che attua la messa a morte della madre, nella forma della matrigna e nella forma della strega, per conseguire un ideale incesto con il padre e dunque sostituendosi alla madre stessa. Gretel realizza la madre ideale con il matricidio, ossia si ritiene la vera madre. Questa fantasia di Gretel è una fantasia intorno alla famiglia di origine, cioè intorno a una famiglia naturale, ossia intorno alla famiglia animale. Questa origine, questa naturalità, questa animalità, dovrebbe significare anche il destino di Gretel, cioè il destino sarebbe una conseguenza di questa origine. Nella fantasia di Gretel la madre suggerisce la via facile e Gretel la realizza con l’incesto: l’incesto sarebbe la realizzazione della via facile.
Di cosa si tratta nella fiaba? La fiaba avvia il racconto della storia fino alla saga, ossia fino alla famiglia non naturale; questo racconto si avvia con la fiaba, con il materiale che è fornito dalla materia stessa della parola, ma quando ancora persistono queste credenze intorno all’origine, all’animale, all’animalità, alla naturalità della famiglia stessa, quindi intorno alla genealogia, a una genealogia che dovrebbe fornire il segno, il segno dell’essere. Nella fiaba c’è il materiale della parola, ma predomina un fantasma di padronanza, di controllo, di morte. Questo fantasma di padronanza, fantasma di morte, in cifrematica lo chiamiamo “fantasma materno”, cioè il fantasma della fine certa delle cose, fantasma di fine significata dall’origine, fantasma di circolarità. Sarà interessante condurre una ricerca, eventualmente, intorno al modo con cui la psicopatologia si avvale di questa circolarità ma, anziché indagarla come fantasma, come struttura fantastica, la propone come modo dell’essere, la certifica come male, e dunque come malattia, facendone una caratteristica soggettiva, la caratteristica del soggetto.
Ciascuna fiaba pone l’accento su come vanno a finire le cose. “Come andrà a finire?”. “Come va a finire?”. Questa domanda è ispirata dal fantasma materno, che predilige la fine delle cose rispetto al loro corso, al loro svolgimento, alla vicenda, rispetto all’andare e venire. Per il fantasma materno le cose non vanno e vengono, ma vanno a finire, vanno e basta. Vanno dove? Verso la fine. Il fantasma materno è senza fede, è negazione della fede, cioè dello spirito pragmatico, è la negazione della ragione delle cose e anche del modo. In quale modo fare questa cosa? Ecco, il fantasma materno nega che ci sia un modo, perché le cose vanno a finire, e finiscono comunque. E questo è l’accento che pone Gretel: le cose finiscono. Una variante di come finiscono le cose è data per esempio dalla domanda: “Quanto dura?”. “Quanto dura quella cosa?”. Cioè, “quando finisce?”. È un altro modo per porre la questione della fine, senza svolgimento, togliendo l’aspetto della vicenda, dell’itinerario, del modo, togliendo la temporalità a favore di un “essere” ideale.
Per ogni vivente, diciamo così, la storia non è già data, non è già scritta, non è già assegnata, non è già avvenuta. Questa è la credenza che Gretel attribuisce alla matrigna, alla strega; alla madre come matrigna o come strega. Questa è la credenza che istituisce il soggetto come soggetto del destino, della morte, del fatalismo, cioè come soggetto che deve assecondare il suo destino presunto o che deve ribellarsi al suo destino. Soggetto conformista o soggetto anticonformista che, in entrambi i casi, deve confermare l’esistenza di un fatto. Perché conformismo e anticonformismo sono due facce della stessa medaglia, la medaglia della predestinazione, predestinazione o naturalismo.
Infatti Gretel, nella sua predestinazione, nel suo naturalismo, si affida al bosco, va nel bosco e, nel bosco, le cose hanno il segno negativo, il segno del male. Gli animali sono feroci, qualche santo provvederà; nel bosco, qualche santo provvederà. Cioè, il bosco è la negazione di un dispositivo intellettuale, di un dispositivo artificiale, un dispositivo dato dalle ragioni dell’Altro, dalle ragioni della parola. Hänsel, invece, non si affida al bosco. Abbiamo visto che a Hänsel non viene mai meno lo spirito pragmatico, ossia la fede e si attrezza, ciascuna volta, e non si lascia sovrastare dal fantasma materno. Hansel, nella fiaba, già introduce un elemento di saga, ossia di famiglia artificiale, perché sospende la credenza naturalistica nel destino infausto, nella via facile, nel dispositivo naturale. E come finisce questa favola, questa fiaba? Abbiamo visto: “Così finirono tutti i guai e i tre vissero insieme felici e contenti”. Cioè i guai devono finire, questa è la prescrizione morale: ci sono i guai, ma poi devono finire. C’è il male, ma poi il male deve finire e convertirsi nel bene. Quindi bisogna aspettare che i guai finiscano, per vivere “…insieme felici e contenti”. Possiamo dire che questo è l’enunciato della morte bianca, cioè l’attesa che i guai finiscano. Nel bosco, con molta pazienza, i guai possono finire.
