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Ottavo capitolo del libro La lampada di Aladino

Come la salute procede dalla questione di vita o di morte

Ruggero Chinaglia Chi è al corrente di quale sia il titolo di questa sera? Nessuno? Eppure non è un segreto. Nessuno ne è al corrente? Quindi, se non c’è chi sia al corrente del titolo di questa sera, c’è da capire come mai voi siate qui. Io ne sono al corrente, quindi sono qui per questo. Ma ciascuno di voi, non essendo al corrente, come mai si trova qui? Lei, per esempio?

Pubblico Per me è la prima volta che vengo qui. Io dico che La lampada di Aladino è un nome che m’ispira, come associazione, per cui mi incuriosisce sapere di che si tratta. Leggo qui che c’è scritto I giovani, la sessualità, la comunicazione, non so se sia questo il titolo della serata.

R.C. No, questo è il titolo della seconda serie.

Pubblico Allora non c’entra nulla.

R.C. C’entra, nel senso che ciascun incontro affronta anche questa questione.

Pubblico Scopriremo di cosa si tratta.

R.C. Quindi, lei è qui per la lampada, sopra tutto.

Pubblico Sì.

R.C. Bene. E la sua amica, vicino?

Pubblico Sono stata invitata. Siccome ho due figlie adolescenti, la cosa mi ha incuriosito.

R.C. Quindi anche lei per la lampada?

Pubblico No.

R.C. Per Aladino?

Pubblico Siccome ho due figlie adolescenti, allora mi interessava la cosa.

R.C. Giusto, quindi lei non è qui per sé, è qui per i figli.

Pubblico Per i miei figli e, naturalmente, anche per me.

R.C. Chiaro. Altri che siano qui per qualche motivo? No, nessun motivo. E nemmeno c’è chi, allora, abbia qualche domanda da porre? Lei, pur non essendo al corrente.

Cecilia Maurantonio Questo è da verificare.

R.C. È al corrente o non è al corrente di quale sia il titolo di questa sera?

C.M. Rispetto al titolo non sono preparata, però ciò non impedisce di formulare una domanda, perché c’è un tema, c’è un titolo, ci sono state delle lezioni precedenti, lo svolgimento di ciò che è stato detto. La mia domanda verte sulla questione della lampada di Aladino, e mi interessava sapere perché incomincia con il fantasma del padre morto.

R.C. Lei ha letto la storia?

C.M. Sì, devo leggerla ancora una volta e prossimamente lo farò, in funzione anche di questa seconda serie del Grande Fratello. Come si pone e come si introduce il pubblico e come si introduce lo schermo? Come mai ciascuna cosa assume un’importanza assoluta quando si tratta del cinema, della televisione o del monitor? Quindi, se poteva precisare come interviene la videomatica nella sua funzione particolare.

R.C. Quindi, lei non è interessata a quale sia il titolo di questa sera.

C.M. Questo non le impedisce di tenerne conto anche per i prossimi incontri. So che, posta la domanda, entra in una elaborazione, quindi sono tranquilla. Grazie.

R.C. Ho capito, va bene. Quindi non c’è chi sia interessato a sapere quale sia il titolo della serata. Va bene qualunque titolo. Questo perché siete preparatissimi o perché nessuno si è preparato?

Pubblico Ma sta facendo il terzo grado?

R.C. Eh, perché lei è venuto così, alla garibaldina?

Pubblico Guardi che Garibaldi è passato alla storia, questo non dimentichiamolo; dove passava, il segno l’ha lasciato.

R.C. Quindi, lei ha questa mira di passare alla storia? Va bene, allora ve lo dico.

Pubblico Non leggo né “Il Mattino”, né “Il Gazzettino”, va bene? Non li leggo, se c’era scritto non lo so.

R.C. Va bene, ve lo dico. Data l’insistenza così veemente, ve lo dico. Allora, il titolo è Come la salute procede dalla questione di vita o di morte. Adesso che ne sapete di più ci sono domande? No. Quindi, se dipendesse da voi, dovrei stare zitto. Se dipendesse da ciascuno di voi, io dovrei stare zitto perché non ci sono questioni che muovano la curiosità, no? Va bene, per fortuna ho preparato qualche appunto.

La salute è questione intellettuale, per tanto non c’è statistica che tenga. La statistica vorrebbe fornire la rappresentazione statica di ciò che è lo stato dei fatti, intesi come fatti sociali. Ma la salute non è un fatto sociale, non è nemmeno un fatto: è questione intellettuale che non si presta alla previsione, alla predizione e nemmeno alla contabilità dei vivi e dei morti.

Ciascuno è in viaggio, e così ciascuna cosa è in viaggio. Allora, se ciascuno è in viaggio e è esposto all’accadere, all’avvenire, all’evento, è impossibile basarsi sulla statistica, impossibile che il viaggio si basi sulla previsione.

