Barbablù e Il gatto con gli stivali ( seconda parte )
Il gatto con gli stivali ( seconda parte )
“Brava gente che falciate, se non dite al Re che questo prato appartiene al signor Marchese di Carabas, sarete tutti triturati a pezzettini come carne di polpette!”. Il Re non tardò a chiedere ai falciatori di chi fosse il prato che stavano falciando. “È del signor Marchese di Carabas”, risposero a una voce, perché la minaccia del Gatto li aveva molto impauriti. “Avete una bella proprietà”, disse il Re al Marchese di Carabas.
“Come dite voi, maestà, — rispose il Marchese — infatti è una prateria che ogni anno non manca di fruttarmi un buon raccolto.” Il bravo gatto, che continuava a far da battistrada, incontrò dei mietitori e disse loro: “Brava gente che mietete, se non dite che tutto questo grano appartiene al signor Marchese di Carabas, sarete tutti triturati a pezzettini come carne da polpette”.
Il Re, che passò subito dopo, volle sapere a chi appartenessero tutti i campi di grano che vedeva. “Al signor Marchese di Carabas”, risposero i mietitori, e il Re si rallegrò nuovamente col marchese. Il Gatto, che correva sempre avanti alla berlina, continuava a dire la stessa cosa a tutti quelli che incontrava; e il Re rimaneva meravigliato degl’immensi possedimenti del Marchese di Carabas.
Il bravo gatto — è sempre bravo il gatto, è un bravo gatto — arrivò finalmente davanti a un bel castello il cui padrone era un orco, il più ricco che mai si sia veduto; infatti, tutte le terre che il Re aveva attraversate erano alle dipendenze di quel castello. Il Gatto cercò subito di sapere chi era quell’orco e che cosa faceva e, saputolo, chiese di parlargli, dicendo che non aveva voluto passare così vicino al suo castello, senza aver l’onore di venirlo ad ossequiare. L’Orco lo ricevette con tutta la cortesia che può avere un orco, e lo fece accomodare. “M’hanno assicurato disse il Gatto” — è curioso: quando dice “bravo gatto” è scritto minuscolo, quando dice “il Gatto” è maiuscolo. Allora, il Gatto, che in questo caso è maiuscolo, dice: — “che voi avete il dono di cambiarvi in ogni specie d’animale, — sarebbe il dono di trasformarvi in ogni specie d’animale — e potete, per esempio, trasformarvi in leone o in elefante”. “È verissimo! — rispose l’Orco bruscamente — e per darvene una prova mi vedrete diventare leone”.
Il Gatto fu così spaventato di vedersi un leone davanti che raggiunse al più presto le grondaie, non senza fatica né pericolo per via degli stivali che, per camminare sulle tegole, non valevano proprio nulla. Di lì a poco, il Gatto, avendo visto che l’Orco aveva ripreso il suo primo sembiante, scese giù dal tetto e confessò di aver avuto una bella paura. “Mi hanno assicurato, — disse il Gatto, — ma non riesco a crederlo, che avete anche il potere di prendere la forma dei più piccoli animali, per esempio di cambiarvi in un topo, o in un sorcetto; vi confesso che la cosa mi sembra assolutamente impossibile”. “Impossibile? — rispose l’Orco — adesso lo vedrete!”.
Nel dir così, si trasformò in un sorcio che cominciò a correre per la stanza. Il Gatto, non appena l’ebbe scorto, gli si gettò addosso e lo mangiò.
Intanto il Re, che passando vide il bel castello dell’Orco, volle entrare a visitarlo. Il Gatto, udendo i rumori della berlina che passava sul ponte levatoio, corse incontro al Re e gli disse: “La maestà vostra sia la benvenuta nel castello del signor marchese di Carabas”. “Ma come, Marchese! — esclamò il Re, — anche questo castello è roba vostra! Nulla è più bello di questo cortile e di tutti i fabbricati che lo circondano; si può vederlo dentro, se vi aggrada?”.
Il Marchese dette la mano alla giovane principessa, e seguendo il Re che era salito per primo, entrarono in un salone ove trovarono imbandita una splendida merenda che l’Orco aveva fatto preparare per certi suoi amici; essi dovevano venire a trovarlo proprio in quel giorno ma, sapendo che il Re vi si trovava, non avevano osato entrare. Il Re era entusiasta delle belle doti del Marchese di Carabas, così come sua figlia n’era pazza, e vedendo i grandi possedimenti di lui, gli disse, dopo aver bevuto quattro o cinque bicchieri: — eh, il re! — “Signor Marchese, se volete diventar mio genero, dipende solo da voi”. Il Marchese, con mille riverenze, accettò l’onore che il Re gli faceva e quel giorno stesso sposò la Principessa. Il Gatto divenne un gran signore e seguitò ad andare a caccia di topi solo per divertimento.