Ma cosa sono i guai? Di che cosa si tratta quanto ai guai? Il guaio. Cosa sarebbe il guaio? “Vae victis”, “Guai ai vinti”, è la minaccia: minaccia di morte, di punizione, di castrazione, di castigo, di vendetta, la minaccia che viene dalla voce grossa, ossia dal soggetto agente, da un soggetto per un altro soggetto. Nella fiaba, il guaio è il pretesto per lasciarsi andare, per confermarsi soggetto, soggetto della fiaba, soggetto della predestinazione, soggetto naturale. Nella novella il guaio è il pretesto per l’instaurazione di un dispositivo artificiale, dunque è il pretesto per la clinica. Il guaio diviene circostanza, nella novella, indica l’anfibologia del materiale, ma senza dicotomia. Quando invece si afferma la dicotomia, la dicotomia fra il bene e il male, allora il guaio diventa, per così dire, il segno della conferma che la predestinazione si è compiuta, è la conferma del soggetto. Quello che in un primo momento può sembrare negativo, proseguendo la vicenda può volgersi in scrittura, in esperienza, in acquisizione, in qualità, cioè altro può entrare come materiale dell’esperienza. Chi invece considera il guaio in quanto tale, si ferma dinanzi al guaio e lo prende come la prova, il segno, il fatto. Il guaio è un modo dell’apertura, per Hänsel, cioè è un modo della relazione, è qualcosa che non significa, ma a partire da cui procede la sua ricerca, aguzza l’ingegno. Non si tratta né di togliere i guai, né di confermarli, né di aspettare che finiscano, perché il guaio è un modo del due, è un modo dell’anfibologia, è un modo del bene-male.
Questa fiaba dice, fra le altre cose, che il materiale fiabesco è materiale fantasmatico e, come tale, ha l’eventualità di svolgersi, sia per quel che riguarda le fiabe note sia per quanto riguarda la fiaba che ciascuno, o meglio che ognuno, può raccontare di sé.
Qual è la fiaba che ognuno si rappresenta per sé? E in che modo ognuno, a partire dalla sua fiaba, può incontrare un’altra cosa, un’altra vicenda? A partire dalla presunta famiglia d’origine ognuno può incontrare la famiglia originaria, dunque un’altra famiglia, senza il segno del male o il segno del bene che possa rappresentarlo, che possa segnarlo e che possa dunque incombere, come minaccia o come premio, sul suo progetto.
Oggi verifichiamo qual è il materiale e quali sono le indicazioni che vengono da un’altra fiaba, ossia Cappuccetto Rosso, di cui esistono almeno due versioni: la versione di Perrault e la versione dei fratelli Grimm. Oggi consideriamo quella dei fratelli Grimm.
R.C. Allora: C’era una volta una cara ragazzina; solo a vederla le volevan tutti bene, e specialmente la nonna, che non sapeva più cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso, e, poiché le donava tanto ch’essa non volle più portare altro, la chiamarono sempre Cappuccetto Rosso. — Il segno della nonna, Cappuccetto Rosso — Un giorno, sua madre le disse: “Vieni, Cappuccetto Rosso, — anche la mamma la chiamava Cappuccetto Rosso — eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e si ristorerà. Mettiti in via prima che faccia troppo caldo; e, quando sei fuori, va’ da brava, senza uscir di strada; se no, cadi e rompi la bottiglia e la nonna resta a mani vuote. E quando entri nella sua stanza, non dimenticare di dir buongiorno invece di curiosare in tutti gli angoli’’. — È una mamma coscienziosa, che dice a Cappuccetto Rosso come deve fare — “Farò tutto per bene”, disse Cappuccetto Rosso alla mamma, e le diede la mano. Ma la nonna abitava fuori, nel bosco, a una mezz’ora dal villaggio. E quando giunse nel bosco, Cappuccetto Rosso incontrò il lupo. Ma non sapeva che fosse una bestia tanto cattiva, e non ebbe paura”.