Quali sono le caratteristiche del viaggio? Perché, se fosse per la statistica, il viaggio sarebbe da considerare un viaggio di gruppo o un viaggio di specie o un viaggio di genere. Ma, se ciascuno è in viaggio e ciascuna cosa è in viaggio, qual è il valore della statistica? Qual è il valore della previsione? Se ciascun viaggio è nella sua caratteristica, nella sua distinzione, nella sua differenza, nella sua varietà, fare la statistica del viaggio vorrebbe dire che tutti sono nello stesso viaggio, e che tutti, tutti uguali, sono nello stesso viaggio, uguale, e il viaggio si presterebbe al calcolo delle probabilità. Ma, in assenza di questa omologia, di omologazione, di omogeneità, ciascuno è nel suo viaggio. Dunque, di che viaggio si tratta? Qual è la direzione del viaggio? Non dico la meta, dico la direzione. Qual è la direzione del viaggio?

Il viaggio di cui parlo, che non è di gruppo, né di specie, né di genere, è secondo la logica della nominazione, cioè secondo la logica particolare, la logica della parola, in direzione della qualità. Il viaggio di cui parla invece ogni statistica è in direzione della sua fine. Ogni statistica procede dalla fine del viaggio, e fa il calcolo di dove finirà.

Il viaggio intellettuale, invece, il viaggio che avviene nella parola, è in direzione della qualità e nessuno sa già quale sia la logica e quale sia la qualità. Ignorando la logica del viaggio, il discorso occidentale istituisce la conoscenza della fine del viaggio, istituisce il pericolo della fine del viaggio, istituisce una serie di presunte conoscenze intese a fare l’economia della fine del viaggio, quindi senza nessun interesse per il viaggio, per come va il viaggio, per come avviene, ma ponendo l’accento sulla fine: come, quando e dove va a finire il viaggio.

Eppure, il viaggio di cui si tratta non è la vacanza, non è una sorta di eccezione alla vita, è la vita. Come mai il discorso occidentale, anziché porre la questione del modo di vivere, si accentra attorno alla questione della fine del viaggio? Questa è la questione essenziale. Ognuno si occupa dell’inizio e della fine ma non del modo del viaggio, della direzione del viaggio. E così ognuno si predispone a soddisfare una sorta di prescrizione, e cioè che il viaggio deve finire. Così, il viaggio consiste nell’evitamento, nell’economia di questa certezza, cioè della fine del viaggio. Questa è l’idea naturale del viaggio, cioè della vita. Ognuno della vita ha l’idea che finirà, che deve finire; per tanto il viaggio stesso deve fare l’economia di questa prescrizione. E ognuno si predispone al viaggio con tutte le rappresentazioni che l’idea della fine del viaggio propone: dall’alternativa allo sdoppiamento, all’idea del male da evitare, all’idea del conflitto da evitare, all’idea della fine da evitare, da rimandare. Ma chi si pone la questione di come viaggiare, come fare il viaggio, della direzione del viaggio, della salute del viaggio, della sua salute? Perché gli umani pensano a salvarsi dalla fine del viaggio? Perché hanno un’idea della salute come salvezza, ma ignorano la salute, di che cosa si tratti quanto alla salute, che non è evitare la fine del viaggio, ma è nel modo del viaggio. L’idea che ognuno ha della salute è l’idea di assenza del male, di economia del male, di evitamento del male, quindi sempre con il male davanti da conoscere per evitarlo. Pensando, ognuno partecipa della fatalità del male, del fatalismo del male, cioè del male considerato ineluttabile e di cui si tratta di somministrarsi la dose minima possibile per sopportarlo il più a lungo possibile. È una specie di lunga agonia.

Pubblico Lo chiamano istinto di conservazione, che è innato.

R.C. Istinto di conservazione! Per di più innato! E questo dove sta scritto?

Pubblico Un bambino, sin dalla più tenera età, capisce che comportandosi in un certo modo può farsi male fisicamente e psicologicamente. E facendo altre esperienze, capisce che ci sono altri modi per farsi male. Freud diceva che ogni essere umano cerca di vivere facendo in modo di evitare i dispiaceri. Credo che sia un istinto dell’essere umano evitare ciò che potrebbe procurare del dispiacere.

R.C. Ma se non fosse affatto noto ciò che sia male, dove stia il male, come potrebbe questo bambino impostare la sua vita per evitare il male?

Pubblico Allora parliamo di male fisico, che si vede subito, perché se mette il dito sul gas acceso, si brucia, e non lo farà più, perché da quel gesto ha avuto una percezione che gli ha provocato un dolore.

R.C. Ecco, quella è una percezione, una percezione dolorosa. Va bene.

Pubblico Il bambino va insieme a altri bambini e si scontra con uno di questi, e allora cosa fa? Pensa che reagendo in quel modo, se vuole l’amicizia di quel bambino, non dico che si sottoporrà alla volontà dell’altro ma, in qualche modo, farà qualcosa affinché possa ricevere l’amicizia del bambino, evitando ciò che eventualmente gli procura dispiacere. Questa volta ha fatto un’esperienza non di male fisico, ma di male psicologico o di male psichico.

R.C. No, lei dice che si scontra, litiga, quindi quel bambino non ha il male dinanzi a sé. Infatti, ha dinanzi a sé un’eventualità, per esempio il pallone, e fa qualcosa per conseguirlo. Dunque, ammettiamo che arrivi allo scontro, questo scontro in che senso sarebbe un’esperienza del male?