E qui termina la fiaba, peraltro con una morale. Cosa dice la morale?
Certamente è una gran comodità godere di una ricca eredità che da padre discende e a figlio viene. Ma ai giovani più giova esercitare l’industria e il saper fare che usar d’un bene avuto senza pene.
Questa è la morale della favola, che non tiene conto della fiaba, tiene conto della morale. Poi c’è un’altra morale:
Se il figlio d’un mugnaio così rapidamente può d’una principessa acquistar cuore e mente, sì da avere da lei le più languide occhiate, è che l’abito e il fior di giovinezza sono, per ispirar la tenerezza, l’armi meglio temprate.
Se il figlio di un mugnaio può acquistare cuore e mente di una principessa è per via dell’abito e della giovinezza, che sono le armi meglio temprate per ispirare la tenerezza. Quest’altra morale è già più vicina alla fiaba. La prima, sicuramente non c’entra gran che. Allora, come dicevano una volta: “Larga è la foglia, ma stretta è la via” …. Ci sono notazioni intorno alla fiaba del Gatto con gli stivali?
Chi è questo gatto della fiaba? C’è chi ha delle proposte da fare intorno al gatto? Questo gatto così intraprendente da dove viene?
Com’è la questione? C’è il mugnaio, che ha tre figli. Questa, praticamente, è la fiaba del terzo figlio, il figlio minore, sarebbe il figlio sfortunato, il figlio trascurato.
E questo gatto cosa fa? Dà consigli, ma sopra tutto inventa il Marchese di Carabas. Chi è il Marchese di Carabas? È un’invenzione del gatto. Qui lo dice chiaro e tondo: “Ecco qui maestà — dice il gatto al re nella prima visita — un coniglio di conigliera, che il signor marchese di Carabas, questo era il nome che gli era saltato il ticchio di dare al suo padrone…”. Quindi il gatto inventa il Marchese di Carabas e, da quel momento, il Marchese di Carabas esiste e funziona. S’istituisce un dispositivo attorno al Marchese di Carabas, attorno a questo nome, un dispositivo fatto di terre, possedimenti, persone che lavorano, un castello, una principessa, un re. Questo nome che comincia a funzionare non è senza effetti. C’è da una parte il figlio trascurato, il figlio non considerato, il più sfortunato, che non si dava pace per avere avuto una parte così misera… Da una parte c’è il figlio misero, che però non si dà pace, cioè non si rassegna. Non si rassegna e, non rassegnandosi…
Quindi da una parte il figlio sfortunato e dall’altra il gatto, il bravo gatto, il gatto intraprendente, il gatto a partire da cui si instaura il Marchese di Carabas. Allora chi è il gatto? Questo gatto da dove viene? Come arriva a fare queste cose?
Questa è una fiaba, non è uno strumento di organizzazione sociale e nemmeno uno strumento per la morale, ma è una fiaba. Allora, se noi la leggiamo ideologicamente, diventa terreno per l’organizzazione sociale; così, però, trascuriamo il materiale della fiaba con le sue indicazioni logiche, la quale ha una virtù che non deve andare verso il bene o verso il male, ma indica una traiettoria verso la qualità. Ora, una questione che mi pare importante è il nome “Marchese di Carabas”, a partire da cui s’istituiscono degli effetti, seguono delle cose. Ci sono due momenti. C’è un momento in cui prevale la genealogia: il padre muore, lascia l’eredità; ci sono tre fratelli, uno più fortunato, uno meno fortunato e uno sfortunatissimo. Questa è proprio la finitezza, homo homini lupus, cioè il confronto tra umani, l’umana miseria, uno più fortunato, uno meno fortunato, uno sfortunatissimo. Il confronto diretto, il duello: “Tu hai più di me, io ho meno di te, non è giusto, è più giusto. Io che sono sfortunato, ah…”. Proprio le umane miserie, sul terreno della genealogia. Muore il padre e i fratelli, in nome del padre, cosa fanno? Si misurano. A un certo punto, invece, questa cappa genealogica non c’è più. Non c’è più! S’instaura un nome estraneo alla genealogia, alla conferma della parità dei fratelli e estraneo al padre morto come strumento di organizzazione sociale. Sorge il Marchese di Carabas. Da dove viene questo nome? Il Marchese di Carabas è un ossimoro, marchese da niente, marchese delle cianfrusaglie, cioè dal male-bene o dal bene-male è un ossimoro, valore-disvalore.