Nonostante la mamma, nonostante la nonna, Cappuccetto Rosso non ha paura. Sembra strano, ma è così. E non ha paura nemmeno del lupo, perché non sa della sua cattiveria, la ignora; ignorando, non ha paura. È preciso qui. Ignorando, non ha paura del lupo. Quando s’instaura la paura? Quando c’è chi sa del lupo, cioè quando si è affermato il pericolo, quando il guaio è diventato pericolo, quando la minaccia di guaio diventa minaccia di pericolo e addirittura diventa pericolo senza minaccia: diventa conoscenza del pericolo, conoscenza del male. Quando il male è conosciuto, allora c’è la paura: come dire che, senza conoscenza del male, non c’è nemmeno la paura. E quando c’è la conoscenza del male? Quando bene-male non costituiscono più ossimoro, ossia modo dell’apertura, ma bene e male diventano coppia oppositiva in quanto è intervenuta la dicotomia, ovvero quando il bene diventa il contrario del male, l’opposto del male, cioè quando diventano segni di qualcosa; e diventano segni di qualcosa quando viene attuata questa dicotomia, quando la diade bene-male viene sottoposta al taglio e viene scissa nel bene e nel male. Questa sarebbe la conoscenza.
Come si attua la conoscenza? Sottoponendo la diade al taglio, facendo della diade due cose, mentre la diade non è due cose: è una cosa sola, che è sia bene sia male, bene-male, ossimoro. Nel momento in cui bene-male diventano un’alternativa tra loro, allora il guaio è dinanzi a noi, il guaio è certo, è sicuro; il guaio diventa così un elemento dell’esperienza, cioè un elemento per la paura. Invece Cappuccetto Rosso, che non aveva questa forma di conoscenza, non era soggetta a questa forma di conoscenza, incontra il lupo:
“Buon giorno, Cappuccetto Rosso”, egli disse. “Grazie, lupo”. “Dove vai così presto, Cappuccetto Rosso?”. “Dalla nonna”. “Cos’hai sotto il grembiule?”. “Vino e focaccia: ieri abbiamo cotto il pane; così la nonna, che è debole e malata, se la godrà un po’ e si rinforzerà”. “Dove abita la tua nonna, Cappuccetto Rosso?”. “A un buon quarto d’ora di qui, nel bosco, sotto le tre grosse querce; là c’è la sua casa, è sotto la macchia di noccioli, lo saprai già”, disse Cappuccetto Rosso. Il lupo pensava: “Questa bimba tenerella è un grasso boccone, sarà più saporita della vecchia; se sei furbo, le acchiappi tutt’e due!”.
Fece un pezzetto di strada vicino a Cappuccetto Rosso, poi disse: “Vedi, Cappuccetto Rosso, quanti bei fiori? perché non ti guardi intorno? Credo che non senti neppure come cantano dolcemente gli uccellini! Te ne vai tutta contegnosa, come se andassi a scuola, ed è così allegro fuori nel bosco!”. — Era un lupo che la sapeva lunga anche sulla scuola — Cappuccetto Rosso alzò gli occhi e quando vide i raggi di sole danzare attraverso gli alberi, e tutto intorno pieno di bei fiori, pensò: “Se porto alla nonna un mazzo fresco, le farà piacere; è tanto presto che arrivo ancora in tempo”. Dal sentiero corse nel bosco in cerca di fiori. — Quindi era nel sentiero. Esce dal sentiero per cogliere i fiori — E, quando ne aveva colto uno, credeva che più in là ce ne fosse uno più bello e ci correva e si addentrava sempre più nel bosco. Ma il lupo andò difilato alla casa della nonna e bussò alla porta. — Un lupo educato — “Chi è?”. “Cappuccetto Rosso, che ti porta vino e focaccia, apri”.
“Alza il saliscendi — gridò la nonna — io son troppo debole e non posso levarmi”. Il lupo alzò il saliscendi, la porta si spalancò e, senza dir motto, egli andò dritto al letto della nonna e la ingoiò. Poi mise le sue vesti e la cuffia, si coricò nel letto e tirò le cortine.