Pubblico Il padrone del pallone non è lui, ma è un altro bambino, e lui lo vuole; chiaramente, il proprietario del pallone non può dargli il suo pallone. Allora ha capito che è meglio avere un suo pallone, ha fatto l’esperienza che servirà per evitare un ulteriore dispiacere.

R.C. Ecco, noi non sappiamo se questo sia un piacere o un dispiacere.

Pubblico Penso che il bambino soffra.

R.C. Ho capito. Lei pensa che il bambino soffra, lei lo vede e dunque “pensa che…”, pensa qualcosa. Pensa che soffra, pensa che gioisca, pensa che cosa possa essere per lui bene o male. È qui che incominciano, per così dire, i guai rispetto al viaggio. Ora, è chiaro che il bambino è un pretesto. È chiaro che ciascuno si avvale di pretesti. Anche Freud, per indicare come nulla sia innato, ha preso a pretesto il bambino, ha preso a pretesto lo sviluppo, le fasi, ha preso vari pretesti, in particolare quelli che più si prestavano per farsi ascoltare. Ma nemmeno Freud poteva pensare che gli umani fossero così bestie, e cioè che prendessero il pretesto per svolgere un ragionamento, si fissassero su quello e non ascoltassero il ragionamento; per cui ognuno si è dedicato allo studio delle fasi dello sviluppo del bambino, a pensare come catalogare lo sviluppo ideale del bambino ideale, senza tenere conto del ragionamento, della questione che stava nell’esempio, ma non come esempio generale, come esempio particolare, come pretesto per cogliere la particolarità di qualcosa. È così che, per lo più, è stato letto Freud, cioè come campione di psicologismo. Invece no, Freud non ha indicato come dev’essere lo sviluppo, il comportamento, e via via l’educazione del bambino ideale. Ha posto, invece, la questione della logica particolare, ha posto la questione dell’inconscio come qualcosa che è assolutamente in-conosciuto, non comune, non partecipabile, quindi non per tutti, ma come questione intellettuale per ciascuno, come questione del viaggio di ciascuno, in quanto l’inconscio è condizione del viaggio di ciascuno.

Pubblico Durante il quale si cerca di evitare i dispiaceri.

R.C. No.

Pubblico E invece sì. Perché, guardi, non parliamo più dei bambini, parliamo invece delle persone adulte. Io leggo lì Il grande Fratello, e la cosa mi offende terribilmente, perché non penso a George Orwell, penso a quel programma che fanno in televisione. Allora, io, che faccio? Per evitare il dispiacere di sentirmi offesa da quel tipo di programma, io non lo guardo e proseguo il mio viaggio, in direzione di che cosa? Di ciò che mi possa gratificare.

R.C. E già qui c’è una prima distinzione tra il piacere e la gratificazione.

Pubblico Anche questo è piacere, il sentirsi gratificati.

R.C. Invece, noi non sappiamo già. Non sappiamo. Noi partiamo da questa base, che non sappiamo. Solitamente, l’oratore per accattivarsi una parte dell’uditorio, dice “Noi sappiamo che…”, “Noi sappiamo…”, quindi, almeno una parte dell’uditorio è con lui perché sono d’accordo. Invece, “noi non sappiamo”, perché ciascuno vive nella differenza e nella variazione assoluti per quel che riguarda ciascun atto. E, dunque, la differenza e la variazione assolute comportano che noi non sappiamo. Per potere ascoltare ciò che altri dice, occorre che s’instauri questa condizione d’ignoranza assoluta, perché se noi sappiamo già cosa va a promuovere la domanda, dove si dirige, che cosa chiede, com’è, qual è il suo piacere, qual è il suo dispiacere, eccetera, se noi sappiamo già tutto non ascoltiamo nulla, perché “noi sappiamo già”. E se noi sappiamo già, siamo assolutamente assordati da quel che sappiamo o, meglio, che presumiamo di sapere. Per ascoltare, per udire prima, e per ascoltare poi, qualcosa della particolarità della domanda che ci è rivolta, occorre non sapere già, non sapere già che cosa ci è chiesto e quale sia la risposta. Altrimenti è per tutti la casa del Grande Fratello, dove ognuno sa già quel che accadrà, quello che l’altro vuole, quello che vuole lui, quello che vuole lei. La casa del Grande Fratello è la casa dove “noi sappiamo già”, è la casa della lingua comune, è la casa dell’obiettivo comune, è la casa del male comune, è la casa del bene comune, è la casa dell’idiozia. Questa è la casa del Grande Fratello, la casa dell’idiozia, ma la base dell’idiozia è il sapere comune. È sulla base dell’idiozia che si fonda il sapere comune, perché invece l’idioma, cioè la lingua che procede dalla particolarità, non è comune. Lo dice la parola stessa: idioma, qualcosa che procede dalla particolarità, e questa particolarità non è nota, non è già saputa.