Devo dire che contavo di verificare la questione degli stivali, proprio per capire se era casuale la questione degli stivali del gatto con la frase, con quest’uso che sicuramente potrebbe richiamare… Però è da verificare l’uso linguistico del “marchese dei miei stivali”, cioè marchese da niente; dunque un marchese che non è marchese per discendenza, ma è marchese nella sembianza. Questo è un nome che funziona nell’abito. Marchese. C’è il nome e poi c’è l’abito regale. C’è una notazione nell’altra morale della fiaba che è interessante, dove dice che l’abito e la giovinezza sono l’armi meglio temprate, come dire che è l’abito che fa il monaco. L’habitus. L’habitus fa il monaco, dunque c’è una questione di vestis, di funzione vuota a partire da cui ci sono delle conseguenze; qui non si tratta dell’abito mentale, o dell’abitudine, ma di un altro abito, della vestis, dell’investimento, che comporta la struttura dell’Altro nella dimensione di sembianza, nella dimensione delle immagini.
Il nome che funziona ha effetti anche pragmatici. La fiaba dice che il Marchese di Carabas non si trova più nel mulino o addirittura estromesso dal mulino, nella miseria, non si trova più nella scena domestica a patire l’ingiustizia paterna o a patire l’ingiustizia da parte dei fratelli. È un’altra scena, dove il nome funziona e, lungo il funzionamento del nome, ci sono effetti pragmatici, di trasformazione, di riuscita. Sorge un dispositivo, allora, “Marchese di Carabas”. Il gatto fa parte di questo ossimoro, cioè dell’animale fantastico che, da una parte, ha il suo versante negativo nel figlio sfortunato e, dall’altra, il suo versante positivo nel gatto che si anima e fa le cose. Ma questo gatto che si anima e fa le cose, chi è? È l’altra faccia del figlio sfortunato. Quindi, il figlio sfortunato è anche il gatto con gli stivali, è l’animale fantastico che ritiene che le cose possono andare male e possono andare bene. Se vanno male, se resta sul versante del negativo, è il figlio sfortunato che si rammarica dell’ingiustizia subita, patita e, invece, sul versante positivo è un immaginifico gatto che vede e provvede al posto suo. Su questo si innesta un nome, un nome che dissipa la genealogia e il ricordo della famiglia d’origine, un nome a partire dal quale si avvia il dispositivo. Nella fiaba, il dispositivo è attribuito al gatto, ma il gatto è il figlio stesso: è il figlio stesso non più figlio sfortunato, misero, rassegnato. Il gatto è il figlio non rassegnato. Questa è la questione. Se il figlio rassegnato dice che deve mangiare il gatto e rassegnarsi a morire di fame, e a aspettare la fine, il figlio non rassegnato diviene Marchese di Carabas.
Una volta lasciata la rassegnazione, incomincia l’itinerario e il dispositivo. Dunque, il gatto non è da intendere nel senso che c’è chi fa le cose al posto di altri, perché il gatto è il Marchese di Carabas. Il Marchese di Carabas è il gatto stesso, e le imprese del gatto indicano il lavoro del nome nella sembianza, cioè in che modo lavora la parola nella dimensione delle immagini. Il gatto non dice la verità, né mente, perché ciò che dice è effetto del lavoro del nome.
C’è una sfilata d’immagini con il loro inganno, con la loro semovenza, non perché sono immagini false, ma perché questa è la struttura dell’immagine. L’immagine, in quanto semovente, è immagine ingannevole. L’immagine non è mai fissa; l’immagine comporta la lettura e è in costante trasformazione. È la questione anche della pittura. L’arte della pittura è propriamente l’arte che indica come l’immagine non sia fissa; è questo che il pittore cerca con la sua scrittura, inseguendo un’immagine che costantemente si trasforma. E questa è la scrittura del gatto: una vicenda che produce una sfilata di immagini lungo il lavoro di un nome, un nome che funziona: Marchese di Carabas. Oggi potrebbe essere “imprenditore” o “il cavaliere” per dire Berlusconi o “il professore” per dire Prodi, tanto per fare degli esempi che attingano all’attualità; cioè c’è un nome, non un nome che rappresenta una genealogia, ma un nome che indica, con il suo funzionamento, una struttura e un lavoro, e quindi ci sono effetti di senso, effetti di trasformazione che vanno verso la qualità, vanno verso qualcosa che tiene, in direzione della riuscita.