Ma Cappuccetto Rosso aveva girato in cerca di fiori, e quando n’ebbe raccolti tanti che più non ne poteva portare, si ricordò della nonna e s’incamminò. Si meravigliò che la porta fosse spalancata, ed entrando nella stanza ebbe un’impressione così strana che pensò: “Oh, Dio mio, oggi, che paura! e di solito sto così volentieri con la nonna!”. — Quindi del lupo non aveva paura, della nonna sì. Curioso questo fatto! Vede la nonna e dice: “Oh, che paura!”. — Esclamò: “Buon giorno!”, ma non ebbe risposta. Allora s’avvicinò al letto e scostò le cortine: la nonna era coricata, con la cuffia abbassata sulla faccia e aveva un aspetto strano.
“Oh, nonna, che orecchie grosse!”. “Per sentirti meglio”. “Oh, nonna, che occhi grossi!”. “Per vederti meglio”. “Oh, nonna, che grosse mani!”. “Per meglio afferrarti”. “Ma, nonna, che bocca spaventosa!”. “Per meglio divorarti!”. E subito il lupo balzò dal letto e ingoiò il povero Cappuccetto Rosso.
Saziato il suo appetito, si rimise a letto, s’addormentò e cominciò a russare sonoramente. Proprio allora passò lì davanti il cacciatore e pensò: “Come russa la vecchia! devo darle un’occhiata, potrebbe star male”. Entrò nella stanza e, avvicinatosi al letto, vide il lupo. “Eccoti qua, vecchio impenitente, — disse — è un pezzo che ti cerco”. — Il cacciatore cercava il lupo da un pezzo — Stava per puntare lo schioppo, ma gli venne in mente che il lupo avesse mangiato la nonna — chissà com’è, pensa proprio quello, che il lupo ha mangiato la nonna — e che si potesse ancora salvarla: non sparò, ma prese un paio di forbici e cominciò a tagliare la pancia del lupo addormentato. Dopo due tagli, vide brillare il cappuccetto rosso, e dopo altri due la bambina saltò fuori gridando: “Che paura ho avuto! Com’era buio nel ventre del lupo!”.
Poi venne fuori anche la vecchia nonna, ancora viva, benché respirasse a stento. E Cappuccetto Rosso corse a prender dei pietroni, con cui riempirono la pancia del lupo; e quando egli si svegliò fece per correr via, ma le pietre erano così pesanti che subito s’accasciò e cadde morto.
Il lupo muore non perché gli hanno aperto la pancia, ma perché ha le pietre, ha le pietre in pancia.
Erano contenti tutti e tre. — Anche qui tutti e tre contenti — Il cacciatore scuoiò il lupo e si portò via la pelle; la nonna mangiò la focaccia e bevve il vino che aveva portato Cappuccetto Rosso, e si rianimò; ma Cappuccetto Rosso pensava: “Mai più correrai sola nel bosco, lontano dal sentiero, quando la mamma te l’ha proibito”.
Cosa può capitare, eh, quando la mamma ti proibisce una cosa e tu la fai lo stesso? Può capitare una tragedia: la nonna muore, il lupo lo stesso, il cacciatore…
Tutti erano contenti… quindi non erano proprio tutti e tre contenti. Due erano contenti, mentre Cappuccetto Rosso dice: “Uhm, mai più correrai sola nel bosco quando la mamma te l’ha proibito”. E comunque c’è una postilla. Non finisce qua.
Voi sapete che il testo di queste fiabe non è un’invenzione dei fratelli Grimm, è racconto e, quindi, c’è anche un’altra versione.
Raccontano pure che una volta Cappuccetto Rosso portava di nuovo una focaccia alla vecchia nonna, e un altro lupo volle indurla a deviare. — Questa aveva proprio una particolarità: incontrava il lupo ogni volta — Ma Cappuccetto Rosso se ne guardò bene e andò diritta per la sua strada, e disse alla nonna di aver incontrato il lupo, che l’aveva salutata, ma l’aveva guardata male.
L’aveva guardata male! Le aveva messo un malocchio! L’aveva guardata male, con occhio malo.
“Se non fossimo stati sulla pubblica via, mi avrebbe mangiato”. “Vieni — disse la nonna — chiudiamo la porta, perché non entri”.
Poco dopo il lupo bussò e gridò: “Apri nonna, sono Cappuccetto Rosso. Ti porto la focaccia”.
Era un lupo che era rimasto alla storia precedente, quando Cappuccetto Rosso usciva dal sentiero.