È questo che Freud chiamava l’inconscio, la particolarità ignota. L’inconscio è la particolarità ignota, è la logica ignota secondo cui va il viaggio; qualcosa di paradossale. Ma ogni altra presunzione sfocia nella casa del Grande Fratello, dove tutto è cosciente, tutto è saputo, tutto è rettilineo, senza particolarità, dove vige l’idiozia. Allora, non si tratta di offendersi rispetto a questo, né di reagire. Si tratta, invece, di non accettare, di non accettarlo intellettualmente; non di non accettarlo razzisticamente, severamente, ma di non accettarlo intellettualmente.

Cosa vuole dire non accettare intellettualmente qualcosa, in particolare l’idiozia? Vuole dire andare secondo l’ignoto. Ma qual è? È qui che la questione diventa complessa e interessante. Vuole dire non seguire la via facile, la via della banalità, del facile sapere condiviso. E badate che il facile sapere condiviso è ciò che regge quello che è chiamato il sistema sociale e civile. Ogni sistema si regge su questo: sul facile sapere condiviso.

Pubblico Sussiste la cultura della superficialità.

R.C. Che sarebbe?

Pubblico Il facile sapere condiviso che viene propinato dai mezzi di comunicazione trova consenso nel pubblico.

R.C. Chiaro. Quanto più è facile tanto più è condiviso.

Pubblico Quello che propinano i mezzi di comunicazione, a mio avviso, è molto superficiale e non dà alla gente la possibilità di riflettere sul viaggio, sulla vita e sulle vere cose che sono davanti a noi, sui veri valori su cui ognuno dovrebbe appoggiarsi.

R.C. Ecco, il valore. Ora, lei ha toccato una questione importantissima: il valore e i valori. Ma, come appoggiarsi sui valori?

Pubblico Secondo me i valori sono quelli che a noi non procurano dispiacere.

R.C. Ma noi non è che possiamo vivere per l’edonismo, non possiamo vivere per il piacere. Non è che non possiamo perché sia brutto, ma ancora una volta vorrebbe dire presumere di conoscere già dove stia il piacere.

Pubblico Il piacere è ciò che non ci fa male, ciò che ci procura serenità per noi, ciò che ci fa stare in pace con il nostro inconscio e con la nostra coscienza.

R.C. Può darsi. Ammettiamo di accogliere questa ipotesi. Ma dunque, se questo è il piacere, cioè quello che ci procura la serenità, la tranquillità…

Pubblico Questo non significa che stiamo fermi.

R.C. Esatto. E non stiamo fermi. Bravissima. E dunque, di questo piacere non c’è conoscenza possibile perché, dato che siamo in viaggio, dato che non stiamo fermi, il nostro viaggio procede nella differenza e nella variazione, nell’arte e nella cultura. Il piacere è un effetto, è un effetto del viaggio, non un suo sostegno. Noi lo incontriamo viaggiando, non è ciò su cui possiamo appoggiarci per viaggiare, e dunque non sappiamo già dove stia, come sia, non possiamo riprodurlo.

Pubblico No, anzi, è proprio questo che stimola verso il viaggio: il fatto di non conoscere ciò che c’è da scoprire.

R.C. Perfetto.

Pubblico Infatti, quando si legge un libro di cui non si conosce neanche l’autore, allora che cosa succede? C’è la curiosità di scoprire cosa c’è dietro, che cosa c’è nel libro, nascosto tra quelle parole. E così, una volta che lo si è scoperto e si è arrivati alla fine del libro, possiamo pensare se quel libro ci è piaciuto o non ci è piaciuto, se ci ha gratificato o non ci ha gratificato, se ha proposto dei problemi, delle opinioni condivisibili o non condivisibili da chi legge. Quindi, il fatto di leggere un libro è come iniziare un viaggio a breve termine: inizia e finisce. Ma, lei diceva all’inizio che si viaggia senza pensare a come si viaggia, ma pensando soltanto alla fine. Io ogni tanto ci penso, alla fine. Penso alla morte e ho paura, e questo è innato secondo me, e quando penso alla morte preferisco non pensarci, perché ho paura.

R.C. Lei fa spesso ricorso all’idea di innatismo.

Pubblico Sì, per me è troppo importante.

R.C. E si è chiesta perché?

Pubblico Sì, certo. Non mi sono data una risposta però ci penso, ci rifletto.

R.C. Comodo però non darsi una risposta.

Pubblico Mi rende felice, mi rende serena. Io sono un’insegnante e quando ho un successo mi sento gratificata, sono felice e torno a casa volando.

R.C. E se non si sente gratificata?

Pubblico Sto male.

R.C. Vede? Quindi lei ha degli alti e dei bassi.

Pubblico Sì, repentini.

R.C. E non le pare una fregatura?

Pubblico No, mi sento viva, mi fa sentire viva. Il fatto di avere degli alti e dei bassi mi fa sentire bella, mi fa sentire viva, sono serena.

R.C. Ma no, se ha i bassi non è serena.

Pubblico Eh no, però so che poi arriveranno gli alti.

R.C. Eh, lo sa, e spera.

Pubblico Ce la metto tutta perché sia così.

R.C. Quindi, lei sa. Sa che ci sono gli alti e sa che ci sono i bassi.