Questo gatto, che è molto intraprendente, istituisce dispositivi con le persone che incontra: dite questo, fate questo, facciamo così, facciamo colà, e la sua parola ha effetti. Dice: “Vi faccio a pezzettini, carne per polpette”, d’accordo, ma è la fiaba. Per tutta la fiaba, c’è comunque questo elemento della parola che ha valore; c’è una parola che ha valore e questa parola produce effetti di senso, che nella dimensione delle immagini portano ai possedimenti del marchese, all’abito regale, al castello e a tutta una serie di cose che sorgono tuttavia come dispositivi lungo il percorso. Non c’è la magia, qui, per cui improvvisamente tizio diventa marchese, diventa questo, diventa quello, non c’è la lampada di Aladino o il genio della lampada. C’è la parola che per il suo valore ha effetti, produce effetti e questi effetti sono, nella sembianza, nell’altra scena. Questo mi pare di grande interesse, perché indica propriamente un modo con cui agisce la parola, che ciò che tiene è la parola con gli effetti che da essa provengono. Dunque c’è un nome e, funzionando il nome, c’è l’autorità, questa autorità che procede dal nome, a cui persino il re stesso s’inchina, accondiscende; il re stesso accoglie questa parola e l’autorità che viene da questa parola, gatto o non gatto, perché il gatto, qui, è una finzione narrativa. È, per così dire, l’elemento che indica l’anfibologia del figlio, nel momento della credenza genealogica, nel momento in cui chi si crede “figlio di” può rappresentarsi anfibologicamente, o come figlio negletto, come figlio sfortunato, o come figlio fortunato. Se mantiene questa anfibologia è comunque sfortunato: sia il figlio sfortunato sia il figlio che si crede privilegiato restano “figlio di”, restano nella mitologia genealogica ma, se s’instaura il nome, ecco che allora procede un’altra vicenda.
La fiaba indica il Marchese di Carabas. Ecco, x non è più figlio del mugnaio, non è più mugnaio, non è più figlio sfortunato, è Marchese di Carabas. Ma non è lui il marchese. Questo nome trae verso un cammino, un percorso, inaugura un itinerario, cioè è un nome senza fondamento genealogico, è un nome che non è debitore di un’organizzazione sociale, non deve fondare una stirpe o una progenie, ma inaugura un lavoro, il lavoro del nome.
L’equivoco, che il nome produce funzionando nella dimensione delle immagini, lo possiamo chiamare inganno, inganno delle immagini, trompe-l’oeil, l’inganno della vista. L’immagine non è rappresentata da ciò che si vede. Il visivo non riassume e rappresenta l’immagine nella sua totalità, perché è sempre questione di dettaglio. Lei può provare a guardare un quadro: magari dopo anni che ha un quadro, e lo guarda tutti i giorni, un giorno nota un dettaglio che non aveva mai considerato prima, perché il quadro e l’immagine del quadro non sono la stessa cosa. Ciò che lei nota nel quadro, non è rappresentato dal quadro stesso, non è qualcosa di fisso. C’è nell’immagine qualcosa in continua trasformazione, qualcosa che è equivoco nell’immagine; non è mai stabile, non è mai fisso.
Non sono bugie. Nel senso che è il nome “Marchese di Carabas” che, funzionando, instaura un dispositivo per cui le cose sono effettivamente così. Quando arriva il re, quelli sono i possedimenti del Marchese di Carabas. Non sono i contadini che mentono, non c’è il soggetto mentitore, non c’è nessun soggetto che possa mentire e, per questa ragione, nessun soggetto che possa dire la verità, perché non c’è nessun soggetto. Qui si tratta di un nome, un nome che non ricopre nessun soggetto. È difficile da pensare, ma è l’effettiva questione della parola. Senza parola abbiamo soggetti e è la fantasia con cui si apre la fiaba; senza parola abbiamo una scena lugubre, un padre morto, tre orfani, uno più povero dell’altro, una scena senza parola. Nel momento in cui s’instaura la parola, questa scena non c’è più, questa origine non c’è più. La questione che pone questa fiaba è l’assenza di origine e di genealogia. Non è la fiaba dell’arrampicatore sociale, che da un’origine misera giunge a una scalata sociale, dunque a una posizione sociale di rilievo. Qui non c’è proprio la rappresentazione dell’apparato sociale.
Ciascuno, imbattendosi nell’equivoco, ne ha un effetto di senso, perché il senso procede dall’equivoco, quindi è assolutamente inevitabile, non può non esserci, perché è conseguenza del “lavoratore”, cioè del nome che lavora. Il nome che lavora, che cosa produce? Equivoci. È per questo che si avvia la comunicazione, di equivoco in equivoco sul versante del nome, di menzogna in menzogna sul versante del significante, di abuso in abuso sul versante dell’Altro. La comunicazione è la punta del malinteso, tra equivoci, menzogne e malintesi; ma non equivoci e menzogne soggettivi, equivoci e menzogne dei nomi e dei significanti, perché la parola non vuole dire niente. È nel suo lavoro che produce senso, sapere e verità come effetti. Allora, questi aspetti di equivoco, menzogna, malinteso sono strutturali alla parola. È per questo che si parla: di equivoco in equivoco, di menzogna in menzogna, di malinteso in malinteso. È per questo che la parola va verso la qualifica, avvalendosi dell’equivoco, della menzogna e del malinteso. Altrimenti come si qualifica? Come giungerebbe a qualificarsi se fosse pura o fosse già qualificata? Ma è proprio perché non è già qualificata che, tra un equivoco, una menzogna e un malinteso, si qualifica. Sono elementi della qualificazione questi, inevitabili, e non sono elementi negativi, né negativi né positivi, sono elementi dell’itinerario di qualificazione, fanno parte del processo linguistico; l’equivoco, la menzogna e il malinteso sono costitutivi della lingua, ma non intesi soggettivamente, come possibilità soggettive, bensì come proprietà della lingua, proprietà della parola, modi del funzionamento. Tuttavia questi modi hanno effetti, producono effetti, perché non è affatto secondario per qualcuno ritenersi figlio del mugnaio, rassegnato a morire di fame, oppure ritenersi il Marchese di Carabas; ma non ritenersi nel senso di credersi qualcuno, come nell’enunciato: “Io sono Napoleone”.