Ma quelle, zitte, non aprirono; allora Testa Grigia gironzolò un po’ intorno alla casa e infine saltò sul tetto, per aspettare che Cappuccetto Rosso, la sera, prendesse la via del ritorno; l’avrebbe seguita di soppiatto per mangiarsela al buio. Ma la nonna si accorse di quel che tramava.
Si accorse, come dire che la nonna sapeva; la nonna sapeva. Come si accorge la nonna? Come fa la nonna ad accorgersene?
Davanti alla casa c’era un grosso trogolo di pietra, ed ella disse alla bambina: “Prendi il secchio, Cappuccetto Rosso, ieri ho cotto le salsicce, porta nel trogolo l’acqua dove han bollito”. Cappuccetto Rosso portò l’acqua, finché il grosso trogolo fu ben pieno. Allora il profumo delle salsicce salì alle nari del lupo, egli si mise a fiutare e a sbirciare in giù, e alla fine allungò tanto il collo che non poté piú trattenersi e cominciò a sdrucciolare: e sdrucciolò dal tetto proprio nel grosso trogolo e affogò. Invece Cappuccetto Rosso tornò a casa tutta allegra e nessuno le fece del male.
Cappuccetto Rosso la vince sempre con il lupo, grazie alla nonna o grazie al cacciatore. Allora, come si diceva: Stretta è la foglia, larga è la via, dite la vostra che ho detto la mia. Stretta è la foglia, larga è la via. Nella fiaba, la via è larga, cioè è facile. È facile la via. C’è la via facile nella fiaba, la via larga. Cappuccetto Rosso non ha nessuna intenzione, né buona né cattiva. Crede a alcune cose, fantastica alcune cose, fantastica un incontro con il lupo. Non c’è conoscenza del lupo. Non c’è conoscenza. “Non conosco uomo”, dice Maria e Cappuccetto Rosso, altrettanto, dice: “Non conosco lupo”. Non conosco lupo, però fantastica di incontrarlo. La fiaba indica che il fatto è fantasmatico, non sussiste. Non c’è conoscenza del fatto, e dunque nemmeno del male e del bene, nonostante che la mamma indichi il pericolo del bello e del buono; la mamma ammonisce Cappuccetto Rosso di stare attenta a ciò che è bello, di guardarsi da ciò che è bello: “…va’ da brava, senza uscir di strada…”. Il lupo è l’altra faccia della raccomandazione; è la faccia del pericolo della raccomandazione materna. “Quanti bei fiori, perché non ti guardi intorno?”. Questa fiaba mette in evidenza il pericolo del bello, non il pericolo del lupo, ma il pericolo del bello e del buono. Sarebbe da indagare Perrault intorno al pericolo del vero. E questo, perché? Perché c’è un’influenza della morale tedesca e francese che pongono l’accento proprio su questi due aspetti del vero e del bello. Quindi qui c’è il pericolo del bello.
Qui abbiamo questo testo, dove la questione è la stessa e chiaramente il lupo è la creazione fantastica della raccomandazione materna, quindi del pericolo evocato dalla raccomandazione materna. Pericolo del bello che si combina con una fantasia sessuale che interviene come divorazione, come fantasia di violenza attraverso la divorazione, di venire divorata dal lupo. Cappuccetto Rosso e la nonna vengono divorate dal lupo. Il lupo va a letto con la nonna per divorarla; Cappuccetto Rosso a letto con il lupo, divorata. C’è chiaramente una fantasia sessuale attraverso la divorazione, dunque una fantasia isterica di violenza sessuale.
Nella seconda visita alla nonna, la nonna conferma la madre: conferma che il lupo è pericoloso, il lupo divora; conferma che l’incontro è sessuale, conferma l’idea di un pericolo. In questo caso, la nonna conferma la mamma. Nel primo caso è il lupo che conferma la mamma. Il lupo è una creatura fantastica, evocata dalle raccomandazioni materne, che conferma le raccomandazioni, conferma il pericolo evocato, ma rispetto a un’altra cosa. Cappuccetto Rosso ha inteso che ciò a cui si riferiva la mamma era un pericolo sessuale, infatti, nella versione che lei dice “per bambini”, viene tolto l’equivoco. Dice: “Non raccogliere i fiori”. Ma la mamma dice: “Non ti fermare con gli estranei. Vai dritta! Non lasciare il sentiero, non si sa mai cosa può capitare!”. E Cappuccetto Rosso dice: “Può capitare che il lupo mi vede, mi trova piacevole, mi guarda male e magari mi mangia”. Cappuccetto Rosso si rappresenta questo incontro sessuale.