Pubblico È anche una questione di economia, così si parlava. Anche in economia ci sono gli alti e i bassi.

R.C. Brava. È una questione di economia. Prima, questo dicevo: l’economia della morte, l’economia del male.

Gregorio G. Volevo chiedere alla signora, in merito a quello che si diceva prima, sulla legge del massimizzare il piacere e minimizzare il dolore: come mai ci sono persone che perdono le speranze? Come mai questa gente si fa del male, del male fisico? Quello che lei chiama istinto di sopravvivenza, dove sarebbe?

R.C. Ecco, la questione è posta. Il nostro amico Gregorio pone un’istanza di differenza. Se cerchiamo di localizzare il bene e il male, il piacere o il dispiacere per potere fare il viaggio con questo criterio, ebbene noi, così facendo, facciamo un torto al viaggio. In che senso? Creiamo il cerchio, la circolarità del viaggio basato sulla presunzione di potere ripetere l’esperienza piacevole per evitare quella spiacevole. Facendo in questo modo, intanto, confondiamo il piacere con la piacevolezza e, dunque, confondiamo il piacere con la coscienza del piacere, con il ricordo del piacere, confondiamo il piacere con la rappresentazione del piacere, rappresentazione come ciò che viene rappresentato, come la presentificazione del piacere. Il piacere non è questo.

Pubblico Io so cosa può fare piacere al mio bambino.

R.C. No, lei proponga al suo bambino che cosa è il piacere, e lui le dirà: “No, non è questo. No, questo no”. “È questo?”, e il bambino le dirà “No, non è questo”. Ma perché? Perché il piacere è ignoto. L’idea di potere riprodurre il piacere va in scacco, incontra uno scacco per cui è sorto il discorso isterico.

Il discorso isterico sorge proprio allo scopo di ribadire l’impossibile coscienza del piacere, che ha come corollario il fallimento di ogni forma di condivisione del piacere. Questo dice il discorso isterico: non c’è condivisione del piacere e che ogni rappresentazione e ripresentazione proposta del piacere come bene altrui, ebbene, “non è questo”, non è così! Il discorso isterico dice che non c’è possibile rappresentazione del piacere proponibile come bene altrui. Non c’è chi sappia, conosca dove sta il “mio” piacere. Su questo insiste il discorso isterico che, dunque, è il discorso che più di ogni altro mal sopporta il totalitarismo e cioè anche il maternage, il discorso materno che vorrebbe inculcare la nozione rigida, fissa di bene, di piacere e quant’altro secondo un principio sostanzialista, cioè secondo un principio che ne possa consentire la localizzazione e la riproduzione. Se ben guardiamo, questa è la pedagogia.

Se voi volete sollecitare l’isteria fate i pedagogisti, fate i pedagoghi e avrete immediatamente un esempio di cos’è, di dove mira e a chi si rivolge il discorso isterico, che più di ogni altro ribadisce che non c’è coscienza del piacere, non c’è coscienza del godimento, non c’è coscienza del sapere, ma che sono effetti lungo il viaggio. Quando il discorso isterico dice “il viaggio è mio e me lo gestisco io”, cosa che veniva parodiata negli anni ‘70 con l’immagine del corpo, dice che non c’è coscienza del viaggio, che nessuno può dirigere il viaggio altrui, nemmeno con le migliori intenzioni, perché non bastano le intenzioni per intendere.

Intenzione e intendimento, apparentemente prossimi, sono agli antipodi. Ogni intenzione è contraddetta dall’intendimento perché il viaggio non è rettilineo, la via non è rettilinea, il viaggio non è circolare, il modello del viaggio non è quello del cerchio, che sarebbe il modello del viaggio idiota. Il viaggio idiota è il viaggio comune, il viaggio di gruppo, tutti nello stesso viaggio. Ma questo non è il viaggio. Ciascuno è nel suo viaggio. Questa è l’istanza intellettuale: ciascuno nel suo viaggio. E dunque pone la questione di quale sia l’educazione perché sia soddisfatta questa istanza suprema, suprema per ciascuno, perché ciascuno esige le proprietà del suo viaggio, che non sono né condivisibili né conoscibili per analogia da un altro viaggio. Non c’è casa comune.

Pubblico C’è famiglia.

R.C. Sì, bravissima, c’è famiglia. Assolutamente. E questa è una questione importante: la famiglia. Ma, dunque, come intendere la famiglia perché non si produca come la casa del Grande Fratello? Perché non basta dire famiglia perché automaticamente si ponga nei termini della famiglia originaria, cioè della famiglia nella parola e non invece nei termini della genealogia. Molti dicono famiglia e intendono genealogia.

Pubblico Può darsi. Quando uno parla di famiglia pensa alla genealogia, non alle altre famiglie.