Il lavoro del nome produce come effetto il controsenso: ora questo, ora quello, dunque c’è un percorso che si attua, che avviene, con una serie di trasformazioni che la fiaba si rappresenta come trasformazioni fantastiche, di animali fantastici, che sono il modo comune di rappresentarsi le difficoltà, cioè come avvenimenti negativi, possibilità negative. La difficoltà non è una possibilità negativa, è un indice; la difficoltà è indice della non facoltà, dell’assenza di soggetto. La difficoltà è qualcosa di strutturale alla parola. La difficoltà è un teorema della parola: “Non c’è più facoltà”. Non c’è più facoltà soggettiva, facoltà di scelta, perché la tensione linguistica, la procedura linguistica, comincia dalla difficoltà. Dalla difficoltà estrema sorge il Marchese di Carabas. Infatti, enuncia: “Devo morire di fame” e dinanzi a questa difficoltà estrema, sorge lo statuto “Marchese di Carabas”. Si sente dire talvolta di qualcuno: “È partito dal nulla e ora è un valente, insigne personaggio”, ma non è personaggio. A un certo punto ha incominciato a fare partendo dallo statuto instaurato dal nome che ha incominciato a lavorare.
Nella fiaba, apparentemente a partire dal “ticchio” del gatto, Marchese di Carabas diviene statuto, e dalla fiaba porta alla riuscita. Non è più un “ticchio”, è qualcosa che ha una tenuta, trova lo statuto. Questo, così, è un battesimo. Nella fiaba “marchese” è uno statuto che funziona. Che sia di Carabas indica, come dire, che non ha fondamento. È un titolo che non ha fondamento se non nel funzionamento del nome. Questo titolo “Marchese di Carabas” non viene per diritto di sangue, non ha un fondamento araldico. Questo dice nella fiaba questo nome. Marchese di Carabas è un nome inventato, non è un nome del nome; non è un nome che ha il suo fondamento in una stirpe, in una genealogia, in un casato, è un nome che dà il titolo funzionando.
Questo è straordinario, indica propriamente la struttura della parola, che il titolo viene dal funzionamento del nome, non da un fondamento. Per ciascuno, il titolo viene dal nome, dal nome che funziona; non dal nome che crede di avere in quanto tale, ma dal nome che funziona. Qual è per ciascuno il titolo, per cui la sua impresa funziona? Questa è la questione assolutamente essenziale. Forse che x riesce nel suo lavoro perché ha fatto un corso di studi e ha conseguito quello che viene detto un titolo professionale che mette davanti al nome? È quello il titolo? No! Il titolo è il nome che funziona, a partire da cui, eventualmente, anche la denominazione della professione funziona. “Dottore”, “Professore”, “Avvocato” e altri, non è quello il titolo; quello segue il titolo, perché, anche nel corso di studi, se c’è titolo il corso si compie, se non c’è titolo non c’è verso, e gli studi si fermano, perché non c’è il titolo, cioè non c’è il nome che funziona, c’è solo la genealogia. E, stante la genealogia, c’è la paralisi, perché se c’è la genealogia vuole dire che non c’è l’analisi, cioè non c’è l’assoluzione.
Assoluzione, cioè come l’oggetto interviene nella parola. Come interviene l’oggetto? Se non viene inteso questo, le cose non trovano assoluzione e diventano sostanziali. Se c’è la sostanza, c’è la paralisi, perché non c’è il titolo, non c’è il funzionamento e quindi le cose non si svolgono, non si compiono, la scena è fissa, non c’è nessun inganno, tutto è sostanziale. Non c’è nessun inganno, nessuna differenza; è l’ideale della paranoia, che tutto sia tale, sostanziale, fisso, monolitico, stabile, tutto da abolire tutto per rifondare finalmente un mondo pulito, sano, puro, incontaminato.