Qui si tratta di fiaba, cioè di qualcosa che raccoglie una fantasia materna, che indica un fantasma di padronanza o di morte intorno, in questo caso, alla sessualità, o intorno a qualcosa. Perché l’equivoco è che c’è di mezzo un bambino, Cappuccetto Rosso, apparentemente una bambina. Non vuole dire che automaticamente è diretta ai bambini, se non come modo della tradizione materna di mantenere l’idea del pericolo. L’ideologia familiare, la genealogia di una determinata famiglia e una certa impostazione, sono chiaramente un modo per tramandare oralmente una ideologia intorno alla famiglia, intorno a una morale che indica che “queste cose non si fanno”. E che non si fanno sulla pubblica via, non si fanno nemmeno nella casa della nonna. Non si devono fare.
C’è un animale fantastico che indica l’anfibologia del bene e del male: non è tutto male, non è tutto bene. Non è tutto male, perché l’incontro col lupo può anche riservare… Non è tutto bene, perché poi finisce in pancia. È una fantasia sessuale intorno a da dove vengono i bambini, e vengono chiaramente dalla pancia della nonna, della mamma, attraverso i buoni uffici del cacciatore. Come arrivano lì?
Il fatto è che il bene, così come il male, non è attribuibile, né al padre né alla madre né al figlio. Il figlio non è né figlio buono né figlio cattivo, così come il padre non è né buono né cattivo, così come la madre, perché il bene e il male non entrano nell’esperienza. Nel momento in cui bene e male sono attribuiti all’esperienza e quindi alle cose dell’esperienza, ebbene, abbiamo già la dicotomia, abbiamo l’essere delle cose, che possono essere buone o malvagie, positive o negative. La questione della genealogia, cioè dell’inscrizione del bene e del male nell’esperienza, è proprio questa: di attribuire un segno alle cose. Alle cose, quindi, anche a sé e agli altri.
“Che paura ho avuto! Com’era buio nel ventre del lupo!”. Dopo il taglio, dopo la dicotomia, dopo l’esercizio della conoscenza, allora bene e male diventano segni, significano le cose, e, allora, la paura. È interessante: anche Adamo, dopo aver mangiato la mela, si accorse di essere nudo e ebbe paura. Udì i passi di Dio e ebbe paura; dopo avere mangiato la sostanza, cioè dopo il taglio, dopo che l’albero del bene-male diventa l’albero del bene o del male, dopo che il gesto realizza la dicotomia, cioè l’alternativa esclusiva. È curioso che dopo due tagli e dopo altri due tagli, dopo il taglio, allora la paura. Dopo il taglio, non già come taglio del tempo, ma come taglio del soggetto, dopo che il soggetto ha squarciato il ventre del lupo, cioè dopo un esercizio della padronanza, dopo che il soggetto tenta la padronanza sul taglio, s’instaura la paura. È un’indicazione procedurale questa: come avviene che s’instaura la paura? Esattamente soggettivizzando il tempo.
Il cacciatore che taglia il ventre. Si tratta dell’assunzione del taglio da parte del cacciatore, dunque da parte di un soggetto che taglia. Se il taglio, anziché essere il taglio del tempo, è il taglio del soggetto, ecco la paura, perché è il taglio della dicotomia. Il taglio soggettivo è il taglio dicotomico, è il taglio dell’alternativa esclusiva, è il taglio di chi dice: “Questa cosa è bene o è male? Che io faccia questa cosa, è bene o è male?”, per cui è il taglio di chi ha introdotto nella sua esperienza l’alternativa esclusiva e, quindi, ha introdotto la possibilità di bene o la possibilità di male. Questa possibilità causa la paura.
La questione che si pone qui è interessante perché, una volta che Cappuccetto Rosso esce dal ventre del lupo, ha paura, mentre prima non ce l’ha. Allora esce dal ventre del lupo, con questa operazione ostetrica, come soggetto, come soggetto della paura. E il cacciatore è in questa funzione, in qualche modo introduce alla soggettività. È un dettaglio che si può svolgere ulteriormente. In qualche modo, curiosamente, questo lupo ha una funzione umanizzante. La combinazione tra il lupo e il cacciatore ha una funzione umanizzante.
Allora la prossima volta ci aspetta Rosaspina.
Seconda conferenza della serie La lettura delle fiabe