R.C. Genealogia è già mortalità, è già la fine del viaggio. Allora, se famiglia diventa il nome della fine del viaggio, lei capisce che diventa qualcosa da aborrire. Infatti, accade spesso di constatare che c’è chi fugge dalla famiglia, chi si ritorce contro la famiglia. C’è chi dice: “Strano, era una famiglia così di gente perbene, non gli facevano mancare niente, erano così brave persone, facevano tutto per il suo bene”. E allora si è capito perché c’è stata questa reazione: perché non era famiglia, era genealogia. Era fantasma di mortalità, era prigione. Non basta dire famiglia perché s’instauri effettivamente la famiglia nei termini dell’originario, perché, se io dico famiglia, e produco e confermo il fantasma di mortalità, lei prima diceva che questo produce la paura.

Pubblico Certo.

R.C. C’è chi dice: “È inspiegabile, una famiglia che si è disgregata, distrutta, rovinata, ognuno in lotta con i fratelli, con i parenti, con i genitori, con i figli”. Certo, quello è il minino che possa capitare in una genealogia, cioè in un apparato dove viene proposta, confermata, riaffermata in ciascun istante la mortalità, la fine del viaggio, l’imbrigliamento del viaggio, la prigione in cui il viaggio non può svolgersi.

Pubblico Però ci sono anche famiglie che sono il contrario di quello che lei ha detto, delle famiglie positive, dove c’è il dialogo, dove il viaggio è lasciato fare, dove si parla, dove si mettono in evidenza dei problemi e si cerca di risolverli insieme. Esistono anche questo tipo di famiglie, che in genere si dicono famiglie positive.

R.C. No. O c’è la famiglia o c’è la genealogia. Famiglia genealogica, no. È impossibile, cioè o c’è la famiglia o c’è la genealogia, perché sull’idea di fine la famiglia non sorge nemmeno. Quindi, o famiglia o genealogia.

Pubblico E allora parliamo di famiglia positiva.

R.C. Ma non è la stessa cosa. La famiglia non è né positiva né negativa. Si tratta della questione intellettuale che è complessa. Allora, se noi non sappiamo dove sta il bene e dove sta il male, il viaggio non va né verso il bene né verso il male, perché con questa idea il viaggio non si svolge, ma si arresta subito dinanzi alla prima difficoltà. Perché se dinanzi a noi abbiamo l’eventualità del bene e del male e ogni circostanza può avere il segno negativo davanti, come dicevamo la settimana scorsa, allora è la paralisi. Se dinanzi a Edipo ci fosse il bivio, se Edipo potesse scegliere tra il bene e il male, Edipo si fermerebbe al bivio. Come rischiare di scegliere il male? Se dinanzi a noi c’è il conflitto, noi siamo assolutamente paralizzati, immobili. Se dinanzi a noi c’è l’alternativa fra il bene e il male il viaggio non avviene. Se dinanzi a noi abbiamo l’idea, anche solo l’idea, del bene o del male, questa idea ci paralizza. Se il bene/male è alle spalle, se il conflitto è alle spalle, se l’apertura è alle spalle – e bene/male è l’apertura, è il modo dell’apertura – allora noi possiamo andare in direzione della qualità del viaggio; ma se abbiamo dinanzi l’idea del bene o del male, questa idea arresta il viaggio. Allora ecco la questione intellettuale, la questione aperta, la questione di vita o di morte.

Chi avesse dinanzi la morte, certamente non procede. Allora, avere dinanzi l’idea del male, l’idea di morte è la stessa cosa. L’idea di alternativa è la stessa cosa. O questa idea trova modo di elaborarsi fino a dissiparsi, oppure è ciò che produce l’arresto del viaggio intellettuale con ciò che comporta, perché viaggi di gruppo ce ne sono tanti come viaggi piacevoli, come viaggi intrapresi come idea di piacevolezza. L’idea di piacevolezza è ciò che consente di poter soffrire, perché tanto so che poi verrà qualcosa di piacevole. Su questa alternanza tra il piacevole e lo spiacevole si fonda l’accettazione della morte, cioè si fonda l’accettazione della vita intesa come una successione di alti e di bassi. Ma la successione degli alti e dei bassi è senza ritmo, è una accettazione algebrica dell’eventualità del bene o del male, senza però intendere di cosa si tratti in questa idea del bene e in questa idea del male.

La questione del piacere è una questione estrema. Il piacere giunge improvvisamente, come effetto estremo, e dunque è imprevedibile. A nessuno può essere consigliato dove troverà il piacere, perché non si tratterebbe del piacere. Sì, forse di qualcosa di piacevole, ma che nulla ha a che vedere col piacere. Mi rendo conto che è qualcosa di difficile da capire, perché ognuno si appoggia su qualcosa, tende quantomeno a appoggiarsi su qualcosa; ma questo qualcosa su cui si appoggia non è il valore del suo viaggio, perché è impossibile appoggiarsi su qualcosa che avviene. Se io mi appoggio su qualcosa, certamente non è qualcosa a cui vado incontro, ma è qualcosa su cui sono seduto o accasciato o appoggiato. Sarà un’abitudine, solitamente ci si appoggia sulle abitudini. E l’abitudine, ogni abitudine, è indice che il viaggio è fermo, appoggiato. Non c’è viaggio dove c’è l’abitudine, non c’è viaggio dove ci sono gli appoggi, i punti di appoggio. Il viaggio esige il movimento, il ritmo, non la statica o la statistica. Esige il rischio, il rischio del viaggio che è rischio di verità e rischio di riuscita. È chiaro che non si tratta, come dicevo prima, di un viaggio comune o comunemente inteso.