Il figlio del mugnaio non è mai stato figlio del mugnaio. Non ha da cambiare, perché non è mai stato figlio del mugnaio. Ha da cambiare chi si crede tondo. Credendosi tondo e volendo diventare quadrato, dice: devo cambiare. Ma se non è tondo? Se non è né tondo né quadro? Deve cambiare cosa? La questione è nella parola. La parola non cambia. Oppure deve cambiare la parola? No. L’idea del cambiamento è un’idea gnostica, sostanzialista, realistica. Poi, cosa deve cambiare? Cosa cambia qui? Qui non cambia niente. Cosa deve cambiare? Il figlio del mugnaio non cambia, perché non c’è mai stato. Non c’è nessun figlio del mugnaio. Capisce?
Le cose non cambiano; si assolvono, trovano assoluzione, ma non cambiano. Se dovessero cambiare, allora è la paranoia, nel sostanzialismo più sostanziale. L’idea di cambiamento è un’idea paranoica, la fine del mondo, per dirla chiara chiara. L’idea di cambiamento è un’idea del discorso paranoico come idea di fine del mondo.
Barbablù
Chi ha letto la favola di Barbablù? Leggiamo, così vediamo un po’ di cosa si tratta.
C’era una volta un uomo che aveva case bellissime in città e in campagna: — un riccone — vasellame d’oro e d’argento, suppellettili ricamate e berline tutte d’oro; — quindi è un buon partito, un ricco — ma, per sua disgrazia, aveva la barba blu, e ciò lo rendeva così brutto e spaventoso che non c’era ragazza o maritata la quale, vedendolo, non fuggisse per la paura. Una sua vicina, dama molto distinta, aveva due figliole belle come il sole. Egli ne chiese una in matrimonio, lasciando alla madre la scelta di quella che avesse voluto dargli. Ma nessuna delle due ne voleva sapere, e se lo rimandavano l’una all’altra…
Ci sono due fanciulle e un pretendente; nessuna delle due lo vuole.
…non potendo risolversi a sposare un uomo il quale avesse la barba blu. — Tutto, ma non la barba blu. Perbacco! — Un’altra cosa poi a loro non andava proprio a genio: era ch’egli aveva già sposato parecchie donne — dunque era un po’ libertino questo Barbablù — e nessuno sapeva che fine avessero fatto.
Lui corteggiava, sposava, e poi queste donne che fine facevano? Mah! C’era questa diceria: che avesse già sposato parecchie donne e non si sapeva poi dov’erano andate. Un ragazzaccio questo Barbablù, proprio un ragazzaccio. Ma questo Barbablù ci teneva a una di queste due. Ci teneva. Tant’è vero che…
[…] per far meglio conoscenza, le condusse, insieme alla madre, a tre o quattro delle loro migliori amiche, e ad alcuni giovanotti del vicinato, — proprio una vera brigata — in una delle sue ville di campagna, — compagni di merenda si potrebbe dire, compagni e compagne — ove rimasero per otto giorni interi. Non si fecero che passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini e merende: — le immancabili merende — non si dormiva neppure più, perché si passava tutta la notte a farsi degli scherzi l’uno con l’altro; insomma tutto andò così bene che la minore delle due sorelle cominciò a trovare che il padron di casa non aveva più la barba tanto blu, ed era in fondo una gran brava persona.
E poi aveva quella bella casa.
Non appena furono tornati in città, il matrimonio fu concluso.
In capo a un mese, Barbablù disse a sua moglie ch’egli era costretto ad intraprendere un viaggio, di almeno sei settimane, per un affare assai importante; la pregava di stare allegra durante la sua assenza: invitasse pure le sue amiche più care, le portasse in campagna, se voleva; insomma, pensasse a passarsela bene.
“Ecco qui — le disse, — le chiavi dei due grandi guardarobe; ecco quelle del vasellame d’oro e d’argento che non si adopera tutti i giorni; ecco quelle delle mie casseforti dove tengo tutto il mio denaro, quelle delle cassette dove sono i gioielli, — aveva alcune cosette — ed ecco infine la chiave comune che serve ad aprire ogni appartamento”. — Quindi tante chiavi per i vari ripostigli — “Quanto a questa chiavetta qui, è quella che apre lo stanzino in fondo al grande corridoio al pianterreno; — c’è una stanzetta in fondo — aprite pure tutto, andate pure dappertutto, ma quanto allo stanzino, vi proibisco di mettervi piede” — sopra tutto in fondo o in cima alla torre, alto-basso lo stanzino. Alto-basso, bene-male, in fondo-davanti, certo — “e ve lo proibisco in modo tale che, non sia mai vi entraste, dalla mia collera vi potete aspettare ogni cosa!”. — Categorico, senza equivoci. — “Dalla mia collera vi potete aspettare ogni cosa”.
E lei, cosa fa? Promette di ubbidire, scrupolosamente, agli ordini ricevuti. Lui, dopo averla abbracciata, sale in carrozza e parte per il suo viaggio.
Arrivano le amiche, arrivano tutti gli ospiti, balli, feste, eccetera, ma questa qui non si diverte affatto, perché non vede l’ora di andare ad aprire la porta dello stanzino.
[…] La curiosità la spinse a un punto che, senza considerare quanto fosse sconveniente lasciare lì, su due piedi, le amiche, ella vi andò, scendendo per una scaletta segreta e con una precipitazione tale che, due o tre volte, fu lì lì per rompersi l’osso del collo. Giunta dinanzi alla porta dello stanzino, esitò un momento pensando alla proibizione del marito e considerando che la propria disobbedienza avrebbe potuto attirarle qualche guaio; ma la tentazione era così forte che non poté vincerla; prese la chiavetta e aprì con mano tremante la porta dello stanzino.
Dapprincipio non vide nulla, — buio, molto buio — perché le finestre erano chiuse; ma a poco a poco cominciò ad accorgersi che il pavimento era tutto coperto di sangue rappreso, nel quale si rispecchiavano i corpi di parecchie donne morte appese lungo le pareti.
Una bella fiaba da raccontare ai bambini.
C’era uno stanzino nella casa, dove c’è tutto sangue per terra e, appese ai muri, cadaveri di donne. Bellissimo, educativo! Per un bambino è la miglior cosa.
Nello stanzino, cosa c’è nello stanzino? Per il bambino, cosa c’è nello stanzino? Non andare lì, perché? Perché no. Cosa pensa che ci sia il bambino nello stanzino dove non può andare? Cosa pensa che ci sia? Ve lo dice Perrault.
Erano tutte le donne che Barbablù aveva sposato e che aveva sgozzato una dopo l’altra. Per poco non morì di paura, e la chiave dello stanzino, che ella aveva ritirato dalla serratura, le cadde di mano. Dopo essersi un tantino riavuta, raccolse la chiave, richiuse la porta e salì nella sua camera per riflettere un poco, ma non le riusciva tant’era la sua agitazione.
Essendosi accorta che la chiave dello stanzino era macchiata di sangue, — c’è una macchia, dunque, una macchia di sangue — la ripulì due o tre volte, ma il sangue non se ne andava via; allora la lavò e perfino la strofinò con la rena e col gesso: il sangue era sempre lì, perché la chiave era fatata, e non c’era mezzo di pulirla per bene: — c’è una macchia indelebile, una macchia di sangue, C’è un crimine — se si lavava il sangue da una parte, rispuntava dall’altra.
La sera stessa Barbablù ritornò dal suo viaggio; — ma non doveva stare via sei settimane? — disse che per strada aveva ricevuto una lettera, dove gli si diceva che l’affare per il quale era partito, era stato già concluso in modo vantaggioso per lui. La moglie fece tutto il possibile per dimostrargli ch’ella era felice del suo pronto ritorno.
Il dì seguente egli le chiese le chiavi, lei le consegnò, ma con una mano così tremante che lui indovinò senza fatica tutto l’accaduto. “Come mai, — le chiese — la chiavetta dello stanzino non si trova qui insieme alle altre?”. “Forse, — lei rispose — l’ho lasciata in camera sul mio tavolino”. “Non tardate a restituirmela”, disse Barbablù. Dopo qualche inutile indugio, non si poté fare a meno di portare la chiave. Barbablù, dopo averla ben guardata, disse alla moglie: “Come mai c’è del sangue su questa chiave?”. “Non ne so nulla”, rispose la poverina, più pallida della morte. “Non ne sapete nulla? — replicò Barbablù, — Ma io lo so benissimo! Siete voluta entrare nello stanzino! Ebbene, signora, adesso vi tornerete e prenderete posto accanto a quelle dame che avete visto lì dentro”. Ella si gettò ai piedi del marito, piangendo e chiedendogli perdono — è facile, dopo, chiedere perdono, ma Barbablù… — con tutti i segni di un sincero pentimento. — che avrebbe convinto anche Caterina Caselli, per dire, ma non Barbablù — […] ma Barbablù aveva il cuore più duro d’un macigno. “Bisogna morire, signora — le disse — e senza indugi”. “Dato che devo morire — ella rispose guardandolo con gli occhi pieni di lacrime, — datemi almeno un po’ di tempo per raccomandarmi a Dio”. “Vi accordo un mezzo quarto d’ora, — rispose Barbablù — ma non un minuto di più”. Rimasta sola, ella chiamò sua sorella e le disse: “Anna — era questo il suo nome — Anna, sorella mia, sali, ti prego, sali in cima alla torre per vedere se i nostri fratelli, per caso, non stiano arrivando; mi avevano promesso di venire a trovarmi quest’oggi, e se li vedi, fa’ loro segno di affrettarsi”. La sorella Anna salì in cima alla torre — dunque lo stanzino era in basso, la torre è in alto — e la povera infelice le gridava di quando in quando: “Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?”