Pubblico Quindi dire che uno è abituato a viaggiare, è abituato ai viaggi, è una gran castroneria.

R.C. Sì, ma qui non parliamo dei viaggi, ma del viaggio, perché non ce ne sono tanti. Ciascuno ha un solo viaggio, questa è la distinzione. Non ci sono tanti viaggi da fare, ciascuno ha un solo viaggio. Non è che sia solo viaggio di andata o solo viaggio di ritorno, ha un solo viaggio in cui le cose vanno e vengono, in cui si tratta di tante cose, ma qui si tratta sopra tutto della qualità, della qualità del viaggio che non dipende dalla classe, non c’è viaggio di prima, seconda o terza classe, dove basta pagare il biglietto. La qualità del viaggio è il frutto di una serie di cose che non sono prestabilite e che non dipendono nemmeno dalla volontà così detta soggettiva, anzi: più c’è questa volontà, tanto meno il viaggio procede.

Il viaggio è qualcosa che esige l’astrazione assoluta e lo statuto intellettuale, ossia l’attraversamento dei luoghi comuni, vale a dire di ogni mitologia che riguardi la padronanza sul bene e sul male, che è sempre padronanza sulla morte.

Ora, se noi leggiamo la favola di Aladino, il primo messaggio, quello che si coglie subito, è proprio questo: Aladino ignora, ignora ogni cosa. Aladino non sa, non sa prima quel che avverrà dopo, per cui è costretto all’ingegno per capire, per intendere.

Pubblico Aladino non sa, però capirà. Quindi, la lampada è la luce della conoscenza.

R.C. Eh, questa è la lettura facile! Questa è la lettura del catechismo. Siamo al catechismo. Siamo all’illuminismo. Siamo nel 1700!

Pubblico Ma perché? Ho detto semplicemente la mia opinione.

R.C. Sì, questo è un modo facile, non siamo al Costanzo show.

Pubblico E però qui si possono esprimere le opinioni personali.

R.C. Sì, ma bisogna veramente meditare. Meditare vuole dire intendere che la parola è il mezzo e che segue una logica particolare. L’illuminismo, come riproposta del dialogo platonico, è un discorso di padronanza, cioè un discorso dove tutto è già codificato. Se Aladino non sa, e come lei giustamente dice, inventa qualcosa, allora questo è originario. Questo sta in ciascun atto! Questo qualcosa che inventa vale in quell’atto. Per un altro atto occorre un altro ingegno, un’altra trovata, un’altra invenzione. E, in ciascun atto, Aladino ignora. Questo gli consente di inventare, di procedere, perché mai si appoggia su ciò che sa, cioè mai si appoggia sulla conoscenza illuministica o illuminata, mai si fonda su un’abitudine.

Allora, il viaggio è il viaggio originario, cioè incontra ciascuna cosa nell’originario di quella cosa, non nella sua rappresentazione, non nella sua presentificazione, non nella sua idealità, ma nell’originario. E in questo statuto c’è l’incontro con l’inedito, con la novità, e dalla novità la qualità e dalla qualità il piacere. Il piacere come piacere originario che mai può diventare ricordo del piacere, cioè piacevolezza, da pensare di ritrovare la volta dopo, perché la volta dopo è un’altra volta. E se noi pensiamo di fare l’economia dello sforzo, pensando che la volta prossima sarà come la volta prima, ci troveremo molto delusi perché avremo mancato l’incontro.

Pubblico Cosa intende per parola originaria?

R.C. La parola originaria è la parola il cui testo mai può darsi come già noto, quindi parola che mai può darsi come conosciuta, come già saputa, a cui potere attribuire un significato già acquisito, ma di cui si tratta, ciascuna volta, di cogliere la sezione, la lezione, la sfumatura, di cogliere l’uso, l’usura, fino alla cifra.

Pubblico Sì, ma non c’è solo la parola.

R.C. Faccia un esempio.

Pubblico L’immagine.

R.C. L’immagine è una dimensione della parola, non è qualcosa di estraneo.

Pubblico Un gesto.

R.C. Un gesto è un gesto nella parola. Può darsi un gesto fuori dalla parola? Sarebbe la sostanza, sarebbe l’idiozia. Un gesto fuori dalla parola sarebbe l’idiozia. Un gesto è una parola. È nel dispositivo della parola.

Pubblico Mi viene in mente dal Genesi della Bibbia: “All’inizio era il verbo”.

R.C. No, non “all’inizio”, ma “In principio era la parola”, ossia en archè. Archè è un termine interessante. Archè non è l’inizio, l’inizio che chiama la fine; non è nella logica del segmento, non è nella logica del sistema finito, ma si tratta della parola nel suo principio, quindi nella parola, in un dispositivo in cui non vige l’idea di sistema, cioè il cerchio.