. E la sorella Anna le rispondeva: “Vedo soltanto il sole che dardeggia e l’erba che verdeggia”. E così sappiamo da chi ha preso De Amicis, per La piccola vedetta lombarda. Intanto Barbablù, brandendo un coltellaccio, gridava a sua moglie, con quanto fiato aveva in corpo: “Scendi giù subito, o salgo su io”. “Ancora un momentino, per piacere”, gli rispose la moglie; e, subito dopo, riprese con voce soffocata: “Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?”. E la sorella Anna rispondeva: “Vedo soltanto il sole che dardeggia e l’erba che verdeggia”. “Scendi giù subito, — gridava Barbablù — o salgo su io!”. “Adesso vengo”, rispondeva la moglie; e poi gridava: “Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?”. “Vedo…, — rispondeva la sorella Anna — vedo un gran polverone che viene da questa parte”. “Sono i nostri fratelli?”. “Ahimè no! sorella mia! È soltanto un branco di pecore!”. “Insomma, vuoi scendere o no?”, sbraitava Barbablù. “Ancora un momento!”, rispondeva la moglie; e poi gridava: “Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?”. “Vedo…, — rispose la sorella, — vedo due cavalieri che vengono da questa parte, ma sono ancora molto lontani… Dio sia lodato! — esclamò un attimo dopo — sono proprio i nostri fratelli! Faccio loro tutti i segni che posso, perché si sbrighino a venire”. Barbablù si mise a gridare così forte da far tremare la casa. La povera donna scese giù da lui e, tutta piangente e scarmigliata, andò a gettarsi ai suoi piedi. “Inutile fare tante storie! — disse Barbablù — dovete morire!”. Poi, afferrandola con una mano per i capelli, e con l’altra brandendo in aria il coltellaccio, si accinse a tagliarle la testa. La povera donna, volgendosi verso di lui e guardandolo con lo sguardo annebbiato, lo pregò di concederle un ultimo istante per potersi raccogliere. “No, — disse lui — e raccomandati a Dio!”. Poi, alzando il braccio… A questo punto, bussarono così forte alla porta di casa che Barbablù si fermò interdetto. Fu aperto, e subito si videro entrare due cavalieri che, sguainando la spada, si gettarono su Barbablù. Lui riconobbe ch’erano i fratelli di sua moglie, uno dragone, l’altro moschettiere, e allora si diede a fuggire per mettersi in salvo; ma i due fratelli gli corsero dietro così lesti che lo acciuffarono ancora prima che avesse potuto raggiungere la scala. Lo passarono da parte a parte con le loro spade e lo lasciarono morto. La povera donna era anche lei quasi morta come il marito e non aveva la forza di alzarsi per abbracciare i suoi fratelli. Si scoperse che Barbablù non aveva eredi; così la moglie diventò padrona d’ogni suo avere. Ne adoperò una parte a maritare la sorella Anna con un giovane cavaliere che l’amava da molto tempo; un’altra parte a comperare il grado di capitano ai fratelli; e il rimanente, a maritarsi con un galantuomo che le fece dimenticare i brutti giorni che aveva passati con Barbablù.
Allora, c’è una morale, anche qui:
“Quella curiosità che tanto spesso costa dolori e gravi pentimenti è un futile piacere, non spiaccia al gentil sesso che, una volta raggiunto, finisce immantinenti”.
È una morale dedicata alle signore. Ma è una morale: non tiene molto conto della fiaba, bensì del discorso comune. Poi c’è l’altra morale:
“Chiunque sia del mondo un po’ informato, subito vede che il racconto nostro non è che storia del tempo passato. Oggi, dove trovarlo un tale mostro di marito che vuole l’impossibile? Per malcontento e geloso che sia, oggi il marito si mostra impassibile al fianco della moglie, e tira via. E di qualunque tinta sia tinto il suo barbone, è difficile dire chi dei due sia il padrone”.
È l’altra morale, questa. Ecco, qui ci sono alcune cose da rilevare, mi pare, però ormai sono le diciannove passate. Dobbiamo aggiornarci alla settimana prossima.
Ciascuno è invitato a fare i suoi rilevamenti in modo che ne possiamo parlare mercoledì prossimo, insieme a quella che è l’ultima fiaba in programma, ossia Il brutto anatroccolo e insieme alle conclusioni degli elementi che abbiamo fino a qui incontrato.
Settima conferenza della serie La lettura delle fiabe