È difficile, difficilissimo ammettere, accogliere questa nozione di parola non sistematica, perché l’educazione che viene impartita sempre a ognuno è invece in questa direzione. La questione intellettuale è la questione della parola originaria, cioè della parola dove non c’è sostanza. E se non c’è sostanza, non c’è nemmeno padronanza. Se non c’è sostanza non c’è nemmeno la possibilità di creare un sistema. Dunque, la parola è libera. La parola libera è la parola senza sostanza, è la parola originaria. Ma libera in che senso? Libera di qualificarsi, libera di giungere al suo valore, libera di trovare nel viaggio il suo valore. È questo che promuove il viaggio. Se il valore ci fosse già prima, perché viaggiare? Perché fare il viaggio? Perché vivere? Qualcuno chiedeva la settimana scorsa: “Perché vivere?”. Per questo, proprio per questo.

Pubblico Comunque, la salute è una situazione provvisoria.

R.C. E così abbiamo fatto crollare tutto l’edificio. No, è vero che la salute, più che provvisoria, è aleatoria, perché non è uno stato, un modo di essere che può essere perduto o incrinato. La salute è un’esigenza, un’istanza che trova soddisfazione nel viaggio. Se non viene inteso ciò, ognuno vive nell’idea di liberazione, nell’idea di salvezza, ma in assenza di libertà e di salute.

La negazione della libertà è l’idea di liberazione. Se c’è chi pensa che deve liberarsi è perché evidentemente si pensa schiavo, e non occorre che lo sia ma, se si pensa schiavo, lo è. Quindi, l’idea di liberazione fonda quella di schiavitù e, per quanto si possa pensare alla democrazia, l’idea di liberazione manterrà sempre la schiavitù, una schiavitù ideale, che promuoverà una forma di liberazione ideale che non verrà mai raggiunta. Così come l’idea di salvezza dal male o dalla morte mai farà sì che si possa conseguire la salute, perché salute e salvezza sono antitetici.

Ma per intendere questo è indispensabile affrontare il processo di qualificazione delle cose, perché per lo più noi sentiamo parlare di libertà, ma si tratta di liberazione, noi sentiamo parlare di salute, ma si tratta di salvezza, cioè di fantasie che confermano la negazione di ciò che vogliamo conseguire. Ma questa è la questione intellettuale: intendere che c’è una differenza tra lo statuto originario di ciascuna cosa e l’idea che ne abbiamo. L’idea che noi abbiamo delle cose è assolutamente differente dalle cose. Noi possiamo dire famiglia, ma se pensiamo alla genealogia, sarà genealogia e non ci sarà famiglia. Noi possiamo dire salute, ma se l’idea che noi abbiamo è di salvezza, sarà costantemente una forma di economia del male, che per sua necessità esige giorno per giorno un po’ di male per consentire il processo di liberazione. Questa idea di liberazione dal male, dalla morte, dall’Altro, da questo, da quello, è ciò che istituisce la prigione.

L’esperienza della cifrematica è l’attraversamento delle rappresentazioni che ognuno ha delle cose per non rimanere avviluppato nel fantasma di mortalità, perché ognuno si rappresenta le cose come secondarie alla loro mortalità e alla propria mortalità. E in questa condizione, che viaggio è? Più che un viaggio può trattarsi di un pellegrinaggio, un viaggio a Lourdes, a Fatima o altrove. Ma questi pellegrinaggi che cosa dicono? Pongono proprio l’istanza di questo altrove.

Ognuno si rappresenta l’altrove nella morte, per cui occorre restituire al viaggio l’altrove originario, senza bisogno di andare a Lourdes, a Medjugorje o chissà dove, o di sbattere la testa contro qualcosa: occorre restituire al viaggio l’altrove originario. Ma questo altrove è reperibile solo se non c’è l’idea di sostanza, se non c’è l’esigenza illuminista di localizzare e di dare un nome alle cose. Se il nome deve essere stabile, codificato, comune e condiviso, è la fine del viaggio. Ciascuno ha invece l’esigenza del viaggio, ha l’esigenza che il viaggio approdi alla qualità. Questa è la scommessa!

E allora occorre seguire le indicazioni di Aladino, l’indicazione non della prima lettura, ma di una seconda o di una terza, cioè che occorre l’ingegno. Ma quale ingegno? Di che cosa si tratta nella lampada che non diffonde luce? Perché, se lei va a rileggersi la fiaba…

Pubblico Sì, l’ho letta.

R.C. L’ha letta? Ha fatto caso a quel passo dove dice che deve essere prima svuotata di tutto ciò che possa farla funzionare come lampada illuminante? Ecco, quella è la lampada che non illumina. La lampada di Aladino è una lampada che non illumina. E qui sta la sua qualità: è la lampada che non illumina, e proprio perché non illumina risulta essenziale! E per capire perché, quindi quale sia la caratteristica di questa lampada che non illumina, ma che è essenziale, e da cui procede il viaggio di Aladino e da cui procede il viaggio di ciascuno, ci diamo appuntamento alla settimana prossima.

Pubblico Ma è illuminante.

R.C. No, non è illuminante proprio per quello. Ma io capisco ciò che lei intende dire, però occorre fare un passo in più.


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